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Lunedì, 31 Gennaio 2005

Un viaggio in Ghana

In Ghana: a caccia del Kebab più buono con Cristina Giordano.

ARTICOLO DI

Vagabondo0

Ma come può venire in mente di parlare di kebab a proposito del Ghana? Basta trovarsi in viaggio con tre genovesi, in un paese che di turismo tutto sommato ne vede poco e aggirarsi affamati per le strade scure di Kumasi, nel cuore del regno degli Astanti una domenica sera.

A Kumasi ci arriviamo in tro-tro da Accra. Tro-Tro? Sì, tro-tro. Per chi è stato in Africa Orientale leggete tro-tro = matatu o dalla-dalla, per chi ancora è digiuno: furgoncino tipo giapponese, otto posti, con trentotto persone stipate dentro e/o appese fuori o sul tetto, alle volte anche con galline nere e svenute che risorgono di quando in quando picchietandoti le caviglie con il becco affilato, musica a manetta, autoadesivi inneggianti a Gesù o Allah, a seconda della preferenza religiosa. Una caratteristica fondamentale del tro-tro è che parte solo quando è pieno. Del resto, in tutta l'Africa, è quanto mai folle pensare in termini di orari e distanze chilometriche quando si viaggia. Si parte quando il mezzo è pieno e si arriva quando si arriva. Ad Accra ci siamo arrivati la sera prima, sabato, con un ritardo memorabile: alla Malpensa il Signor Dallah proveniente da Beirut aveva fatto imbarcare i bagagli ma non si era presentato a bordo. Tre ore per scaricare il suo misterioso valigione, sospettato di essere una bomba. Iniziamo bene, e dire che dobbiamo ancora fare scalo a Lagos, Nigeria.

Il tro-tro ci frulla per benino sulla strada dissestata che porta da Accra a Kumasi, 250 chilometri in 5 ore. Sulla via del ritorno, tre settimane più tardi, ci renderemo conto che questa è una delle strade migliori di tutto il Ghana. E' domenica. Le domeniche africane sono placide e silenziose. Come Milano in Agosto. Non ci sono negozi aperti, non c'è quasi nessuno in giro. Solo poche famiglie, di ritorno dalla funzione metodista o anglicana o della Chiesa dei figli di Dio, bah...nella regione degli Astanti di musulmani non ce ne sono molti, sono i protestanti a farla da padroni.

Stanchi e sporchi, troviamo un dignitoso albero che ci consente di rimetterci in sesto e usciamo a caccia di cibo. Un venditore ambulante di kekab ammicca, noi lo ignoriamo, vorremmo qualcosa di più sostanzioso. E poi, magiare per strada...meglio di no, meglio. Mentre giriamo, famelici, a caccia di un posto qualsiasi per mangiare, vediamo una bella chiesa. Così bella e con tanta musica che una forza quasi soprannaturale ci costringe ad entrarvici. Nel giro di pochi minuti ci ritroviamo invitati d'onore della celebrazione della Chiesa Metodista di Wesley, che sta festeggiano non si capisce cosa, ma c'è anche l'arcivescovo e ormai siamo lì e non ci riesce di andar via. Ci nutrono con gustosi bocconi di carne, frittelle, torte e bibite. Gli elegantissimi ospiti della festa, fasciati in stoffe sontuose e coloratissime, fanno a gara per parlare con noi. Le donne indossano preziosi abiti, tuniche turchesi e verdi ricamate d'oro, e fanno ondeggiare con grazia le ampie anche al ritmo della band metodista. Buona parte degli uomini indossa stoffe lucide e morbide, avvolte sui corpi neri come una toga. Ballano tutti, anche l'arcivescovo, che, dopo averci stretto la mano e domandato quale fosse la "nostra missione" (a questa domanda restammo muti come pesci, missione...? Boh?), si lancia in uno swing mirabile. Siamo in Ghana da meno di 24 ore...

