RACCONTO
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Lunedì, 17 Marzo 2014

Un viaggio avventuroso in Iran

Giulio ci racconta la sua inaspettata avventura in Iran all'alba della rivoluzione del '79.

ARTICOLO DI

Vagabondo0

UN VIAGGIO AVVENTUROSO IN IRAN
2 -12 gennaio 1979

Come tutti gli anni mi, per le feste di fine anno, mi ero trasferito da Milano a Roma in macchina , con la tutta la famiglia. Un viaggio rituale in macchina che si ripeteva da 15 anni.
I tre figli, come al solito, erano eccitati per gli avvenimenti dei prossimi giorni: l’incontro con i nonni, con gli zii e con i cugini, i pranzi e le cene nei vari clan familiari, il Natale, gli spari di fine anno dal balconcino dei nonni paterni nella casa dove eravamo festosamente accampati: ma soprattutto per l’arrivo della Befana: alla vigilia con le calze appesa al caminetto e il giubilo nel giorno dopo.
Ma all’alba del martedì 2 gennaio 1979, ero su un aereo diretto a Parigi.
Alle 10:00 già mi trovavo a Vélizy-Villacoublay, seduto davanti a un Direttore di Zona, nella sede di una grande società di costruzioni francese. Una sede composta da 3 grandi edifici inseriti in un complesso un grande parco con anche un laghetto artificiale dove gli impiegati, nei tempi di relax, facevano footing e canottaggio.
Mi avevano convocato con urgenza perché era previsto che io andassi a collaudare e mettere in marcia un impianto per la produzione di pietrisco e sabbia per la costruzione di una Centrale Elettrica Nucleare in costruzione vicino ad Ahwaz, nel sud dell’ Iran.
Il cantiere aveva terminato uno scavo, con una area grande quanto due campi di calcio e la profondità 15 metri. Il grande buco doveva essere riempito di calcestruzzo per creare un solida fondazione alla gigantesca Centrale. La richiesta di materiali era enorme e era stato necessario progettare e costruire uno complesso industriale con frantoi, mulini, vagli di lavaggio, nastri trasportatori, grandi cumuli di materiale processato.
Il complesso studio di tale impianto era stato affidato a un nostro piccolo gruppi di tecnici che vantava competenze specifiche in campo internazionale. Ed io ero il fondatore del gruppo e il direttore.
Ma in quei giorni i cittadini stranieri che vivevano in Iran stavano precipitosamente lasciando il paese, perché l'Iran era sconvolto da una grande rivolta contro lo Shah Reza Pahlavi.
Da Parigi, dove era rifugiato, L’Ayatollah Khomeynì guidava la rivolta per mezzo della radio. Sparatorie e carri armati nelle strade. Molti stranieri residenti in Iran, erano ammassati nell’aeroporto di Teheran nel tentativo di uscire dal paese.
“ Immagino che mi direte che la mia visita al cantiere è stata rimandata” dissi al distinto signore che sedeva di fronte a me.
“ Capisco la sua preoccupazione,” mi rispose impassibile “ma non si può rimandare la visita perché le famiglie che vivono nel cantiere si spaventerebbero.”
La mattina dopo ero su un aereo dell’ Air France in volo per Teheran. Oltre a me c’erano solo altri due passeggeri: un Mullah, in abito tradizionale, con un volto cupo e severo era seduto in fondo all'aereo e un giornalista francese che sedeva accanto a me.
Il giornalista si sfogava con me, con tono lamentoso e preoccupato. Diceva: “Vede che vita ci tocca fare a noi giornalisti. Ci tocca vivere nel pericolo per soddisfare le curiosità di persone sedute su comode poltrone”.
Io cercavo di rassicurarlo, confortandolo col fatto che io dovevo fare di peggio: attraversare tutto il paese per raggiungere il cantiere a mille chilometri dalla capitale. Gli dissi: “Chi sa quali affascinanti situazioni pericolose mi toccherà affrontare” Ma lui non apprezzava le mie battute spiritose.
