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Lunedì, 27 Aprile 2009

Roaring Dunes

La Namibia, un insieme d'infinite distese sabbiose, sassose o coperte dalla savana, interrotte da rilievi rocciosi o da drammatici canyon.

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Vagabondo0






La Namibia, il vastissimo paese che si estende nell'Africa meridionale per 800.000 chilometri quadrati su di un territorio grande quasi tre volte l'Italia, è il simbolo di un'Africa che al tempo stesso emoziona e rassicura.

Un'Africa dove la natura è ancora ricchissima e varia. E' questo nonostante la Namibia sia un paese dal clima arido, addirittura desertico lungo la fascia costiera dove si estende il deserto più antico del mondo che ha dato il nome all'intera regione: il Namib.

Un'Africa che fa rivivere un passato letto nei resoconti degli esploratori del secolo scorso, ma che al tempo stesso si prepara ad entrare nel nuovo secolo costruendo rapporti migliori fra i popoli diversi, fra umanità e natura.

Un insieme d'infinite distese sabbiose, sassose o coperte dalla savana, interrotte da rilievi rocciosi o da drammatici canyon.

Fu Diego Cao, navigatore portoghese, il primo a raggiungere la foce del fiume Zaire nel 1483 e tre anni più tardi sbarcò sulle coste dell'attuale Namibia; oggi alle soglie del 2000, Fabio Bertazzoni ha attraversato a piedi in solitaria l'affascinante regione del Damaraland fino ad arrivare a Cape Cross, riserva naturale di una delle 23 colonie d'otarie che ancora oggi sopravvivono lungo la costa atlantica dell'Africa meridionale.

Mesi di preparativi, un'attenta analisi dell'itinerario effettuata in collaborazione con Savana Society, l'associazione specializzata nella conservazione della fauna africana in estinzione, hanno preceduto l'emozionante viaggio che rivivremo attraverso le pagine del diario scritto personalmente dal protagonista di quest'affascinante ed entusiasmante avventura.

Il ricordo più bello dei giorni d'acclimatamento trascorsi in Damaraland prima di intraprendere il mio viaggio in solitaria è quello del tempo passato in compagnia dei ranger, inesauribili fonti di conoscenze sul clima dei luoghi e sulle difficoltà che dovrò affrontare. Il Damaraland è una delle zone più calde ed aride della Namibia, popolata da ogni specie di fauna selvaggia. I racconti degli antichi viaggiatori descrivono questa regione come un'Arca di Noè, ricca d'ogni specie animale, dagli elefanti (i più grandi d'Africa), alle giraffe, ai rinoceronti, alle antilopi, i leoni, i leopardi e le iene.

Oggi tutti questi animali vivono protetti nei grandi parchi naturali dove i soli safari consentiti sono quelli fotografici.

L'ostacolo maggiore che dovrò affrontare nel deserto sarà la disidratazione. Il deserto del Namib è una fascia lunga circa 2000 chilometri che si estende lungo tutta la costa della Namibia; le dune, che possono raggiungere anche i 300 metri d'altezza sono costituite quasi esclusivamente da granelli di quarzo e cambiano ciclicamente aspetto grazie all'azione dei venti che durante l'intero anno soffiano con intensità pressoché uguale in direzioni diverse.



Il rumore provocato dallo sfregamento dei granelli di sabbia è come un ruggito e può essere udito anche a chilometri di distanza, perfino lo strisciare del serpente che si nasconde sotto la sabbia mimetizzandosi completamente con il territorio contribuisce ad aumentare quel fragore che è identificato nel fenomeno delle "Roaring Dunes", ossia le dune ruggenti, fragorose, tumultuose.

L'età del Namib è stata da sempre oggetto di discussioni scientifiche, ma si può affermare che questa zona presenta un clima arido da circa 80 milioni d'anni. La temperatura può raggiungere i 70 ° centigradi e gli animali sono costretti a lottare ogni giorno contro la disidratazione.

Un'altra zona particolarmente affascinante del deserto del Namib è la foresta pietrificata, un'insieme d'enormi tronchi d'alberi fossili che in origine facevano parte di una foresta esistita circa 200 milioni d'anni fa. Il fossile più grande misura trenta metri in lunghezza e ben sei di diametro.

Tra le altre curiosità botaniche che si trovano in Namibia c'è una pianta che cresce solo nelle pianure ghiaiose del Namib e che quando fu vista per la prima volta nel 1860 dal biologo austriaco Friedrich Weilwitsch, lo fece inginocchiare per la commozione! Durante la sua esistenza produce solo due foglie che si avvolgono come nastri per azione del vento perciò l'insieme assume l'apparenza di un cespuglio.

La Welwitschia si nutre assorbendo le nebbie mattutine del deserto e muore e rinasce di continuo, fiorisce dopo vent'anni e vive almeno per altri mille.

Durante il periodo del mio acclimatamento visito anche la zona di Twyfelfontein, dove in uno spettacolare e maestoso massiccio montano si trovano le testimonianze degli antichissimi popoli che hanno abitato in questa sperduta zona della terra. Lo spettacolo è a dir poco da togliere il fiato: è come trovarsi in una straordinaria galleria d'arte all'aria aperta in cui è esposta una delle collezioni più imponenti del continente africano. Gli archeologi hanno calcolato che le incisioni più antiche hanno 6000 anni e sono opera d'artisti sciamani, antenati degli attuali boscimani, i quali, grazie ad una pietra usata a guisa di scalpello riuscivano a rimuovere lo strato duro e superficiale della roccia per riprodurvi raffigurazioni di giraffe, leoni, rinoceronti ed elefanti; in totale circa 2400 petroglifi che danno un'idea completa e realistica dell'ambiente namibiano prima dell'arrivo degli europei.

