RACCONTO
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Lunedì, 11 Agosto 2014

Un sogno chiamato Polinesia

Un bel viaggio ben raccontato, peccato che manchino le foto! La tapa, che per chi parla spagnolo è un bocconcino di qualcosa da mangiare con l'aperitivo, è in Polinesia un bellissimo lavoro di tessitura.

ARTICOLO DI

massimob

E’ una bella sensazione quella che abbiamo provato stringendo nelle mani i biglietti aerei, la prima cosa tangibile di quel sogno chiamato Polinesia. Nei giorni che hanno preceduto la nostra partenza ci siamo sentiti come risucchiati da un vortice di emozioni sempre più forti, tanto era alta l’adrenalina. Tanti i pensieri che affollavano la nostra testa, il più ricorrente se la destinazione scelta fosse stata all’altezza delle nostre aspettative.

Perché scegliere Tonga?

Abbiamo pensato che fosse l’unica isola del Pacifico a conservare una natura selvaggia e a non essersi arresa al progresso consumistico che livella qualsiasi civiltà. La nostra immaginazione ci portava lontano come ormai stava facendo l’aereo sul quale viaggiavamo da circa venticinque ore. Con non poco stupore ci siamo trovati di là dal mondo, non più stanchi di quando si passa il sabato pomeriggio in un centro commerciale a fare la spesa.

Il piccolo aeroporto di Tongatapu ci è sembrato subito familiare, il calore dei tongani ha subito cancellato la stanchezza dai nostri volti, fa sempre piacere ricevere un sorriso, soprattutto dopo un lungo viaggio. Dal taxi non riuscivamo a vedere niente poiché alle cinque e trenta del mattino il buio avvolge ancora ogni cosa, per cui l’attesa di capire dove fossimo doveva prolungarsi fino al sorgere del sole. Il lungomare di Nuku’alofa è stata la prima visione, il porto affollato da enormi barconi per la pesca di tonni, mahi mahi e blue marlin, e un piccolo mercato dove si acquista il pesce fresco. E fin qui niente di strano, buttando l’occhio all’orizzonte siamo rimasti immobili per qualche minuto provando delle sensazioni uniche per ciò che avevamo di fronte: gli isolotti visti sulle cartoline esistevano davvero, erano lì a poche centinaia di metri, talmente vicini da distinguere le palme altissime sopra una fitta vegetazione. Questo non sarebbe stato altro che il preludio di ciò che avremmo potuto finora solo immaginare. Questo angolo della terra non poteva che essere bagnato dall’oceano “Pacifico” visto che la vita scorre lenta e non esiste la frenesia di fare cento cose tutte insieme, a Tonga è normale fare una cosa per volta e con tutta la calma che occorre, ciò che non si può fare oggi si farà domani…forse. E durante la nostra permanenza questo motto l’abbiamo fatto nostro, ammettendo che le corse cui siamo abituati non fanno certo bene alla salute, infatti i tongani non conoscono l’ansia e lo stress, riescono a godere delle cose più semplici e a superare i problemi con il buon umore, per noi si è rivelata una preziosa lezione di vita che metteremo in pratica anche una volta tornati a casa.

Tongatapu, la cui etimologia significa “sacro sud”, ci ha mostrato, con il passare dei giorni, tutte le sue bellezze, i paesaggi mozzafiato delle sue coste, quella sabbiosa a nord, lambita dolcemente dall’oceano, e quella rocciosa a sud dove s’infrangono onde altissime che danno vita ad uno spettacolo unico nel suo genere, i blow holes, fessure nella roccia dove le onde s’infilano provocando un effetto tipo geyser e producendo un rumore simile a quello dello sfiato di un treno a vapore, da qui “buchi soffianti”.

Attraversando l’entroterra abbiamo visto distese di palme da cocco, banani, manghi e papaie, intervallati da campi di zucche e da piantagioni di caffè e vaniglia. L’isola è totalmente coltivata, tanto da coprire il fabbisogno dell’intero arcipelago tongano. Mancano però gli allevamenti di bovini, quindi la carne, il latte e i suoi derivati si trovano solo di importazione, come altri prodotti quali il vino e l’olio di oliva.

