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Giovedì, 14 Maggio 2009

Viaggio nella Pannonia

Il Danubio è arrivato. Non riesco a sentire il suo odore per il momento, mi limito a vederlo: sciogliersi di fianco a me, tra un treno passeggeri e uno merci che cercano invano una strada che c'è sempre stata. Ho incontrato lo spirito del Danubio.
Concorso Storie Vagabonde

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Il Danubio è arrivato. Non riesco a sentire il suo odore per il momento, mi limito a vederlo: sciogliersi di fianco a me, tra un treno passeggeri e uno merci che cercano invano una strada che c'è sempre stata. Ho incontrato lo spirito del Danubio.

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Il Danubio è arrivato. Non riesco a sentire il suo odore per il momento, mi limito a vederlo: sciogliersi di fianco a me, tra un treno passeggeri e uno merci che cercano invano una strada che c'è sempre stata. Ho incontrato lo spirito del Danubio. Occhi azzurri e capelli paglia, è salito sul nostro vagone, non parla molto bene l'english ma sta cercando di impararlo su di un libro delle scuole medie. Fa l'agricoltore, come i nostri nonni. Ha tirato fuori dal suo borsone lacero di pelle nera una bottiglia di vino, bianco e "acidello", ma carico di tutti i sapori di un'incontro inatteso. Si chiama Nikolai, Niky, racconta che prima di tornare alla sua terra è rimasto arruolato per dieci anni nell'esercito, poi ha detto di non farcela più e di essersene andato, non era il suo mondo quello, lui ama la pace. E' gentile e disponibile al dialogo nonostante i reciproci confini linguistici, continua a dire che sta tornando a casa, non so da quanto tempo manchi, ma nelle sue parole e nei suoi occhi si sente tutto l'amore per questa sua terra d'Ungheria, una terra che deve molto se non tutto alle sue acque. Il treno per Budapest continua ancora a costeggiare Doana, un altro nome del Danubio. Nella capitale Niky ha studiato fino ai primo anno delle nostre scuole superiori. Ogni giorno doveva spostarsi dal suo paesino fin nella città, non gli piace Budapest dice. Siamo quasi arrivati alla prossima stazione e ci prepariamo a salutare chi con tanta cortesia ha voluto offrirci vino sigarette birra e mele, prodotte dalle sue mani, callose e sporche della dignità di un lavoro antico. Ma soprattutto calore umano. Troppi abbracci e rifiuti di gentilezze, forse anche esagerate, e il treno riparte, con Nikolai che non può perdere la sua fermata: è quella di casa. Allora apre un portellone del treno, che sta cominciando la sua corsa ma che è ancora dentro la stazione, le braccia sono coperte dal suo borsone lacero e aperto, con una mano regge una bottiglia di vino. Ecco che il treno accelera: Niki appoggia un piede sulla banchina della stazione e finisce faccia a terra versando del vino, anche quello fatto da lui. L'ultimo saluto è un "tutto ok" urlato verso il nostro finestrino. Arriviamo a Budapest, è notte. L'unico vero modo per cercare di assaporare un città, conoscerla sarebbe troppo, è vederla di notte: appare nuda, vestita solo del suo fascino, come una donna. Le due città Buda e Pest fuse da un ponte, divise non dalle acque della Doana ma dagli uomini. Richard e Adam, sono uno di Pest e l'altro di Buda, si sfottono allegramente proprio su di un ponte; vanno in una discoteca all'aperto, un modo per incontrare ragazze e ragazzi. In realtà è un pontile limaccioso sul Danubio. I giovani di mezza Europa riescono a superare confini e diffidenze ballando sirtaky e musica pop con qualche anno sulle spalle, ma che comunque permettono a ragazzi spagnoli inglesi francesi ungheresi italiani tedeschi di incontrarsi oltre le barriere linguistiche e i muri costruiti in altri tempi.



E' passata anche la notte, e la città si riveste dei suoi abiti consueti, e indossa anche un bel cappello per noi turisti. Budapest è una donna incinta che aspetta l'autobus, forse questa è la migliore cartolina che si può scattare della città; insieme a quella di un monumento che ricorda la rivolta contro i sovietici del ‘56. Un ragazzo che, bandiera ungherese in mano, guarda fiero e sicuro davanti a sé, vede magari la ragione per cui sta combattendo. Sulla linea dell'orizzonte di fronte a lui hanno costruito dei palazzi, sulla cui sommità troneggiano le insegne al neon della Panasonic e della Toyota.

La città è nuova, distrutta innumerevoli volte e così tante volte ricostruita, ha visto un qualche tipo di continuità solo durante il XIX secolo. Dal gotico al neo-rinascimentale passando per il barocco, sembra un crogiuolo di stili architettonici, in cui gli artisti italiani hanno dato uno dei contributi maggiori. Si può ascoltare in sordina il tentativo di ricrearsi un'identità, che come le mura delle roccaforti è stata distrutta dalle cannonate. Per questo a Budapest si vedono tanti stili diversi: si è coperta la memoria costruendo sopra le proprie macerie, prendendo in prestito da italiani prima e poi dagli austriaci, con la dominazione asburgica. Tutti tranne gli ottomani, di cui solo nel museo del Castello se ne conserva una qualche memoria storica, legata alle battaglie per cacciare "l'infedele" dalla cristiana Ungheria. Eger, una città a est di Budapest, in cui raramente si può vedere uno sforzo così tenace di rievocare un episodio storico per rimuoverlo dalla coscienza collettiva. Qualsiasi traccia della dominazione ottomana è stata debitamente cancellata o coperta, e dove non è stato possibile, vedi il minareto, si rievoca il babau con caroselli medievali e tiro a segno: colpire il diavolo per scacciarne la paura, un esercizio catartico più sentimentale che politico. Poi, di ritorno nella capitale, entri nella stazione costruita da Eifelle. Da un'entrata laterale ti muovi verso l'ingresso principale dove il grande orologio è fermo; e allora senti odori, forse immobili nel tempo, di kebab e bazar. Anche i grandi centri commerciali ricordano in un qualche modo i mercatini orientali, dove regna una confusione solo apparente. E' questa forse l'unica eredità levantina rimasta qui dopo 140 anni di dominazione ottomana, dopo anni di battaglie e città distrutte. La memoria di questo lembo di terra, che da sempre ha puntato i suoi occhi e le sue orecchie a occidente, è europea. Si ricordano con fervore di tutte le battaglie, perse e qualcuna anche vinta, come di qualcosa che si ripete in continuazione: non come di una data da tenere a mente prima di un'interrogazione. La terra non parla di Europa, e non ne parlano neanche i palazzi o i monumenti, perché qui l'Europa, non solo geograficamente e oltre la storia, è stata una scelta identitaria.


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