L'aereo fece scalo a Dubai, dove passammo la notte dentro l’aereo senza poter scendere e giovedì 4 gennaio ripartimmo presto onde arrivare a Teheran per mezzogiorno, in piena luce, poiché – ci dissero - l’assistenza al volo da terra non funzionava. Tutto andò senza problemi.
Nell’aeroporto, attraversammo la folla che si accalcava per poter partire e all’uscita trovai un taxi per la città. Ma, a metà percorso , l'autista fermò l’auto e mi chiese un sovrapprezzo pari al doppio della cifra che avevamo concordato alla partenza: altrimenti mi avrebbe abbandonato nel deserto. Gli feci un bel sorriso cosa che lui apprezzò. Sapevo che bisognava trattare e alla fine ci mettemmo d'accordo sulla la metà di quello che mi aveva chiesto.
Arrivammo Teheran a mezzogiorno: la città era deserta e raggiungemmo l'edificio dove era la sede della società francese. Porte sbarrate, finestre sbarrate, tutto in silenzio. Suonai il campanello: qualcuno venne ad aprire e mi accompagnò in un sottoscala. C’era un grande locale dove stavano mangiando una ventina di signori e signore francesi. L'atmosfera era di grande convivialità e mi accolsero festosi, mi offrirono da mangiare cose buone e da bere ottimo vino.
La mattina dopo, prima del sorgere del sole, partimmo con un pulmino. C’erano, oltre all’autista iraniano, anche due signore francesi con due bambini . Teheran era deserta ma alla periferia della città incrociammo carri armati e militari in assetto di guerra. Poi cominciò un viaggio di 970 kilometri dei quali i primi 800 in un desertico territorio montagnoso.
Io mi ero sistemato in fondo al pulmino e mi ero coperto gli occhi con una mascherina ricevuta in aereo , mi ero messo al collo un collare gonfiabile e mi ero lasciato andare in uno stato tra il sonno e la veglia, lasciandomi cullare, senza contrastarli, dai movimenti del veicolo. Una tecnica collaudata in altri lunghi trasferimenti in auto, per poter ridurre al massimo la stanchezza ed essere pronto il giorno dopo a lavorare con la necessaria energia. Fra l’altro conoscevo il paesaggio per aver vissuto circa venti anni prima in quei paraggi.
Era da qualche tempo calato il sole quando attraversammo un piccolo paese. Nel mio stato di semi coscienza sentii vicino la voce squillante di un muezzin che dava lode ad Allah ed ebbi un soprassalto al sentire un centinaio di voci maschili rispondere a quella invocazione. Mi tolsi la mascherina ed intorno c’era solo buio: a parte la luce dei fari. Era un paese senza energia elettrica e le luci della case non si percepivano. Quel impasto di voci maschili nella oscurità, era forte ma pacato e solenne. Veramente impressionante la sensazione della loro vicinanza a un unico Dio potente e infinito.
Raggiungemmo il cantiere a notte fonda: senza incontrare problemi. Il mattino dopo mi resi conto della grandezza del cantiere. Cerano alloggi e servizi logistici per una sessantina di ingegneri e tecnici francesi – molti con le famiglie - e per almeno 800 tra tecnici ed operai iraniani. Oltre a magazzini, officine ed un grande parco macchine .
Il giorno dopo visitai l’impianto per la produzione degli inerti. Era stato perfettamente installato secondo le nostre specifiche. Martedì 8 gennaio terminò con successo il collaudo e si iniziò la produzione dei materiali.
A quel punto un funzionario francese, apparentemente molto ossequioso ma con aria falsamente dispiaciuta mi disse che purtroppo non c'era alcun modo di farmi rientrare a Teheran. La ferrovia era stata bloccata e non potevano rischiare di far viaggiare il pulmino fino a Teheran: doveva rimanere a disposizione con gli altri mezzi di locomozione per una eventuale evacuazione di emergenza. Avrei dovuto aspettare che la situazione migliorasse. Gli spiegai che non potevo fermarmi perché avevo un impegno nei prossimi giorni in Argentina e dovevo rientrare al più presto a Milano.
