RACCONTO
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Lunedì, 11 Maggio 2009

Scendere al Nord

La Boca è un universo di colori incontenibile; alla fine dell'800 ci vennero migliaia di immigranti italiani e ancora oggi gli abitanti si fanno chiamare Xeneizes, genovesi.

Concorso Storie Vagabonde

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Vagabondo0


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Buenos Aires è avvolta da un'aria familiare. Le piccole callecitas di San Telmo somigliano alle viuzze sporche della Milano anni'60, fra artisti di strada, mercati chiassosi, ambulanti e vagabondi che rannicchiati sulla corta scalinata di Plaza Dorrego sorseggiano mate e schiacciano un pisolino.

La Boca invece è un universo di colori incontenibile; alla fine dell'800 ci vennero migliaia di immigranti italiani e ancora oggi gli abitanti si fanno chiamare Xeneizes, genovesi. Ogni domenica sul Caminito, la via centrale del quartiere, si scatena il mercato dell'artigianato, mentrre orde di tifosi passano sul viale per andare alla Bombonera a vedere il Boca Juniors e case di mille sfumature.

Gialle, azzurre, rosse, venivano dipinte coi resti delle vernici utilizzate sulle navi merci intercontinentali, oggi sono una delle attrazioni turistiche più note della Capital.

Plaza de Mayo richiama alla memoria le immagini della protesta.

Le famiglie dei desaparecidos si riunivano qui, all'inizio degli anni'80, per chiedere giustizia dopo 8 anni di interminabile dittatura, sempre qui, su questa immensa piazza, prendevano forma le manifestazioni del 2002 per la crisi economica ed ancora qui, appena qualche mese fa, si compattavano le organizzazioni agrarie contro la riforma economica del governo di Cristina Kirchner. Attraverso la piazza da un capo all'altro e mi pare ancora di avvertire una specie di forza magnetica, pare di poter annusare l'odore della battaglia, dell'orgoglio.

Intanto si fa sera, e nonostante non sia molto convinto decido di andare a Palermo, il quartiere occidentale della città, dove s'incrociano le tendenze underground ed i locali alla moda, le librerie intellettuali ed i concerti jazz. Bevo una Quilmes fresca e mangio una empanada con el choclo (un panzarotto al mais, una cosa buonissima...), m'immergo in questa sorta di Berlino dei poveri e... anche se fa un po'tristezza vedere sti ragazzi che provano a imitare ciò che vedono in tv, in fondo si sta bene, resta soltanto un po'd'amaro quando mi rendo conto, di nuovo, del contrasto tipico ed immenso che nelle città dell'America Latina divide ricchi e poveri, vicini e lontanissimi.

Forse non basterebbero tutti e quindici i miei giorni per girare solo i posti più belli di Buenos Aires, ma devo andare.

In Argentina ci si muove solo in autobus e allora dall'infinita stazione di Retiro, nel Nord Est della città, prendo un colectivo con destinazione Corrientes, la capitale della cultura nordargentina.

16 ore di viaggio sono quasi definitivamente sufficienti per convincermi che lo spropositato prezzo del biglietto aereo che m'ha portato sino a qua in fondo fosse giustificato.

L'autobus s'insinua fra scenari incantevoli, vie terrose, superstrade, pascoli e campi di grano, girasoli e tantissime mucche; andiamo avanti, e avanti, e avanti, e sembra non finisca mai.

Ho scelto una compagnia economica e questo mi permette di condividere il percorso con una galleria meravigliosa di personaggi.

C'è un'intera famiglia, saranno 12, che sta tornando a casa dopo aver visitato per la prima volta Buenos Aires. Parlotto un po'con Juancito, un ragazzino tredicenne con il volto indio che è ancora eccitatissimo dai giorni in Capital; mi spiega che non aveva mai visto il mare e che non pensava fosse così grande. Lui viene da Villa Ana, un villaggio piccolissimo nel nord del distretto di Santa Fè dove negli anni'20 gli inglesi costruirono un'enorme fabbrica per la lavorazione del Quebracho, un albero durissimo, tipico della zona, da cui ricavavano il tannino, una sostanza utilizzata per la lavorazione del cuoio.

"Il paese era piccolo ma ricco, si stava bene, gli inglesi fecero la rete idrica, portarono la televisione, c'era persino una piccola ferrovia e s'erano pure organizzati con un campo da golf", mi dice la madre.

Poi però andarono via, avevano ormai disboscato quasi tutto sul finire degli anni'50 e scoprirono che in Africa c'erano molti più alberi, con una manodopera decisamente più economica. Abbandonarono Villa Ana e tantissimi altri paeselli lì intorno, luoghi nei quali da allora si tira avanti alla bell'e meglio, con indici di povertà fra i più alti al mondo.