Il giorno successivo Kumasi si e ci sveglia alle prime luci dell'alba, riprende il ritmo cittadino della settimana, traffico, una miriade di donne dirette al mercato, con ceste enormi cariche di merce abilmente in equilibrio sulla testa. Il mercato di Kumasi è immenso e vi si compra di tutto. Frutta, stoffe, ciabatte infradito di plastica, fazzoletti, utensili vari, carburatori, chiodi al chilo, tazze di plastica, banane fritte, noci di cocco, kekab, musicassette, materassi di latex e potrei continuare ancora per un bel po' a elencarvi le mercanzie, ma non lo faccio. Immaginatevi una marea di massa umana che si aggira ininterrottamente tra bancarelle e fogne a cielo aperto. La puzza delle fogne si mischia bene a quella delle banane fritte.
I ghanesi sono molto cordiali, si lasciano fotografare volentieri. Mrs Patience, e molte altre donne e uomini e bambini, ci tiene a mettersi bene in posa per farsi immortalare. Al tramonto ci accasciamo sui sedili di una bettola che serve birra gelata, ordiniamo birra Star, buonissima, e mentre cala il sole, il profumo dei kekab di strada ci riempie le nari. Ordiniamo kebab e birra fresca. I kekab sono piccanti come il fuoco, più ne mangiamo più ci serve birra fresca. Sono le sette e mezza di sera e ci siamo già scolati almeno un litro di birra a testa e una quantità non meglio precisabile di kekab. Ci chiedono di pagare, mai fidarsi di musi bianchi che mangiano e bevono e non accennano a volersene andare. Paghiamo il conto di 40,000 cedi, che corrispondono suppergiù a 13 mila lire, e siamo sazi e sbronzi. Alle otto e mezza di sera siamo tutti a dormire. Cosa abbiamo visto del magnifico regno degli Astanti? Mah...le stoffe kente e i gioielli di perle di vetro, i mitici scanni simbolici, le decorazioni, anch'esse simboliche, una per tutte quella che pare un quadrifoglio a rappresentare saggezza e conoscenza: "ho ascoltato e tenuto in serbo".

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Una delle attrazioni del Ghana è il Mole National Park, a circa quattrocento chilometri da Kumasi dirigendo verso nord. Il bus della sola compagnia nazionale di trasporti parte alle sei di mattina e conduce nei pressi della Riserva. Ci imbarchiamo che è appena sorto il sole. Il bus è assai più confortevole del tr-tro, ma altrettanto stipato di gente. E' sorprendente quanto viaggiano i Ghanesi. Il bus arranca su per le colline che circondano Kumasi, poi si lancia attraverso foreste sempre più rade e infine corriamo lungo una strada piatta e polverosa. E' quasi mezzogiorno, mancano solo forse un paio di ore al bivio dove potremo prendere un tro-tro per arrivare al parco. Il bus sussulta, stride, sbuffa e si ferma. Pare che si sia fuso il motore. I passeggeri scendono e si accalcano sotto l'unico enorme albero di mango. Bisogna aspettare adesso. Aspettare cosa? Che il motore raffreddi, poi un vago tentativo di partenza a spinta, vano. Mah...l'autista trova un passaggio su una delle poche auto in transito "vado al prossimo villaggio a prendere un altro mezzo" urla nella sua lingua, e prontamente ci viene riferito in inglese. Curiosamente l'autista porta via la sua valigia...lo guardiamo con sospetto, sono quasi le due, si schiatta dal caldo...questo taglia la corda e chi s'è visto, s'è visto. Spieghiamo ad alcuni passeggeri che dobbiamo arrivare alla Riserva. La nostra destinazione, tanto lontana, suscita all'improvviso grande simpatia per noi. Un gruppetto di musi neri si dà allora da fare per trovarci un mezzo di fortuna. Un simil tro-tro s'è fermato ed è già stracolmo di gente. I nostri nuovi amici fanno scendere quattro presone e siamo noi a poter salire, perché dobbiamo fare ancora tanta strada, e questo giustifica il favore che ci viene accordato. Giubilo! Si riparte, affianco a me una donna orrenda ma elegantissima, sibila e fischia quando ci vede.