Allora il funzionario, sempre molto ossequioso, con aria maliziosa mi disse: “Ci sarebbe una soluzione ma è molto pericolosa e non gliela consiglio. Domani mattina partirà un piccolo veicolo carico bidoni di benzina. Naturalmente è un trasporto illegale e il camion sarà camuffato per non far capire cosa contiene. Abbiamo trovato un autista anziano che ha accettato un buon compenso per correre il rischio di attraversare il paese con una specie di bomba viaggiante.”
Il cantiere si trovava in una zona di produzione di petrolio e non vi era mancanza di carburanti mentre nel resto del paese la benzina mancava.
Il funzionario era sicuro che io non avrei accettato e rimase di sasso quando gli dissi : “Sta bene, partiamo domani mattina” .
Durante la notte pensai di scrivere una lettera a casa da inviarsi nel caso che le cose fossero andate male. Ma la cosa mi sembrò ridicolmente smielata e non corrispondeva alla fiducia che io avevo nel mio Angelo Custode. Una condizione necessaria per vivere senza ansia le parti avventurose della mia agitata vita professionale.
Partimmo nel pomeriggio .
Il veicolo era costituito da un vecchio pick-up da 5 tonnellate, con una intelaiatura metallica sul cassoncino coperta da un telone per nascondere cosa si trasportava. Evidentemente i francesi non volevano perdere troppo in caso di incidente. Nel cassone erano stipati cinque bidoni di benzina da 200 litri e una ventina di contenitori da 20 litri.
Il conducente era anche lui un vuoto a perdere: un vecchietto dall’occhio spiritato con un fare scontroso e ostile. Era ben consapevole dei rischi e , penso, malediva la sua necessità del premio promesso.
Arrivammo all’imbrunire nella città di Dezful , percorrendo i primi 160 km di pianura : l’autista aveva una radiolina che accendeva periodicamente per ascoltare la voce di Khomeynì che da Parigi guidava la rivolta nel paese. Ci fermammo a dormire in una Guest-House dell’impresa.
Ripartimmo prima dell’alba e cominciammo a risalire le rampe che portano a un altopiano desertico. Il cielo era coperto e cominciò a piovere. Presto la pioggia si trasformò in nevischio e il nevischio in neve. La strada era scivolosa e dovemmo rallentare. Però dopo quattro ore di viaggio in una discesa , per il fondo ghiacciato della strada, il veicolo sbandò e si ribaltò sul lato dalla parte del passeggero: che ero io.
Mi ritrovai sbattuto con un fianco sulla portiera, che l’urto aveva accartocciato e schiacciata, con il vecchietto addosso. Il vetro si era frantumato in mille pezzi. Feci appena a tempo ad allungare il braccio e sfilare la chiavetta dell’accensione del motore … con tutta la benzina che poteva colarci addosso. Ma non fu così: i contenitori si ammaccarono ma non ci furono perdite. Ci districammo dall’involontario abbraccio e il vecchietto uscì per primo dal finestrino del lato sinistro. Poi uscii anch’io e saltando dal fianco della vettura, raggiunsi l’autista che già parlava animatamente con alcuni uomini accorsi.
Eravamo vicini a un piccolo centro abitato ed altre persone si avvicinarono tra le quali alcune donne e bambini. La discussione divenne molto animata ma qualcuno andò a prendere una piccola pala cingolata e si avvicinò al veicolo ribaltato con l’intenzione di raddrizzarlo con dentro tutto il carico.
A quel punto intervenni gridando, con le poche parole che conoscevo nella lingua locale, di fermarsi.
Poi più con gesti che con la voce, spiegai che prima bisognava svuotare il cassone dai contenitori di benzina , poi rialzare a mano il camioncino (c’erano abbastanza persone per farlo) ed infine, usando il cucchiaio della pala cingolata, ricaricare ordinatamente il carico.
Mi dettero retta di buon grado come succede con la gente semplice e laboriosa quando percepiscono la guida di un capo. L’operazione durò tre quarti d’ora. Poi vennero degli artigiani con delle tavole di legno a tappare il vano prodotto dal vetro rotto. Un lavoretto veramente ben fatto che ho potuto apprezzare nel resto del viaggio.