I diversi paesini che abbiamo incontrato sono collegati tra loro da strade non sempre asfaltate, per cui i fuoristrada si rendono quasi indispensabili. Nei cortili delle case tongane si notano alberi che da noi sono piantine da vaso, come il ficus benjamin, stelle di natale, ibiscus, oltre alle piante si vedono i maiali lasciati in libertà, che per cercare il cibo scavano nella terra, lasciando quindi i giardini vangati. Una curiosità è stata vedere le distese di panni messi ad asciugare sul filo spinato che fa da recinzione alle case, forse per questo si chiama “bucato”? Poiché i tongani amano vivere all’aria aperta le loro abitazioni sono molto spartane, pochi sono i mobili e molte le stuoie dove sdraiarsi, tutte hanno i pannelli solari installati sul tetto, per scaldare l’acqua che è rigorosamente piovana. Le grondaie sono collegate a delle grosse cisterne in cemento costruite di fianco alla casa dove l’acqua arriva già filtrata grazie ad una retina fissata all’estremità del tubo, poi sono le pompe a spingerla nell’impianto idraulico che la distribuisce nel bagno e in cucina. Il recupero dell’acqua piovana utilizzata anche per bere è reso possibile dall’assenza totale di agenti inquinanti nell’atmosfera e anche noi ci siamo dissetati ben volentieri con quella bevanda assolutamente pura.

Tornati a Nuku’alofa, capitale di Tongatapu, ci sembrava di essere in una metropoli. Il centro della città è molto trafficato per la presenza di uffici pubblici, banche, scuole e attività commerciali. Il fulcro del commercio è senza dubbio il mercato coperto, un edificio a due piani dove si vende ogni cosa, dall’abbigliamento alla frutta, infatti lì abbiamo fatto i nostri acquisti, anche gastronomici, le banane, piccole e dolci, erano diventate il nostro pane quotidiano. Il vero motivo per andare al mercato era quello di stare in mezzo alla gente, donne indaffarate a fare la spesa e gruppi di bambini intenti a giocare in mezzo ai cesti di tuberi allineati per terra. I prodotti artigianali come la tapa, le borse intrecciate di pandano, le collane di madreperla, vengono esposte tra i banchi di frutta e verdura, dando vita ad una tavolozza di colori che non ha eguali.

Il turista agli occhi dei tongani non è altro che un viaggiatore arrivato nella loro terra per apprezzarne il clima, il cibo, il mare e perché no, le loro tradizioni, per cui niente di straordinario viene fatto per lui se non accoglierlo calorosamente.

L’arte di intagliare il legno, di intrecciare foglie, di battere la tapa, è stata tramandata di generazione in generazione, e ogni tongano si adopera a creare oggetti che sembrerebbero solo souvenir per turisti, ma che in realtà fanno parte del suo quotidiano: i cesti servono per contenere le verdure e il pesce, la tapa viene usata come ornamento nelle case e nelle chiese, e indossata durante le cerimonie.

La parola business a Tonga non è conosciuta, lo dimostrano i vari ristoranti, alberghi e negozi gestiti esclusivamente da neozelandesi, tedeschi, italiani, che per fortuna, a parer nostro hanno saputo integrarsi nella cultura tongana senza stravolgerne la semplicità. Ormai da diversi giorni facevamo parte anche noi di questa realtà e non potevamo certo sottrarci al rito che si ripete ogni domenica, qualsiasi attività lavorativa viene sospesa, è difficile persino trovare un taxi. Si respira un’atmosfera fiabesca, sin dalle prime ore della mattina una densa nuvola di fumo avvolge le case, e le campane delle chiese suonano a festa. I tongani prima di andare a messa preparano l’Humu, piatto tipico a base di pesce e verdure avvolto in foglie di banano, messo a cuocere in una buca piena di brace e coperta di foglie. Nella sola Tongatapu si contano circa quattrocento chiese, ne abbiamo visitate alcune, e ci ha sorpreso la semplicità strutturale, nessuna ostentazione di oggetti lussuosi, l’unica ricchezza è la fede stessa dei tongani, che raccolti in silenzio, prendono posto sulle panche di legno consumate, ma adornate da palme e fiori profumati, uomini e donne indossano abiti scuri ravvivati dalle ta’ovale impreziosite da conchiglie e perline. Il coinvolgimento era totale, eravamo seduti tra loro e ci siamo sentiti parte di loro, al punto da provare i brividi ogni volta che le loro voci straordinarie si univano in coro.