Il tro-tro ci molla al bivio e prosegue per Tamale. Noi troviamo subito un nuovo tro-tro che ci condurrà a Larabanga, a soli sette silometri dall'ingresso del parco. Intanto sono quasi le tre del pomeriggio, siamo in viaggio dalle sei della mattina, e ci sono ancora forse ottanta chilometri da percorrere su strada sterrata. Ci rifocilliamo con arance comprate dai pochi venditori che si aggirano intorno al tro-tro. Si parte e inizia la doccia di polvere rossa che mi è tanto cara. La polvere s'insinua tra i denti, negli occhi, sui capelli, trapassa gli indumenti e si accumula nelle pieghe della pelle sudata, formando rivoletti e strisce rossastre. Tre ore più tardi siamo a Larabanga, dopo essere sopravvissuti abilmente ad un assalto di marmocchi a Damongo. Mai regalare penne ai bambini africani. Non ne avrete mai abbastanza da regalare e loro finiranno per prendersi a pugni pur di averne una.

Larabanga è un villaggio di capanne di fango. Ad accoglierci quando scendiamo dal tro-tro c'è Koni, uno studente che si occupa anche di progetti finanziati dall'Unione Europea per lo sviluppo del villaggio. Koni ci offre ospitalità nella sola locanda del villaggio, una bella capanna di fango dove acqua ed elettricità non sono un'opzione. No, grazie, Koni, e ci incamminiamo, con i nostri micro zaini, verso l'ingresso del Parco, pare ci sia un albergo decente lì. Prima di metterci definitivamente in cammino tentiamo di informarci sulla distanza. Qualcuno dice 5 chilometri, altri 7 miglia, ma quanto tempo ci vuole? Mah...sentiamo di tutto, da 5 a 45 minuti...inutile cercare di capire...andiamo. Un grandissimo colpo di fortuna mette sul nostro cammino un furgone condotto da una delle guardie del parco che ci dà un passaggio. Venticinque minuti di auto, pure in salita. L'hotel del Parco è commovente: pulito, piscina, acqua e luce. Siamo arrivati in paradiso, le lucciole svolazzano sulla mia testa mentre sguazzo nell'acqua e da lontano sento il canto delle rane campanello, dlin dlin dlin, dlin, dlin dlin. La fatica di undici ore di viaggio svanisce in un attimo.

Del parco vi dirò solo questo: la stagione delle piogge è finita da poco. Le acacie sono verdi, la natura più rigogliosa che mai, baobab maestosi ondeggiano nella brezza. So che no vedremo molti animali, ma la cosa non importa affatto. La vista sul mare di foresta che si gode dalla collina è talmente bella da non far rimpiangere il mancato ruggito del leone. Una famiglia di elefanti viene a fare il bagno in una pozza strategicamente posizionata per i visitatori. Un breve safari a piedi e incontriamo qualche facocero, delle belle antilopi roane e un elefante. Dopo la prima meravigliosa notte all'hotel, la seconda giornata ci propone bagni senza acqua e niente elettricità. Ordiniamo kekab per cena e ci vengono serviti dei misteriosi pezzetti di carne senza lo spiedino...ma che kekab è? In compenso, assaggiamo le deliziose yam fritte, molto meglio delle nostre patate.

Approfondiamo la conoscenza con Koni che ci fa fare un bellissimo giro per Larabanga, villaggio musulmano di fango, con la grande moschea in stile del Sahel. Qui si respira quasi aria di deserto. La frontiera con il Burkina non è molto lontana. Sento il richiamo della savana semidesertica, del mare di sabbia. Domani si parte. Lanciamo una moneta per decidere dove si va: testa, si va in Burkina, croce si va in Togo. E Togo sia.

