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Mercoledì, 1 Ottobre 2014

Maestra a due ruote sull'altopiano del Pamir

Ho sempre desiderato esplorare luoghi magici e " lontani" per vedere e conoscere realtà diverse dalla mia di cittadina di una metropoli occidentale, immergermi nella natura incontaminata di luoghi remoti quali i picchi innevati della catena del Pamir, i deserti dell'Asia e il mare d'erba delle steppe. 

ARTICOLO DI

cristinuccia

Ho sempre desiderato esplorare luoghi magici e " lontani" per vedere e conoscere realtà diverse dalla mia di cittadina di una metropoli occidentale, immergermi nella natura incontaminata di luoghi remoti quali i picchi innevati della catena del Pamir, i deserti dell'Asia e il mare d'erba delle steppe. 

Così è nata l'idea di un viaggio in moto, con il mio compagno, lungo la Via della Seta e...ancor più in là. Ci siamo ricavati tre mesi, 92 giorni, per percorrere ca. 30.000 km a cavallo della nostra moto attraverso 9 Paesi ( Grecia, Turchia, Iran, Turkmenistan, Tajikistan, Kirgizstan, Kazakistan, Russia, Mongolia, Siberia, Russia, Lituania, Lettonia, Polonia, Germania). Il Tajikistan, insieme all'Iran e alla Mongolia sono stati i Paesi che ci hanno maggiormente incantato, ma che hanno anche messo a dura prova noi e la cavalcatura!

Abbiamo conosciuto tantissime persone, toccato con mano la difficoltà di vivere in Stati dittatoriali come l'Iran e il Turkmenistan, la durezza delle condizioni di vita e l'estrema povertà degli abitanti del Pamir e della Mongolia. Abbiamo toccato con mano l'ospitalità e la cortesia degli iraniani e dei tajiki, siamo stati aiutati, rifocillati ed ospitati dai nomadi mongoli quando si è rotta la moto. Ovunque i bambini ci hanno fatto festa e ho riportato a casa i sorrisi e l'intensità dei loro sguardi, quando donavo loro una scatola di pastelli o pennarelli chiedendo in cambio un disegno o la loro firma, da riportare in Italia ai miei alunni.

E' stata un'esperienza dura, ma arricchente e meravigliosa. Il sogno di una vita che si è realizzato.



Quando ci si muove via terra si devono mettere in conto difficoltà e imprevisti, specialmente se si viaggia da soli e non si può contare su appoggi in loco. Così durante il breve soggiorno a Samarkanda Knut ed io veniamo a sapere da due turisti italiani, conosciuti in albergo e arrivati il giorno prima dal Tajikistan, che la frontiera di Penzikent, a meno di 50 km dalla città, è chiusa. Dovremo quindi dirigerci al valico più a nord o a quello a sud, compiendo in entrambi i casi dei lunghi giri. La coppia ci indica il percorso a sud, che non presenta grosse difficoltà per una grossa enduro come la nostra. E' così che, carta alla mano, segniamo il nuovo percorso che ci condurrà a Denov, dopo 400 km percorsi su strade a tratti sterrate e dopo numerose soste forzate ai posti di blocco. Trascorsa la notte in una gostiniza, ripartiamo pimpanti la mattina dopo, di buon'ora. Giunti però ai cancelli della dogana ci troviamo in  mezzo ad un caos di veicoli di ogni tipo che occupano ogni centimetro della carreggiata. Superiamo il bailamme percorrendo un marciapiede sterrato, guidati da un improvvisato poliziotto. Al cancello  ci fanno subito entrare nello spiazzo, indicandoci dove lasciare la moto. Il mio compagno resta lì accanto per superare il controllo del veicolo, mentre a me viene fatto segno di andare ad un ingresso davanti a cui si snoda una lunga coda di locali, donne per di più,che aspetta pazientemente sotto il sole cocente. Sudata fradicia, ci saranno già 37/ 38°, casco in mano, mi accodo. Ho così l'opportunità di intavolare un'interessante conversazione con una donna tajika, molto bella, che incuriosita dal mio abbigliamento mi pone domande sulla mia provenienza e destinazione. La donna si esprime in un ottimo inglese, è un'insegnante, e traduce alle altre in coda tutto ciò che dico. E’ stata una conversazione interessante. Mi ha spiegato che dopo il disfacimento dell’Unione Sovietica e la proclamazione dell’indipendenza, parte del territorio, che in passato era tagiko, è rimasto all’Uzbekistan. Questo ha creato e crea tuttora motivi di tensione tra le due neo- repubbliche che sono sfociati anche in atti violenti. Poi un doganiere mi nota e con un cenno mi fa segno di entrare nell’edificio, superando la coda. Mi sento a disagio e mi scuso con la donna, ma sia lei sia le altre mi salutano con grandi sorrisi e benedizioni, felici che abbia scelto di visitare il loro Paese. 