La porta dal mio lato era messa male e non apribile ed io rientrai dalla porta sinistra seguito dall’autista che, nel frattempo, aveva finalmente montato le catene sulle gomme.
Riprendemmo il cammino e con prudenza ci rimettemmo in viaggio.
Arrivò la notte e la guida diventò sempre più difficile perché il freddo faceva congelare la neve sul vetro anteriore ed a un certo punto il tergicristallo si bloccò. L’autista si scoraggiò, fermò la macchina e scese mugolando con tono lamentoso. Scesi anch’io, lo feci rientrare e sedere al mio posto. Mi misi al volante e affacciando ogni tanto con la testa fuori del finestrino nel turbinio di neve, riprendemmo una lentissima marcia. Fermandoci, ogni tanto, per orientarci.
La strada era in salita e arrivammo ad un dosso dove cominciava una lunga discesa dove vedemmo delle luci in fondo ad essa, ad una distanza di un paio di kilometri. Ci rallegrammo tutti e due e prendemmo coraggio .
Ormai l’iniziale diffidenza da parte sua si era trasformata in amicizia. Lo chiamavo per nome: Alì.
La luce illuminava una piazzola davanti ad un piccolo edificio che era un posto di polizia stradale. Sui lati della strada per una cinquantina di metri. prima e dopo, erano ferme automobili e autocarri. Entrammo nell’edificio e in una ampia stanza vi era un focolare acceso e persone sedute sul pavimento: uomini, donne e bambini.
Accolsero l’autista con affabilità, mentre lui raccontava le nostre disgrazie ma quando si resero conto che io ero uno straniero e un non musulmano mi chiesero, senza animosità ma con fermezza, di uscire dalla casa: vi erano donne e bambini e non era compatibile la presenza di un infedele.
Mi chiusi nel camioncino, avvolto in una coperta che mi avevano gentilmente prestato, con il motore e il riscaldamento accesi. Passai così la notte, senza problemi, perché avevamo tanta benzina a disposizione. Alì venne più volte a trovarmi, portandomi una tazza di tè o qualche pezzo di pane iraniano.
Mi svegliai che c’era già il sole in cielo limpido senza una nubi. La campagna coperta dalla neve che scintillava nelle prime luci del giorno: era uno spettacolo stupendo. Ma un altro spettacolo veramente mi commosse.
Inginocchiati e orientati verso la Mecca, con la fronte che toccava la neve, una lunga fila di giovani autisti pregava, dando lode a Dio. In piedi, orientato nello stesso modo, mi misi a pregare anche io quell’unico Dio, eterno ed infinito, che ci aveva aiutati e protetti.
Alì discusse con gli altri autisti su un percorso alternativo che ci portasse fuori dalle strade eccessivamente innevate. Facemmo una deviazione per passare attraverso Qom, la grande città santa per l’Islam sciita, … città natale dell’Ayatollah Khomeynì.
Arrivammo in quella città verso le due del pomeriggio ed ad un certo punto ci rendemmo conto che il nostro passaggio produceva uno scalpore tra la gente che era nelle strade. Con tutte le traversie passate la tela, che doveva nascondere quello che trasportavamo, si era lacerata in molti punti e i contenitori di benzina, producevano un disperato interesse nella popolazione. Eravamo infatti entrati in una zona, controllata dai rivoluzionari, dove da giorni mancava carburante.
Passammo accanto a una camionetta nel cui cassone vi erano quattro giovanotti armati di mitra. Si misero in moto dietro di noi suonando il clacson per farci fermare. Allora Alì perse la testa: certamente gli avevano promesso un grosso premio se avesse portato, sani e salvi, i recipienti di benzina alla sede di Teheran e non aveva intenzione, dopo tanti rischi e fatiche, di perderlo.
I giovanotti cominciarono a sparare in aria.
Io gridavo : “Alì,.. Alì fermati, che ci ammazzano!” Ma lui non voleva sentire, guidava a testa bassa, rischiando anche di investire qualche passante, … urlando frasi a me incomprensibili.