Abbiamo svariate possibilità per arrivare in Togo, scegliamo la via più emozionante, lungo il grande lago Volta. Sostiamo per un pomeriggio ed una notte a Tamale, dove incappiamo in un mirabile funerale a suon di tamburi e musica, poi in un mercato notevolmente ricco, facciamo un giro della moschea deserta, riusciamo a dormire tra milioni di pulci e anche qui il kekab non è un kekab, ma un brodo con pezzi di carne dura come suole da scarpa. Alle quattro del mattino, mentre il muezzin intona la prima preghiera e le stelle sono ancora lucide nel cielo nero, andiamo alla stazione dei tro-tro in caccia di un passaggio per Makango. Secondo la nostra teoria, a Makango dovremmo poterci imbarcare su un a nave che ci conduca fino a sud del grande lago, ad Akosombo. Ci vogliono cinque ore di viaggio, strada rigorosamente sterrata, attraverso villaggi nascosti dalla foresta, per arrivare al molo di Makango, che non è un molo ma una lingua di sabbia, e poi scoprire che la sola nave diretta a sud passa tra una settimana. E così non ci resta che salire sul traghetto che porta sulla riva opposta del lago e prendere un bel tro-tro per tornare a Kumasi. Altre cinque ore di viaggio. A sera fatta siamo di nuovo a Kumasi, grande festa di kekab, questi sono davvero i più buoni del Ghana.

Un altro giorno di viaggio e finalmente arriviamo ad Akosombo ma decidiamo di proseguire per Ho e Hohoe, la zona collinosa dove potremo fare lunghe passeggiate e nuotare sotto cascate d'acqua fresca. Ormai siamo abituati a viaggiare in tro-tro, come fosse la cosa più normale del mondo, essere lì stipati come polli. Ci sistemiamo benissimo a Ho, un posto di passaggio dove normalmente non si ferma nessuno. Noi si. Troviamo un tassista la mattina dopo che acconsente a condurci a Hohoe, poco lontano dal confine con il Togo, dove pare vi siano bellissime cascate. Il taxi arranca sulle colline, James, il nostro autista, non sa la strada. Eppure, arriviamo dove volevamo arrivare, anche dopo che il taxi s'è messo a singultare dolorosamente sulla strada sterrata e il livello della benzina cala a vista d'occhio, tanto che arrivati alle cascate il serbatoio è vuoto. Per arrivare qui ci siamo fermati un paio di volte, o meglio, la macchina s'è fermata e noi abbiamo atteso che James la facesse resuscitare, cosa che finora gli è andata benissimo. Una volta è stata la polizia ad un posto di blocco a fermarci, e così scopriamo che il nostro James va in giro senza patente e documenti. Cinquemila cedi al grosso poliziotto e possiamo proseguire. Ora James annuncia che mentre noi andiamo alle cascate, lui cercherà un meccanico e della benzina. Grande, James. Ci avviamo con la guida su per il sentiero nella grassa foresta verde che porta alle cascate. Un paio di guadi e poi il rombo della cascata si fa udire tra le foglie che grondano di vapore. Grondiamo anche noi. Ma di sudore. In soli 45 minuti arriviamo alle cascate, una grande pozza accoglie la massa d'acqua sempre uguale eppure sempre diversa, in una festa di spruzzi e schizzi freschi. Le pareti a strapiombo che circondano la cascata sono popolate da milioni di pipistrelli grandi come gabbiani. Ciascuno di noi si lascia rapire per un attimo dal ritmo dell'acqua che cade e dal fresco che esala dalla pozza. Un altro piccolo paradiso nella foresta.