Tra le incisioni sono state contate 67 gazzelle orici sudafricane, 34 springbok, 316 giraffe, 283 struzzi, 175 zebre e 144 rinoceronti, oltre a 383 orme d'animali e ad un gran numero di disegni astratti (probabilmente simboli magici o religiosi).



Twyfelfontein, la fontana dubbiosa. La leggenda narra che gli antichi abitatori di queste terre pensavano, che l'acqua della sorgente non potesse essere sufficiente per dissetare tutti gli abitanti da qui il nome.

Intanto arriva il fatidico giorno della mia partenza, per trasportare i 15 chilogrammi del mio equipaggiamento e 37 litri di riserve d'acqua ho progettato un carretto in alluminio, ma non avendo avuto la possibilità di provarlo non nascondo una certa tensione.

Lasciata Uis Myn mi avvio sulla pista, la temperatura alle nove di mattina è già salita a 33 gradi, le mosche non mi danno tregua.

Nonostante l'impatto iniziale, il carretto procede bene ma in alcuni tratti, dove è presente la toleè ondulè i continui sobbalzi rallentano la marcia. In tre ore percorro 14 chilometri fino a che una deviazione segna l'inizio della vera pista, alle 13 ho già bevuto quasi 8 litri d'acqua e se non mi controllo temo che la situazione possa sfuggirmi di mano. I 37 litri d'acqua devono bastarmi per 3/4 giorni fino all'arrivo ad Ugab a 70 chilometri di distanza.

Lungo il cammino trovo una capanna abbandonata e decido di sostare per alcuni minuti, né approfitto per sistemare meglio l'equipaggiamento che è composto da: due taniche per l'acqua, una borraccia, una tenda, una sacco a pelo alternino, materiali per la sopravvivenza, cibi liofilizzati, complessi vitaminici ed energetici.

La sabbia e alcuni tratti ondulati provocano improvvise sterzate alla ruota posteriore del carretto facendomi rallentare notevolmente.

Nel primo giorno di marcia ho percorso 38 chilometri ed ho bevuto 14 litri d'acqua, sono questi i pensieri pratici che tengono occupata la mia mente mentre allestisco il campo e preparo la cena, accarezzato dagli ultimi raggi di sole che scompare all'orizzonte.

La luna illumina la tenda, gli uccelli notturni iniziano il loro canto, mi addormento.

Il risveglio è brusco un forte vento sembra voler strappare la tenda e io non riesco più a dormire.

Alle sei del mattino assisto stupefatto al meraviglioso spettacolo che l'alba magicamente mi regala, ma devo approfittare delle ore meno calde della giornata, e proseguo senza carretto su una deviazione segnalatami da alcuni pastori verso un pozzo d'acqua che trovo dopo due ore di cammino.

Il mio viaggio procede lentamente, il giorno dopo arrivo ad Ugab con il solo zaino sulle spalle. Un ranger mi viene incontro cordialmente, e mi accompagna al pozzo. Scambio con lui l'impressioni del viaggio come se lo conoscessi da sempre, e finalmente posso riempire la tanica e rinfrescarmi. La vita nel deserto è fatta di piccoli, grandi momenti come questo.

Ma la vera grande emozione la provo incontrando gli Himba, una delle popolazioni più antiche della Namibia. Discendenti dal gruppo etnico dei Bantù e che ancora sopravvive lungo i confini con l'Angola nella regione del Kaokoland. Gli Himba sono pastori seminomadi e vivono in tradizionali villaggi composti da capanne circolari, costruite con rami ed argilla.



Il nucleo familiare è composto da poche decine di individui, che vivono di allevamento e sussistenza. Essendosi sottratti da qualsiasi tipo di influenza occidentale, gli Himba mantengono orgogliosamente i costumi degli antenati come, ad esempio l'usanza per gli uomini di radersi il cranio mantenendo solo un codino al centro. E per le donne di cospargersi il corpo di un impasto di argilla ocra e grasso animale che dona loro il tipico colore rossastro. Le donne non hanno alcun problema a mostrarsi in costume neanche quando vanno a fare compere in città.

Lo status sociale familiare dei vari componenti di una famiglia, è testimoniata proprio dagli ornamenti con cui le donne si adornano. Conoscere gli usi e la cultura di questo popolo così dignitoso è un altro dono inestimabile che l'Africa ha voluto regalarmi.

E finalmente il mare, che significa anche l'ultima tappa del mio viaggio. Sono infatti arrivato a Cape Cross, la popolatissima riserva naturale dove circa 200 mila otarie si danno appuntamento nei mesi di novembre e dicembre, per dare alla luce i loro piccoli.

Il Capo della Croce mi appare tra la nebbia non ancora diradata così come apparve a Diego Cao, il primo europeo che sbarcò sulla costa e che eresse una croce al re del Portogallo.

E' finita, anche se in realtà devo ancora percorrere centocinquanta chilometri, ma non ho fretta di ripartire e vorrei che il tempo si fermasse per poter riflettere e rivivere all'infinito, nel mio ricordo questa incredibile avventura.


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