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Martedì, 6 Gennaio 2015

Su certi luoghi comuni

Il mio primo grande viaggio, lo sputtanato, rivisto, rifatto e risentito Erasmus. Che puo' essere banale, o l'inizio dello straordinario.

“L’Erasmus è bello bello bello, ma devi impegnarti tu per renderlo tale. Alcune volte puo’ essere brutto, terribile. Ti cambia la vita… ma anche in questo caso devi essere tu a fare in modo che ciò succeda. Quando tornerai non sarai più la stessa e penserai che siano gli altri ad essere cambiati. Però non esiste cosa più bella al mondo. Vedi questa esperienza come “l’occasione della tua vita” e sfruttala a pieno senza tante seghe… anzi, fattele tante di seghe mentali, perché a pensarci bene sono quelle che ricordo con più affetto e che mi hanno fatta crescere davvero. Noi ti aspettiamo. I veri amici ti aspettano, e se non lo fanno, significa che non sono veri”.

Che l’Erasmus ti cambi la vita è il luogo comune più sputtanato tra i luoghi comuni sull’Erasmus. Cosa esattamente succeda è un grosso mistero, e su quanto sia esagerato parlare di svolta di vita non ci è dato sapere, perché di solito chi torna racconta solo di sbornie, droghe e sesso facile. Magari è solo quello che alla fine interessa alla gente, ma vorrei provare a raccontare un po’ meglio come ha funzionato per me tutto il discorso del cambio.

Fondamentale dire che sono di un paese di tredicimila anime famoso per essere abitato e frequentato da grandi bevitori di vino, e studio in una vicina cittadina che non offre molto di più per la giovani e vivaci menti falische. Diciamo che normalmente la gente se ne va. Il 29 agosto del 2014, dopo vari anni di insofferenza e noia mortale, ce l’ho fatta anch’io. Sprovvista di tutto fuorché consigli sensati di amici e parenti, ho preso il mio aereo per Madrid.

Non credo avessi aspettative precise. Il discorso è che quando parti per l’Erasmus non hai fretta di fare le cose come quando parti per una settimana, ma non hai neanche il tempo dilatato in prospettiva di restare: sai che hai un sacco di tempo ma anche che finirà prima di quanto credi. Tutte le mie speranze erano incentrate sul cazzeggiare in modi non convenzionali e tornare illuminata, pronta per inserirmi con un ruolo sociale nuovo tra la gente del mio popolo. Avevo già deciso che sarei rimasta a Natale senza neanche sapere chi avrei incontrato, non conoscevo le tappe obbligatorie della città, non avevo mai vissuto da sola ne stretto delle vere amicizie con non-italiani. Non mi piacevo granché, ultimamente. Per questo, tutto quello che di me potevo lasciarmi alle spalle l’ho brutalmente sfanculato.

Prima cosa con cui fare i conti: se vuoi godere davvero della Spagna, devi parlare spagnolo. Gli spagnoli, è vero, sono un popolo apertissimo, ma non si scomodano troppo a parlare la lingua degli altri. E poi tutti gli stranieri parlano spagnolo, anche tra stranieri. Aver studiato la grammatica e aver fatto una qualche specie di pratica non ti permette di comunicare. E anche, di ispano-parlanti ne esistono più tipi di quanto ognuno di noi poveri ingenui italiani sperassimo. Ma soprattutto, parla spagnolo con uno spagnolo che ti parla come parlerebbe a suo fratello e capirai quanto tu sembri imbecille quando cerchi di costruire una frase con intenti comunicativi complessi. Capire, nonostante la vicinanza dei nostri lessici, è un casino, e parlare, provare per credere, costa da morire. Verónica, la mia prima coinquilina e guida a Madrid, ancora mi prende in giro. Sembra che non sia in grado di pronunciare la g e la r come si deve e che metta delle s che non esistono alla fine delle parole.

Madrid è una capitale, come tale frenetica e maleducata a volte. Ma in una maniera così rilassata, così tranquilla, così in pace con se stessa che niente sembra impossibile. Non so se è stata fortuna, se tutto mi sembrava straordinario perché casa mi aveva stufato o se sono stata una tristona disfattista tutti i giorni della mia vita. Ma qui sono sopravvissuta alle rotture di palle dello studente sprovvisto appena atterrato senza neanche troppo sforzo. Gente che ti offre una stanza di appoggio, che ti trova un posto dove stare, che lascia la sedia al lavoro per spiegarti come fare le tue commissioni, che parla con te da cinque minuti e ti invita ad uscire, che ti fa da guida uscendo in pigiama da casa. Tutti grandi schiaffoni alla mia chiusura e sfiducia paesana che credevo di non possedere, e di cui tutt’ora fatico a liberarmi.

