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Martedì, 20 Luglio 2010

Varanasi e Cremazione

Due racconti, due affreschi, della vita in India

ARTICOLO DI

Vagabondo0





Varanasi

Immaginatevi i carrugi di uno dei nostri tanti vecchi approdi liguri, solo qualche centinaio di volte più grande, con palazzi più bassi, tutti inspiegabilmente diversi, ma sempre e comunque accomunati dalle cicatrici di una corruzione ossessiva. Immaginatevi vicoli stretti, talvolta strettissimi, all'interno dei quali un terzo uomo deve fermarsi e lasciar passare, un bazar medievale di rifugi a poche rupie con calderoni sempre fumanti, fabbri con cunei martelli e brace, botteghe artigianali di lampade d'Aladino d'ogni specie, di sofisticazioni non meglio identificate per ogni sorta di liturgia, sottoscala privi di luce, scalpellini di figure antropomorfe, ceramisti, sarti, barbieri, librai di copertine insondabili, rivenditori di paccottiglie, riciclatori di pezzi di ricambio, mercati di verdura, frutta, fiori; a tutto questo aggiungete una quantità non stimabile di templi e tabernacoli, di Baniani, alberi enormi, dai tronchi membruti, carnosi, morbidi, carichi di fogliame grasso, capaci di invadere i muri, aderirvici attorno e sopra senza spaccarli, migliaia di vacche, tori, scimmie, cani randagi; spalmate tutto per qualche chilometro di gentile salita a partire da un fiume divinizzato che da un lato conosce la città e dall'altro l'alba e la natura più piana e infinita; una natura senza confini, pregna di una luce traversa metafisica, di una immobilità esausta, capace di trascinare l'animo verso un’attesa attenta, involontariamente perspicace e riflessiva. Ciò che state immaginando è Kashi "citta della luce", Varanasi, Benares, un luogo della mente, una frontiera, una linea di confine al di là del quale finisce la materia e inizia lo spirituale. L'induista vi si consegna senza riserve, crede che morire a Varanasi lo possa salvare, trovando finalmente la sua moksha, la liberazione dal ciclo delle reincarnazioni, la pace.

Varanasi in un qualche modo assurdo e commovente non sarebbe la prima città sacra per l’Induismo e neppure sarebbe il luogo che vide a dieci chilometri dal suo centro nascere il Buddismo, dove il Buddha, dopo l’illuminazione, fece il suo primo discorso, non a caso sulla sofferenza, se non vi fosse in questa città una sorta di predisposizione alla riconciliazione col dolore.

Nella più antica città vivente del mondo, nei secoli, moltitudini di malati, mendicanti, anziani rimasti soli o che hanno abbracciato l'ultimo passo rinunciando al proprio nome, alla famiglia, ai propri beni materiali, si sono abbandonati e tuttora si abbandonano a questa riconciliazione. Lo fanno giorno dopo giorno, dall’alba al tramonto, unendosi agli altri indiani in una pratica religiosa umile e personale, sempre avvolta da un senso di accettazione, di sottomissione pacata alle leggi ineluttabili del karma, attraverso le abluzioni e le immersioni di purificazione, attraverso le visite ai templi, le offerte alle divinità antropomorfe che disseminano la città, o a quelle più intime di casa o dell’angolo più custodito di una bottega; lo fanno assieme attraverso la puja, la preghiera durante la quale il testo sacro viene cantato e il fuoco innalzato ad illuminare il volto di Shiva il distruttore e creatore affinché rimanga a saturare i sensi nelle rive così dolci della Dea Ganga. Ed è proprio lì, sdraiati all’alba sui gradini che scivolano nell’acqua, che Varanasi concede a chi vi è arrivato il privilegio di trasformare molte domande in rivelazioni. Al prezzo, beninteso, di far cadere qualche lacrima.






Cremazione

A Varanasi è impossibile non perdersi come è impossibile non ritrovarsi. In questa città dell’India, nel labirinto dei suoi vicoli, tra il sali e scendi delle sue strade, si intuisce sempre una direzione più importante: la direzione che porta al Gange. E’ da li, dalle scalinate che scendono nelle sue acque, dai suoi ghat, che chiunque si sia perso può raggomitolare quel misero filo di Arianna attraverso il quale riuscire a tornare alle proprie stanze.

Passeggiare per Varanasi comporta ogni volta il dover sottostare a questa legge, perdersi e ritrovarsi, quasi fosse l’insegnamento più didascalico per chi decide di fermarsi in questa città; un lento processo che permea ogni senso, scavando nell’animo fino a farlo vacillare e cambiare.

Questa notte mi sono addentrato nelle vertigini dei suoi vicoli, abbandonandomi al caso. Le vie, i templi, i tabernacoli e i palazzi, per caso incontrati una volta e mai più ritrovati, quasi fossero avventure perfette di una notte, incontri magici tra entità che sono riuscite a comunicare.

E’ stato allora, nel tentativo di riemergere, che sono sbucato senza volerlo al Manikarnika ghat, il ghat più grande di Varanasi destinato alla cremazione, dove Parvati lasciò cadere un orecchino e Shiva lo recupeò scavando a più non posso, tanto da riempire la vasca lì presente di sudore.

Superate le montagne di tronchi e legni da ardere, dopo essermi divincolato tra enormi tori, vacche, cani randagi, mi ritrovo davanti alle cinque grandi piattaforme a gradinate suddivise per destinazione di casta.

Al centro, dietro le prime tre, brucia la "miccia", il fuoco dei fuochi, quello di Shiva il distruttore, che pare arda incessantemente da più di 3000 anni. Esattamente sopra si erge il tempio con il grande Linga di Shiva, il pene antropomorfo che fuoriesce dalla Yoni, vulva della dea sua consorte, che è poi la sua potenza, l'energia su cui si fonda il suo operato.

I fuochi sono alti, vividi, immersi nel nero della notte. Intorno pochi famigliari, pochi sacerdoti, pochi Firemen come loro amano chiamarsi, gli uomini della casta della cremazione. Quelli più vicini li riconosco dalla patina nera che li ricopre, giacciono abbandonati in un sonno morto, negli angoli più impensabili, molto indianamente non curandosi di tutti quegli spazi che molti avrebbero invece scelto come prima opzione. I Firemen svegli intanto attizzano il fuoco, percuotono le braci, preparano la legna per un nuovo rogo, la scelgono con attenzione controllati dai famigliari del morto.

Pare capiti spesso che i corpi rimangano incombusti per mancanza di soldi, a quel punto li si butta nel Gange, assieme ai corpi non bruciati di asceti, morti di lebbra, bambini sotto i tre anni, morti morsicati dal cobra e donne gravide; queste sono le uniche categorie dispensate da un dovere irrinunciabile.

I parenti sembrano indifferenti, accovacciati assieme ai bordi delle piattaforme. La morte è indifferente. La liturgia della notte è ridotta al minimo, non ne conosco il motivo e in ultimo potrebbe essere solo una mia impressione, quel che è certo è che di notte, per quell'ora in cui mi sono attardato ad osservare, non vi sono state le parate con le quali i famigliari annunciano al mondo la felicità per una morte ben avvenuta.

Tutto si svolge senza apparente dolore, il volto angoscioso della morte pare non essere presente. Quanto meno non ben voluto.


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