Sono le quattro del pomeriggio quando ritroviamo James, tutto pronto per partire, la macchina riparata, dice, e abbastanza benzina , e sa pure come tornare indietro senza sbagliare strada. Grandissimo, James! James è alto due metri, ha piedi enormi ficcati in sandali sgangheratissimi. Porta dei baffetti radi e una specie di basco calato sugli occhi. Parla poco, non mangia e non beve, eppure non è mica Ramadan. Si parte di gran carriera, la strada sembra buona, la macchina non singhiozza più e noi quattro siamo sereni e rilassati dopo la sosta alla cascata. Ma la nostra tranquillità dura poco. James non vede la voragine che si apre sulla strada, e ci sprofonda dentro, una botta incredibile, la macchina vibra e soffre, saltella, scodinzola, si ferma. Ma riparte. James è sceso, ha aperto il cofano, smanettato per un attimo, richiuso il cofano, reinserito i suoi poderosi piedi sui pedali e via, si riparte. Cinque chilometri e "scionf", altro singhiozzo, altra sosta. Sono le cinque e mezza, tra un'ora sarà buio, abbiamo ancora 70 chilometri da percorrere. James scende, rovista nel cofano, tutto ok, ripartiamo. Posto di blocco, lo stesso della mattina, altri cinquemila cedi e questa volta con i saluti cortesissimi del poliziotto. Siamo al crepuscolo, tra un singhiozzo e l'altro procediamo. Le soste si fanno sempre più frequenti. "Al prossimo villaggio ci fermiamo - afferma James di quando in quando - poi, ogni volta che passiamo da qualche centro abitato, inspiegabilmente l'auto fila liscia come l'olio e James decide di proseguire. Al successivo posto di blocco il poliziotto, belloccio e arrogante, non chiede soldi, si limita a guardare James con aria di sufficienza e a commentare: "Your everything is faulty!" quando lui tenta di convincerlo che il fanale posteriore è rotto ma funziona. Appena usciti dal villaggio, il vecchio taxi decrepito, ormai senza fiato, cede. Ma James non si arrende, scende, maneggia nel cofano, risale, si riparte. In un bel villaggio bucolico e pieno di personaggi fotogenici, dove giungiamo dopo una serie notevole di soste, siamo costretti ad una sosta più lunga. James ha trovato uno che sembra un meccanico, smanettano in due ora sotto gli occhi scettici di due dei genovesi, il terzo s'aggira, agitato, in cerca di un passaggio, ma non c'è nessuno, io scatto foto e mi godo l'aria violetta del crepuscolo. Ripartiamo, sembra che ora l'auto funzioni, bene, trecento metri e siamo fermi. James scende, smanetta nel cofano, ripartiamo. James guida sempre più forte mentre cala la notte. Come tutti gli autisti ghanesi, quando attraversa un villaggio ignora completamente la regola del rallentamento. Al contrario, pressa il piedone con forza sulla tavoletta, accelera e strombazza, chi non si sposta crepa. Sacrifichiamo così una pecora che, incauta, non s'è levata dal mezzo della strada. Morta la pecora i miei ansiosi compagni di viaggio paiono sollevati, chissà che il sacrificio della bestia non sia di buon auspicio. Altri cinquecento metri e siamo di nuovo fermi. Ora è buio eppure c'è luce. La luna, quasi piena, fa da fanalone sulla strada senza illuminazione, dai margini della quale spuntano uomini e donne. Il fatto è che i negri sono veramente neri e, nella notte, proprio non li si vede quando camminano al margine delle strade. Solo se sorridono. Il taxi si ferma e riparte una dozzina di volte. Dal fondo stradale martoriato dalle buche si solleva ora una curiosa e lieve nebbiolina, sottili strati candidi e densi fluttuano davanti ai nostri occhi. La strada corre nel cuore della foresta. Le ombre degli alberi, la nebbiolina, la luna dalla luce azzurra e gelida. Mentre saliamo su un piccolo dosso l'orizzonte si tinge di giallo, un giallo evanescente e freddo, s'intensifica, galleggia, il giallo, sulla nebbiolina, anch'essa gialla. Un'immagine spettrale davanti ai nostri occhi, ci consultiamo per essere certi che non si tratti di un'allucinazione individuale. Al massimo è un'allucinazione collettiva. E' un camion, che ci viene incontro e sterza appena in tempo per evitarci. Siamo stremati, anche James inizia a dare segni di cedimento.Questo è un film horror e nessuno ce lo aveva detto. Ancora sedici singhiozzi e relative soste e poi James si ferma in un villaggio dove, dice tutto contento, ha un amico che ci potrà aiutare. Ci scarica e sparisce. Cerchiamo cibo al villaggio, intanto sono le otto di sera passate, non abbiamo neppure pranzato. Il villaggio non offre nulla, non c'è neppure un ambulante di kekab o di yam, solo pane. Aspettiamo. James torna dopo poco e ci fa salire su un'auto scassatissima. Al volante ci si mette un elfo di undici anni che si esprime emettendo versi incomprensibili, solo E., il più vispo dei genovesi, sembra riuscire a interpretare i suoni gutturali emessi dall'elfo. James assicura che ci porterà a destinazione, lo paghiamo e salutiamo, dopo tutto ci dispiace anche di lasciarlo qui, ma se la caverà. L'elfo accende il motore collegando i cavetti. Si parte. Guida tranquillo e grugnisce di quando in quando. Saliamo sulle colline che ci separano da Ho. I miei tre compagni sembrano non ricordare affatto che si sia passati di qui stamattina. E si agitano un po'. Specialmente quando uno dei tre convince gli altri due che non solo questa non è la strada giusta, ma che c'è anche un'auto che ci segue e che probabilmente si tratta di una trappola e finiremmo sgozzati e derubati. Non so some gli sia venuta quest'idea, io me ne stavo molto tranquilla anche se, effettivamente, l'elfo non era del tutto convincente. L'auto che sospettamene ci seguiva finalmente ci supera, dalla cima del colle intanto si inizia a vedere Ho, il paesone dove alloggiamo. I tre genovesi riconoscono una o due insegne viste la mattina. Siamo tutti tranquilli e finalmente, a destinazione.