A questo proposito, c’è stato un giorno, nella mia casa di settembre, che la mia coinquilina doveva recuperare una federa caduta sullo stendino del piano di sotto. Io ero già pronta a scendere le scale per citofonare al vicino, ma lei mi ha fermato, mi ha detto che così non era divertente. E quando le ho detto che quello che stava per fare era uno spreco di tempo, mi ha risposto che ero una donna di malafede. Poi ha montato un attrezzo grottesco con una bottiglia di plastica piena d’acqua su cui aveva incollato delle grosse spille da balia. Lo calava con la corda e lo faceva dondolare, e ogni volta rischiava di peggiorare le cose. Contro ogni logica alla fine l’ha tirata su quella federa. Ho visto nella sua espressione di vittoria, mentre mi sfotteva, la me di otto anni e mi sono chiesta che cazzo mai mi fosse successo nel frattempo. Quel senso di sconfitta mi ha aperto un mondo. Bisogna credere in ogni cazzata che si fa, per goderne a pieno. Ma soprattutto non ci si puo’ limitare a pensarle, le cazzate. Bisogna buttarcisi dentro con tutte le scarpe.

Gli orari in Spagna sono sfasatissimi e illogici. Colpa di Franco: nonostante il suo paese fosse evidentemente molto più a ovest rispetto alla Germania e all’Italia, voleva adeguarsi agli orari dei fascisti per non essere diverso da loro. Il sole sorge e tramonta tardi rispetto a casa. E forse è per questo che per bere e mangiare non esiste un orario standard. Cucine sempre aperte, qualsiasi orario è buono per una birra, e costa pure poco. Ovviamente sono ingrassata, felice di godere del maggior numero di bar possibile, che sono la parte più caratteristica di questa città. Normalmente mi preoccupo di mantenere una certa estetica, più per compiacere gli altri che me stessa. Qui è diverso, a nessuno gliele frega niente, non sanno quanto pesavo prima. Quello che a un italiano costa di più è abituarsi ai modi di mangiare degli altri, non c’è dubbio. Qui si tapea, cioè chiedi del cibo e i piatti che ti presentano li condividi con tutti quelli intorno al tavolo. Un pasto con gli amici puo’ durare quattro ore, perché mangi un massimo di 3 bocconi per ogni piatto che ti portano, e chiedi altra roba a seconda di quanta fame hai quando finisci le prime cose. Nonostante sopravvivere alla fame iniziale sembra impossibile, finisci bello pieno e quando ti sposti (N.B. non necessariamente “ti alzi”) dal tavolo (di un diametro ridicolo in cui vengono stipate anche decine di persone), è già ora di un rum e cola. Alle sei del pomeriggio.

Altro must dell’Erasmus è quello di viaggiare per il “paese ospitante”, come lo chiamano. E, oltre all’arricchimento culturale, ti fa capire un sacco di cose sul posto in cui vivi. Quando sono stata a Barcellona pensavo di comportarmi lì come mi comporto a Madrid, e sono finita per avere un ostello lontano dalla brulicante vita della città, nonostante fossi a due passi dalla Sagrada Familia, e a rischiare di rimanere senza cena e senza serata per essere uscita troppo tardi e di domenica, ed erano le undici. Niente da fare, la leggendaria vita notturna madrilena è leggendaria sul serio. E non si tratta di ubriacarsi, o comunque non solo di quello. Di notte balli, mangi, bevi, ti sposti senza problemi, vai alle terme, al cinema. Non per tutta la notte. Ma mezzanotte è come le nostre dieci. L’ultima volta che ho dormito prima dell’una era in Italia. E comunque, vivere a Madrid e conoscere Siviglia, Barcellona, Cadice, Granada e non so quante altre città e sapere di essere cresciuta a un’ora e mezza da Roma e non aver mai visto i Musei Vaticani mi fa pensare che quando parlo dell’Italia, non parlo di tutta l’Italia, ma solo del posto in cui vivo, probabilmente. Molto del bello del mio paese non lo conosco.