Per nostra fortuna il frastuono aveva attratto l’attenzione di un’altra camionetta di armati che si trovava avanti nel nostro percorso. Si misero di traverso sulla strada e Alì non poté fare altro che fermarsi.
Una folla inferocita si assiepò intorno alla nostra macchina. Tentarono di aprire la portiera dal mio lato ma non ci riuscirono perché era veramente incastrata. Aprirono la portiera dal lato di Alì lo afferrarono, lo sbatterono a terra e cominciarono a picchiarlo urlando. Senza che alcuno tentasse salire sulla macchina, dalla portiera di sinistra delle braccia si spinsero verso di me per afferrarmi.
Allora mi accadde qualcosa che non so spiegare.
Avevo accanto a me una borsa di cuoio, che mi avevano dato in cantiere per consegnarla alla sede di Teheran: conteneva lettere che le famiglie del cantiere mandavano alle loro famiglie in Francia. Le buste, per posta aerea, erano orlate con i colori della bandiera francese. Con un movimento istintivo tirai fuori dalla borsa le buste e le detti a quelle mani. Le afferravano e si ritraevano. Evidentemente la gente ricevendo questi oggetti rimaneva perplessa.
Allora Alì ebbe un colpo di genio. Suppongo che mise a gridare a quella gente che lo picchiava : “ Le buste sono francesi, … quel signore – che ero io – è un francese ed è amico di Khomeynì, … sarete puniti per quello che fate” Di fatto la folla si fermò e cominciò una discussione fra loro.
Allora un giovanotto, con aria distinta e gentile, entrò nella macchina e a me, che dovevo avere una faccia impietrita e terrorizzata, disse con un perfetto inglese: “ Sono dei servizi segreti , … stia tranquillo, … tutto si risolverà .., vi accompagnerò io a un posto di polizia”.
Salì in macchina e si sedette accanto a me. Entro Alì, con lividi e sangue sulla faccia e si rimise alla guida. Ci movemmo scortati da una camionetta di armati avanti e un’altra di dietro. Lentamente, tra i curiosi che si accalcavano sui fianchi della vettura, arrivammo alla stazione di polizia che era ubicata alla periferia della città sulla strada verso Teheran.
Mi ricevettero cordialmente, come si doveva a un amico dell’ Ayatollah. Mi chiesero il favore di regalare loro un paio di taniche di benzina. Cosa che concessi prontamente senza discutere.
Riprendemmo la strada per Teheran dove arrivammo all’imbrunire.
Le strade erano semi deserte perché la rivolta si sarebbe risolta solo qualche giorno dopo con la partenza dello Shah per gli Stati Uniti e l’arrivo di Khomeynì con un aereo dell’Air France, che avvenne il primo febbraio.
Vi erano lunghe code di automezzi in attesa accanto ai distributori di carburanti. Gli autisti che da giorni aspettavano fuori dalle auto l’arrivo di nuovi rifornimenti guardavano con curiosità il nostro camioncino in arrivo. Al nostro passaggio, visto quello che trasportavamo, - i camuffamenti erano ormai inesistenti – si levavano pericolose urla di rabbia. Noi filavamo diritti sempre con il fiato sospeso.
Arrivammo finalmente davanti agli uffici dell’impresa all’ora di cena e ancora una volta trovai tutto lo staff nello scantinato dedicato a buoni cibi e ottimo vino. Mi dissero senza tante perifrasi che, per il ritardo, mi avevano dato come scomparso e non mi aspettavano più: avrebbero dato la notizia alla mia famiglia in giorno dopo.
Andai all’aeroporto la mattina seguente convinto di aver perso la prenotazione del volo previsto per il giorno prima. Ma la nevicata che aveva allietato il nostro viaggio in macchina aveva colpito anche Teheran e il mio volo era stato spostato di un giorno. Mi feci strada tra passeggeri in attesa tra cumuli di valige.
Quando alla fine il mio volo decollò sentii dentro una grande tranquillità. Ringraziai il mio Angelo Custode e sembrò che lui mi facesse l’occhiolino come per dirmi: “Missione compiuta !”
Tre giorni dopo partivo da Milano su un aereo per il Sud America.

Giulio Belloni

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