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Seguono due giorni di tutto relax sul fiume Volta, nel delizioso villaggio di Atimpoku. Ci siamo mossi in taxi, vinti dalla pigrizia e dalla mazzetta di cedi che ci appesantisce le tasche, e ora alloggiamo in graziosissimi cottage proprio in riva al fiume, circondati da vegetazione lussureggiante. Al villaggio, molti kebab appetitosi in vendita, e anche gamberi e altre delizie, vino di palma e un delizioso liquore cinese al ginseng. Restiamo due giorni, uno di troppo per i miei gusti, ma pazienza, infondo se non fossimo restati un giorno di troppo, ci saremmo persi la mirabilissima uscita in piroga sul fiume, condita da due elementi cruciali: il primo, che ci mettiamo a pagaiare con la piroga al contrario, mi spiego meglio, con la prua a poppa e viceversa; il secondo, che un temporale notevole ci sorprende mentre stiamo nel punto più largo del fiume, a diversi chilometri dal nostro approdo, il vento sferza la piroga sottile e ingovernabile visto che andiamo al contrario. Passiamo una bella mezz'ora di adrenalina viva nelle vene, il fiume è nero e rabbioso, la pioggia dolorosa sulle nostre teste, e la riva sembra irraggiungibile. Poi si calma tutto, approdiamo in un villaggio dove ridono di noi, ma ci insegnano a pirogare con la prua a prua e la poppa a poppa e così, allegri e fradici, ce ne torniamo a casa dove ci aspettano birre gelate e i gestori del campo - ovviamente piegati in due dal ridere per le nostre penose avventure.



Diventiamo sempre più pigri. Abbiamo sostituito i tro-tro con taxi locali. Ogni tassista che ci carica non ha idea di quello che lo costringeremo a fare. Di norma, dopo aver contrattato la meta e una cifra ragionevole, costringiamo i nostri autisti a deviazioni ed estensioni mirabili. Ovvio che poi li ricompensiamo come si deve. Pare che i ghanesi non amino spostarsi troppo lontano dal loro villaggio e le nostre richieste spaventano. Ma paghiamo. Insomma, ci siamo trasformati in ricchi "obruni" (questo il termine per indicare i bianchi in lingua Twe) che viaggiano in taxi. La prossima meta è la costa, poi il Togo. Una delle nostre vittime, un tassista dalla guida agile e svelta, ci scorrazza da Akosombo a Tema e da lì ad Ada, sulla spiaggia e, si capisce benissimo, ci odia per averlo costretto ad un viaggio così lungo, notate bene, meno di cento chilometri. Ci scarica, infine, davanti al Cocoloco beach Camp, siamo i soli ospiti delle capanne di paglia.