Per quanto riguarda l’italianità, non te ne puoi liberare. Essere italiani all’estero a volte fa male, perché bisogna sorbirsi un sacco di prese per il culo, di domande su Berlusconi, di lezioni di civiltà e di lame nella carne quando si parla di politica e società. E poi bisogna ridere quando scimmiottano cadenze napoletane e uniscono le mani alla “’cazzo vuoi” mentre ti dicono “vaffanculo stronzo di merda”. Siamo dei gran coglioni, ci ridono dietro per un sacco di cose. A me ridono dietro per come faccio il caffè e perché faccio la pasta con troppa cura, secondo loro, però non hanno mai mangiato pasta migliore della mia e sono l’addetta ufficiale al caffè. Alla fine ci adorano, li facciamo stare bene. E gli italiani, per gli italiani all’estero, sono fondamentali. Noi ridiamo, se non più degli altri, con più gusto. E poi quando puoi finalmente parlare al tono di voce normale e non sembrare strano senti ogni muscolo del tuo corpo rilassarsi e la gola bruciare violenta a fine conversazione. E di questo te ne accorgi quando ti vengono a trovare, o quando passi le vacanze di Natale in mezzo a stranieri: per quanto meravigliosi e socievoli possano essere, per quanto siano la tua famiglia, non saranno mai casa come, nel bene e nel male, lo sono gli italiani.

Casa diventa un concetto strano quando manchi da lì per un po’. Io ho sempre avuto il complesso di non appartenenza in qualsiasi gruppo fossi, non so bene il perché. Ma adesso che non vedo le solite facce da mesi capisco quanto tutto questo faccia parte di me e sempre farà parte di me. Bisogna anche accettare che non si puo’ decidere a chi si appartiene, si nasce e si cresce dove si nasce e si cresce, e l’idea di appartenenza forse serve di più quando da quel posto ci sei fuori che quando ci sei dentro. Le persone di sempre puoi non sentirle, puoi non vederle, puoi anche volerle evitare, ma alla fine cominci a riconoscere le loro facce nelle facce di tutti i passanti, e quello che odiavi di loro comincia a piacerti, ma soprattutto acquista senso.

La selezione degli amici di una vita, tanto famosa negli aneddoti dei viaggiatori di tutti i tempi, esiste. Non è una vera selezione, in realtà lo sapevi già da prima quali persone avresti avuto vicino e quali te le saresti perse per strada. Chiunque abbia qualcosa di interessante da dirti, è in grado di dirtela anche a migliaia di chilometri di distanza. Solo che da lontano diventa più chiaro e più facile capirlo, perché non puoi fare nient’altro che dire cose a chi hai lasciato a casa. È per questo che succederà lo stesso, credo, con tutta la gente che ho conosciuto qui. Alcuni resteranno, e credo di sapere già chi. Nei racconti di vita vissuta in Erasmus un’altra delle costanti è parlare dei nuovi amici. Io credo di aver avuto un gran culo con i miei. Se avessi potuto sceglierli, avrei scelto loro, e non ho molto altro da aggiungere.

A un mese dal mio rientro non posso non farmi domande su come spendere il tempo che mi resta, su come sarà tornare, se davvero cambierà qualcosa nella mia vita. Io sì, mi sento cambiata. E il segreto di questo cambio è stato volersi perdere nell’ambiente, lasciarsi plasmare da ciò che mi circondava. Forse non mi sono fatta plasmare abbastanza da casa mia, gli ho sempre opposto resistenza, per lo meno da una certa età in poi. Qui ho abbassato le difese, ho abbandonato l’idea di me stessa che mi sono costruita negli anni per diventare qualunque cosa la città esigesse che diventassi. Forse il trucco per svoltare è solo considerare le cose possibili, tutte, in qualsiasi direzione si vada, non soffermarsi troppo sulle distanze che ci separano dagli obiettivi ed essere disposti a cambiarli, di tanto in tanto. Ma avere questo dono non dipende dall’Erasmus, dipende dall’elasticità mentale e dall’immaginazione, che tutti abbiamo, ma che spesso ci scordiamo di alimentare. C’è gente –non ho dubbi- che ce la fa restando a casa, ma per chi non è come loro, sicuramente andarsene aiuta.

Io, forse troppo razionale e intrappolata in certi schemi, ho avuto bisogno di venire qui per capire che la differenza fra essere straordinari e ordinari è avere il coraggio di credere nelle proprie malatissime, incondivisibili idee e non avere paura di mettersi in gioco con quello che si ha. Tutto il resto viene da solo, nella più naturale delle maniere. E forse l’unico senso del mio viaggio sarà tornare con una consapevolezza più solida di certi limiti e di certe possibilità che prima non avevo, e chissà è proprio questo che renda più interessante la vita delle persone.

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