Juancito non mi molla e parla, e parla, tanto che alla fine mi convince per davvero che vale la pena fermarsi. E' deciso. M'accodo alla famiglia sulla rotta del villaggio fantasma.

La lunghissima Ruta 11 ci lascia in strada alle 6 del mattino, mancherebbero ancora 3 ore per Corrientes.

Da Villa Ocampo, una specie di città base per le decine di assembramenti urbani polverosi e decadenti che stanno tutt'intorno, mancano ancora 35 chilometri. Li percorriamo sulla corriera di linea più scassata del mondo.

L'asfalto in terra c'è, ma in ogni caso è tutto un sobbalzare sulle poltrone viola ed arancione, mentre due vecchie signore senza denti armeggiano distratte cercando di tenersi buoni i polli appena presi al mercato comunale.

Sembra già di aver varcato il confine.

M'avevano detto che l'Argentina a Nord era un altro mondo, ma non me l'immaginavo così. Arrivando dalla capitale si ha una specie di shock culturale, un passaggio inatteso che mi trasporta da una società tutto sommato occidentalizzata ad una specie di luogo fuori dal tempo, dove pare che tutto si sia fermato.

La strada principale di Villa Ana è l'unica asfaltata, tutte le altre vie, las calles, come dicono qui, sono di terra e polvere, se ti va bene.

Arriviamo che la pioggia batte già da qualche ora, sono quasi le 8. Quando scende l'acqua Villa Ana si trasforma in una specie di incontenibile distesa di fango, d'altronde qui pure le case sono fatte col terriccio umido, è una sorta di elemento naturale che ci si porta dentro.

Il paese è bellissimo.



Vado a dormire dalla famiglia di Juancito. Ramon, il capofamiglia, fa il professore di storia nella scuola superiore e mi sistema meglio che può nella cucina-tinello-entrata-salone-veranda.

Una stanza unica, in molti sensi...

Vado subito alla vecchia fabbrica, Juancito me ne ha parlato così tanto che comincio davvero ad essere impaziente di vederla. Vagando a piedi per le viuzze s'incrociano decine e decine di cani, col tempo non ci farò più caso, in Sudamerica i cani sono ovunque.

Nei 15 minuti di camminata conosco più persone che nelle mie 48 ore a Buenos Aires, soprattutto bambini. Ce ne sono tantissimi. Mi fanno domande, mi chiedono dove ho comprato il mio cellulare, e vogliono sapere delle mie scarpe, e se è vero che in Italia mangiamo solo pizza. Hanno la pelle ambrata di generazioni cresciute sotto al sole fortissimo di queste terre, sono quasi tutti a piedi scalzi e con i loro occhi grandissimi mi trasmettono una felicità meravigliosa, mi fanno tornare in un luogo distantissimo, dove sei semplice per necessità, e a 12 anni ti diverti ancora giocando a nascondino, o a un due tre stella.

Prima di andare alla fabbrica passiamo da Luciano, un ragazzo di 21 che in questo posto sperduto ha tirato su con quattro amici una specie di ONG, ogni anno organizzano un campo di lavoro internazionale con gente che arriva da tutto il mondo ed aiutano con piccole iniziative la comunità. Luciano mi piace, è giovane e arrabbiato, ma ha lo sguardo deciso; se penso a quanto ed a come crede in quello che fa quasi mi vergogno nel mio essere viaggiatore e solitario.

Mi spiegano come funzionava la fabbrica, passaggio per passaggio. E' tutto ancora in condizioni perfette, un luogo magico. In Europa sarebbe un patrimonio di non so quale ente megagalattico, con centinaia di visitatori al giorno, qui invece ci sono solo io, nel mezzo del niente.

Luciano m'invita ad un asado, la tipica grigliatona di carne argentina, coi ragazzi del gruppo di solidarietà, Quebrachito Villa Ana. Conosco Pablo, Andrea, Catalino e Cecilio, il più grande ha 27 anni ma si vede già che la vita se la sono guadagnata pezzo dopo pezzo. A tavola qui si condivide tutto, siamo in sei ma ci sono solo due bicchieri, al centro della mensa campeggia uno strofinaccio che utilizziamo tutti. Dapprima resto in guardia, ma dopo un po' mi rendo conto che con una naturalezza favolosa si riempiono il bicchiere di cerveza, ne bevono un sorso e poi la passano a chi gli sta accanto.

E'l'immagine più bella che mi sono portato via dal Sudamerica e non me la scordo più. Ogni volta che ci penso prendo coraggio e mi convinco che in fondo, da qualche parte nel mondo, ci sono ancora posti dove la vita è possibile viverla davvero tutta, sino alla fine.


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