Siccome il nostro doveva essere un viaggio itinerante nelle diverse isole che compongono il vasto arcipelago del Regno di Tonga, siamo saliti a bordo di un piccolo aereo, un vecchio dc3 che ci avrebbe portati a Vava’u. La trasvolata ci ha permesso di godere di panorami meravigliosi, un atollo dopo l’altro disseminati come a tracciare il percorso da seguire, sembravano sospesi in cielo tanto l’acqua era cristallina. Con gli occhi ancora abbagliati per lo spettacolo della natura cui avevamo assistito ci siamo trovati a Neiafu, la capitale di Vava’u, ed è stato come andare indietro nel tempo di almeno una ventina di anni, un’unica strada percorre il centro della città, pochi sono i negozi, non mancano tuttavia le scuole, le banche e gli uffici pubblici. I tongani che abitano a Vava’u non si dedicano all’agricoltura, infatti è raro vedere campi coltivati, le verdure che si trovano al mercato, a parte tuberi, cipolle e patate, arrivano da Tongatapu, la professione più diffusa è il dolce far niente.

Il nuovo porto di Neiafu ospita decine di barche a vela di diverse nazionalità, che qui trovano riparo dopo giorni di traversata in aperto oceano Pacifico. L’arcipelago di Vava’u è meta di molti turisti oltre che per le numerose isole dalle spiagge bianche, anche per un fenomeno che si ripete ogni anno da luglio a novembre, le Humpback whales, balene che vengono dai mari del polo artico, per riprodursi nelle acque calde di questa parte dell’oceano. Non potevamo perderci questo insolito incontro e con una chiatta munita di idrofono abbiamo navigato fino a quando le balene sono state avvistate, le vedevamo giocare con i loro piccoli, si fa per dire piccoli, quasi ignorassero la nostra presenza, non immaginavamo di poterle avvicinare così tanto da averle di fianco alla barca, pur avendo una mole così grande non ci incutevano paura, anzi, con i loro movimenti lenti e aggraziati ci trasmettevano calma e serenità. A Vava’u abbiamo visitato diverse spiagge, tutte bellissime e completamente deserte, dove la sabbia è mescolata a coralli e conchiglie, le palme si stagliano alte nel cielo, i fiori e le piante formano un tappeto fitto quasi a toccare il mare. Stavamo per ore a guardarci intorno in un silenzio surreale rotto solo dal canto dei pappagalli e dal rumore del mare, ci dispiaceva persino stare sdraiati a prendere il sole perché a tenere gli occhi chiusi anche solo per un istante ci sembrava come mancare di rispetto ad una natura così generosa. A bordo di un trimarano ci siamo fatti cullare dall’oceano fino ad approdare su diversi atolli disabitati e selvaggi, e ogni volta sembrava di entrare in un quadro di Gaugin, abbandonavamo i nostri sensi ad una morbida sabbia riscaldata dal sole, all’odore delle piante, al canto degli uccelli, il gusto del cocco fresco deliziava i nostri palati, l’acqua color verde smeraldo rinfrescava i nostri corpi abbronzati.

Tutto questo era molto di più di quanto avevamo sognato.

Con il solito vecchio dc3 ci siamo diretti alle Ha’apai, che geograficamente sono al centro tra Vava’u, che è al nord, e Tongatapu, che è al sud. La capitale, Pangai, è una città in miniatura, molto curata, ogni edificio è colorato e ogni abitazioni ha il proprio orticello. Anche qui non manca il mercato, benché piccolo offre una discreta varietà di verdure e di frutta. Appena fuori dalla capitale si trovano tanti villaggi sparsi nelle campagne dove è facile assistere alla lavorazione della tapa, per farne una delle dimensioni di 5×3 mt occorrono circa quattro mesi di lavoro, e vi partecipa l’intera famiglia. Che i tongani fossero attaccati alle proprie tradizioni ne abbiamo avuto la conferma anche nel vederli pescare nelle vecchie piroghe a remi con il bilanciere. Pescano non lontano dalla spiaggia, appena fuori dal reef, dove c’è abbondanza di pesce ed è suggestivo vederli tornare al tramonto con il pescato, le piroghe scivolano così leggere sull’acqua color vermiglio che sembrano volare. Restavamo seduti a guardare fino a che sopra di noi veniva allestita una nuova scenografia che solo la natura riesce a realizzare, su uno sfondo blu intenso milioni di stelle accese come lampadine circondano la luna colorata di argento, fino a quel momento eravamo convinti che esistesse una sola luna, invece in Polinesia ne abbiamo scoperta un’altra, che oltre ad essere più luminosa è anche molto più grande, e così vicina a noi quasi da poterla toccare.

Quella che arrivava non era una notte qualsiasi, ma era la notte che precedeva un nuovo giorno, e un nuovo giorno comincia sempre da Tonga.

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