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Lunedì, 20 Ottobre 2014

Sao Luis, una città non così fantasma

Sao Luis nel Maranhao ha una brutta reputazione: sporca, brutta, pericolosa... Ma c'è chi riesce a cogliere il suo fascino e se ne innamora: Giorgia ci racconta questo "colpo di fulmine".

ARTICOLO DI

gitanilla

Avete presente quando si scende da un bus, o da un aereo, o da un treno e si sente quella vibrazione particolare tradotta semplicemente con “questo è il mio posto”? Beh, a me è successo a Sao Luis. Arrivarci da Rio, poi, una città che sarà sì maravilhosa, ma che pioggia e problemi vari mi hanno impedito di amare, è stato provvidenziale, perché mi ha dato davvero l’impressione di essere fuori dal tempo. Sao Luis è il passato che si studia sui libri di storia, quello che immaginiamo pensando a una colonia 400 anni fa. Quello che, nella mia mente, si avvicinava di più all’idea che avevo della New Orleans di 100 anni fa. Ed è un miracolo che sia arrivata quasi intatta al 2014, anche se in stato comatoso. La sua decadenza non è dovuta al fatto che, come si affrettano a dire i saccentoni, “a questi non va’ di lavorare”. La sua incuria è la naturale evoluzione dei paesi ex-colonie, dove orde di turisti europei che gridano “che peccato, guarda tutti questi bellissimi palazzi abbandonati” non capiscono che ai locali quella città forse non è mai andata giù, perché era lo straniero che l’aveva costruita. E chi punta il dito contro gli “incivili” che abbattono pezzi di storia per costruirci sopra un palazzo nuovo, forse non sa cosa vuol dire essere colonizzato.

Passeggiarci è come camminare in un enorme museo all’aperto, con gli azulejos che ti abbagliano e gli alberi che prendono possesso delle case abbandonate. I soldi per restaurarla, arrivati con la nomina a patrimonio mondiale dell’umanità, si sono volatilizzati nelle tasche di qualcuno, identificato con la famiglia Sarney, padrona del Maranhao da oltre due secoli. E il centro storico di Sao Luis si è spento, con la gente che fugge nella parte nuova della città e si lascia dietro il passato. Arrivarci di sabato alle 3 del pomeriggio, giorno in cui tutti vanno in spiaggia e per le strade mancano solo le rotolacampo, è davvero suggestivo. In cerca di un bar, arriviamo in praça do Carmo, che secoli fa forse era il centro della vita culturale locale, ma che oggi appare come una di quegli avamposti persi nel deserto dove giravano i vecchi western: un paio di baracchini chiusi al centro della piazza, qualche barbone che cerca ombra per dormire ai lati e neanche un essere umano in giro. Vengo indirizzata a sinistra, sulla Rua Grande: entriamo in un altro mondo. Un negozio dietro l’altro, bancarelle ad affollare i vicoli e la promessa che alla terza a sinistra ci sarà un posto per prendere una birra ghiacciata. Superiamo un paio di fili elettrici penzolanti, scostiamo un mucchio di immondizia, seguiamo la folla dentro una catapecchia da cui esce musica assordante. E ci ritroviamo in Dirty Dancing versione brasiliana. C’è di tutto: corpi avvinghiati, mani sui culi, un centinaio di persone stipate a bere e ballare forrò. Pacche sulle spalle e birre offerte a quegli strani gringos che misteriosamente sono approdati lì.

Dicevano che Sao Luis è spettrale, ma io di Sao Luis ricordo solo la musica. Dappertutto. Il reggae, che curiosamente qui si balla in coppia, è ovunque: esce dai bar, dalle macchine, dai carretti degli ambulanti che vendono cd contraffatti. Non abbiamo cercato un locale di reggae perché ne abbiamo trovato uno di metallari. Di Sao Paulo. Socievoli e dolci come non te li immagini proprio, ci raccontano che trovarsi nella capitale musicale del Nordeste è una forte emozione. Che la città è piena di belle vibrazioni ma che viverci facendo musica è un casino, per quanto è pericolosa. Diamo appuntamento ai ragazzi dopo cena e in due torniamo un momento in hotel.

Dall’appartamento di fronte si sente un gruppo che suona i Radiohead e attacchiamo bottone con la signora che sta aprendo il portone: madre di uno dei musicisti, ci spiega che stanno girando un video nella loro casa di famiglia e ci chiede se vogliamo entrare a dare un’occhiata. Come perdere l’occasione di visitare una di queste bellissime case vecchie di oltre duecento anni? L’interno è quasi vuoto: a parte lo studio legale della signora al pian terreno, tra le enormi stanze del primo piano si incontra sì e no una vecchia credenza, una lampada antica o una poltrona consumata. Abbandonato anche lui. Lidia, la padrona, ci spiega che quella era la casa di Ana Jansen, detta la “Regina del Maranhao”, una famosa proprietaria terriera vissuta tra il settecento e l’ottocento, che “uccideva senza pietà i suoi schiavi e li gettava nel pozzo della sua fazenda di Santo Antonio. Nel pozzo, alcuni studiosi hanno trovato un centinaio di cadaveri”. La famiglia non ci abita, ci spiega la signora, non per queste orribili storie, ma perché il centro storico è diventato troppo pericoloso. Tanto che ci incontra a camminare per strada e ci carica a forza nella sua auto per accompagnarci al ristorante. Perché “è meglio non girare da sole”.

Dicevano, quindi, che Sao Luis è pericolosa. Lo dicevano praticamente tutti: Lidia, i metallari, la Lonely Planet. Persino l’altro gruppo che era lì in quel periodo, che era effettivamente scampato a un tentativo di rapina. E anche un viados strafatto di cocaina che insisteva per abbandonare il suo marciapiede e scortarci a casa “perché con me sarete al sicuro, mi conoscono tutti”. Quando viaggio, soprattutto in città pericolose, tento sempre di assumere quell’aria che è un misto di dura, stracciona e “mi faccio i cazzi miei”. Di solito funziona, ma a Sao Luis non ce n’è stato bisogno: alle due di notte eravamo cinque vagabondi un po’ brilli, emozionati per essere in quella città che ci sembrava di aver capito e contenti di averla vissuta con naturalezza, oltre l’apparenza.

Dicevano che Sao Luis si odia o si ama. Dire che l’ho amata è poco, perché ci sono passata due volte nel giro di due settimane, la seconda facendo una deviazione di un giorno e un sacco di soldi. E dovrò tornarci un’altra volta perché, nonostante tutto il mio impegno, non sono riuscita a vedere l’Alcantara. E’ quella la vera città fantasma. 

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