Due giorni ad Ada, tra spiaggia e mare, di notte la luna piena rende la spiaggia d'argento e fluorescente. Aspettiamo che le tartarughe vengano a deporre le uova, l'immensa spiaggia con le lunghe palme piegate dal vento, l'oceano che muggisce. Tendo le orecchie per carpire il ritmo del mare. Di quando in quando, se ci fate caso, l'oceano tace, il vento cade per un attimo, si fermano le onde. Silenzio. E poco dopo ecco che un'onda esplode in un rombo di schiuma densa e riprende il suo rombo terrificante. Fa paura, l'oceano di notte. Come un amante pericoloso, che ti prende e fagocita e annega in sé. L'oceano è abile, a poco a poco il suo rombo mi diventa carezzevole, ne imparo il ritmo irregolare. Lo guardo mentre mi invita, mi ritraggo e lui s'avvicina, mi lambisce i piedi, m'accarezza la pelle di spruzzi e, pur senza averlo amato questa notte, mi assopisco al suono della sua vita. La mattina alle sei i pescatori tirano a terra le enormi reti azzurre. Poco pesce in questi giorni. I corpi lucidi e scattanti dei pescatori brillano di sudore sulla spiaggia candida.

Un tro-tro ben rimpinzato ci conduce ad Aflao, il confine con il Togo, dove arriviamo senza grosse difficoltà, e dove restiamo solo il tempo necessario per visitare il mercato dei feticci. Lome, la capitale, è situata sul confine. Troviamo uno chaffeur di taxi zoppo e gentile con il quale ci accordiamo per due giorni di giri intensi tra Lome e il Lac Togo. Arrivando dal Ghana, tutto pacifico e tranquillo, Lome sembra una kermesse di pazzi urlanti. In banca per cambiare dei cedi ghanesi in CFA mi sento dire che me ne devo andare al mercato nero. Lo chauffeur conosce tutto e tutti e ci porta senza esitazione al Marché General dove, nel bel mezzo della strada, dei ceffi dall'aspetto non molto raccomandabile, ci offrono tassi di cambio più che accettabili. Più tardi, al mercato dei feticci, il presidente dello stesso ci convince ad acquistare feticci di ogni sorta, dalla buona sorte, ai viaggi e all'amore. Nessuno di noi si fida a non comprare...non si sa mai. Giriamo sconcertati tra i banchetti di canarini, camaleonti, serpenti, pipistrelli, tutti secchi e destinati ad essere fatti in polvere per produrre pozioni magiche e medicinali. Ma ci sono anche zampe d'elefante, code di mucca, corna di impala, pupazzi, non per riti vudù ci assicurano, comunque dall'aspetto poco rassicurante. Lome schiamazza mentre scende la sera e i bianchi non accompagnati è meglio che non si aggirino per le vie buie.

Quando andate all'estero NON comprate oggetti d'avorio o provenienti da animali protetti per non alimentare la caccia di frodo (per informazioni vi rimandiamo al sito del WWF). [la redazione di Vagabondo].

Il giorno seguente lo passiamo sul Lac Togo, un giro in un villaggio che celebra festosamente un funerale, balli e canti, vestiti coloratissimi, grissini di mais e birra gelata. Anche il Papa è stao qui, lo testimoniano le immaginette di legno a forma di Madonna. La cattedrale è affrescata con colori vivaci, santi africani mai sentiti dominano le vetrate e intorno alla figura della Vergine Maria ci son 12 apostoli dalle facce sospette. A quanto pare in Togo si mischia volentieri l'animismo con il cristianesimo. Niente kebab. Torniamo in Ghana.

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Alla frontiera, altro cambio al mercato nero, il nostro chauffeur zoppo, dopo che lo abbiamo lautamente pagato e coccolato e pure portato fuori a cena, s'arrabbia quando ci rifiutiamo di dargli un cadeau. Si riparte. Io me ne vado ad Accra, i tre genovesi non so, comunque ci separiamo.

Come salgo sul tro-tro tutta sola, il mio viaggio cambia radicalmente. Sono la sola "obruni" tra i passeggeri e la mia condizione di sola bianca tra i musi neri la conserverò per diversi giorni. Accra è una città brutta, la sola cosa bella è il grandissimo mercato Makola, dove si compra di tutto, basta saper guardare e contrattare. Non compro nulla, non lo faccio quasi mai in viaggio, di riempirmi di souvenir. Mi nutro, per strada, di banku (una polentina di cassava cotta in foglie di banana con salsa piccante e pesce) oppure di kinkey (altra polentina, questa di mais, con salsa rossa di peperoncino, super piccante, e pesce). La cucina ghanese la si assapora solo per strada, mi adatto senza difficoltà, e i ghanesi se la ridono vedendomi con le mani imbrattate di salsa rossa a gustare le loro prelibatezze. Lascio Accra in fretta, le città non mi piacciono. Me ne vado a Cape Coast, giro il mercato del pesce di Elmina e ammiro una serie di forti sul mare. La costa è tutta disseminata di fortezze, costruite dagli inglesi, o dai portoghesi o dagli olandesi. Era da qui che partivano le navi di schiavi dirette al Nuovo Mondo. Cape Coast fu capitale e lo si vede bene dall'abbondanza di grandi palazzi che una volta dovevano essere bellissimi, ora invece sono decrepiti. Giro per il mercato, anche qui le fogne sono canalini a cielo aperto. Banchetto a base di kinkey e fufu (altra variazione di polentina, questa servita con pollo, costo medio 300 lire), vengo abbordata da ragazzini svegli che mi costringono ad accettarli come guide, cosa che faccio volentieri, e a versare la mia quota per sostenere il club di pallone della scuola. Gli Africani, tanto dell'Est quanto dell'Ovest, recitano un curioso ritornello ogni volta che incontrano un bianco: " Come ti chiami, da dove vieni, io sono uno studente, voglio diventare medico, ma non ho soldi per studiare, se tu volessi aiutarmi, Dio (o Allah, dipende) ti benedica, dammi il tuo indirizzo, ti scriverò, ti mando notizie, ora siamo amici". I ghanesi, almeno sulla costa, aggiungono due interessanti varianti: "hai qualche moneta del tuo paese?" ( e inorridiscono se gli dici che non ne hai) e poi la storia del club del pallone di cui vi dicevo prima. Viaggiando da sola ora mi ritrovo facile bersaglio di bambini, ragazzini e uomini, a volte anche donne, che ci tengono veramente a lasciarmi una buona impressione del loro paese e specialmente a farmi versare la mia quota di cedi per i loro servigi. Insomma, non riesco a fare un passo senza trovare immediatamente qualche cavalier servente. La cosa m'è simpatica e, tuttavia, al quarto giorno di convivenza stretta con solo africani, vi giuro, non so cosa avrei dato per incontrare un muso bianco, viaggiatore possibilmente, per poter conversare amabilmente delle cose meravigliose che offre il Ghana e non sentirmi costretta ad allungare una manciata di cedi al termine della chiacchiera. Ma qui, ahimè, di viaggiatori neppure l'ombra. Meno male imparo una parola in lingua Twe: dibi, che vuol dire no e così, quando mi trovo circondata da offerte che proprio non m'interessano ripeto all'infinito dibi, dibi, dibi, dibi, suscitando ilarità ma anche trovando un po' di pace.

Oscillo pericolosamente sulle passerelle sospese sulla foresta pluviale nel Parco Nazionale Kakum. Sotto di me trenta metri di vegetazione lussureggiante. Di animali neppure l'ombra. E nemmeno un visitatore oltre a me al giovane Robert, undici anni, che m'ha implorata di portarlo al parco dopo avermi fatto da guida al Forte William di Cape Coast. Come potevo dirgli di no?

Termino il mio giro ghanese sulle spiagge bianchissime di Kokrobitey Ho trovato un alloggio meraviglioso all'Accademia di Danza e Musica Africana, ovviamente deserta, non ci sono neppure i corsi di danza e di tamburi visto che non c'è nessuno oltre a me e tre ragazzi francesi, Lionel, Thomas e Olivier, ideatori e realizzatori di Ecotour, un giro del mondo in 12 mesi a bordo di una scassatissima Toyota. Se ne vanno in Benin e da lì in nave partono per il Brasile..."et alors, vieni con noi dolcezza?"...quasi, quasi....

Novembre 2001


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