l'arrivo_a_dushanbe Abbiamo così perso tre ore per…cretinate burocratiche. Per fortuna la frontiera tagika ci ha preso solo mezz’ora. I funzionari sono stati cortesi, sorridenti e rapidi. L’impatto con le strade tagike invece e con la guida dei locali è stato subito tremendo: sterrate miste a tratti con asfalto rovinato e buche, velocità tra i 20 e i 30 km l’ora. Verso le 13,30 arriviamo a Dushanbe ( significa città del lunedì) la capitale. Decidiamo di fermarci solo per prelevare del contante ( 1000 somoni = 210 dollari) e ripartire subito poiché la strada da percorrere è lunga ed è ancora presto.  Purtroppo si rivelerà un errore. La strada A 385, in direzione  Dangara, che costeggia per parecchi chilometri il confine con l'Afghanistan, segnato dal fiume Panji , l'antico Oxus, si presenta tutto sommato discreta, anche se con fondo rovinato e costellato di buche. Nel tardo pomeriggio, dopo 280 chilometri e stanchi, ci fermiamo a Dangara e cerchiamo un alloggio. Non troviamo di meglio che chiedere alla padrona del ristorante dove ceniamo di poter dormire sul charpoy ( larghi baldacchini su cui si mangia) dopo la chiusura del locale. La signora accetta, così parcheggiamo la moto, non senza difficoltà, nel giardino. Ceniamo con spiedini alla griglia e attendiamo che il ristorante chiuda. Man mano che sopraggiunge la notte l’aria si satura di umidità, ci si chiudono gli occhi, ma gli ultimi avventori, ormai ubriachi, tardano ad andarsene e non ci fidiamo a stendere i sacchi a pelo e lasciare in vista giacche, caschi, borse… Trascorriamo una notte agitata, dormendo completamente vestiti nei sacchi a pelo, accompagnati dal latrare dei cani randagi e dal rumore dei veicoli in transito sulla strada. Alle 5,00 siamo già svegli. Alle 6 prepariamo le moto, beviamo un po’ d’acqua e mangiamo 3 biscotti, poi, a fatica, riusciamo a tirar fuori la moto dal giardinetto fangoso dove l'abbiamo parcheggiata e partiamo. La strada da percorrere, all’inizio discreta, peggiora rapidamente. Diventa sterrata, ma a parte buche e resti di asfalto, il fondo si presenta di polvere di terra secca, della consistenza della farina e profondo anche 15 cm. e in alcuni tratti il fiume s'è mangiato la strada e dobbiamo passare addirittura nel letto sassoso dei fiumi. Cadiamo una prima volta sulla sabbia; la moto è troppo pesante e affonda. La seconda volta, Knut non riesce a guadare un tratto di acqua profonda perchè la ruota anteriore s'incaglia e la moto si rovescia su un lato. Con grande fatica riusciamo a rialzarla e a ripartire. La strada pessima prosegue nella stretta valle del fiume Pianji; color cenere, corre impetuoso, segnando il confine con l’Afghanistan. Nei tratti in cui la valle si restringe, possiamo osservare scene di vita sul versante afgano: bambini che fanno il bagno in un tratto placido del fiume, una fila di asini carichi e di uomini che percorre la stretta mulattiera, piccoli villaggi. Trascorriamo la notte in una homestay nel villaggio di Kalaikum e la mattina seguente ripartiamo diretti a Khorog, posta a 2000 m. di quota. La strada è sempre sterrata e attraversata da cascatelle. Il paesaggio è splendido: imponenti montagne, alcune con le cime innevate, sorgono sia sul versante tagiko sia su quello afgano. I piccoli villaggi che attraversiamo sono immersi nel verde di grandi alberi: noci, albicocchi e filari di pioppi lungo la riva del fiume. I villaggi afgani hanno minuscole casette di mattoni di fango che si mimetizzano con le aspre e scoscese montagne marroni. Altri sono semi nascosti da pioppi flessuosi, attraversati da impetuosi ruscelli. E' un altro mondo, abitato da poche persone. Lungo la strada incontriamo bambine che agitano le mani per farci segno di fermarci. Hanno sorrisi dolci e timidi, vendono albicocche e mele. Ci fermiamo un paio di volte, scattiamo un paio di foto e compriamo quello che offrono. La sera arriviamo a Khorog dove ci fermeremo 2 giorni per acclimatarci prima di affrontare la salita all'altopiano del Pamir. 
 villaggi_afghani  

Il 20 luglio lasciamo Khorog ed entriamo nella regione del Pamir. Superato un posto di controllo, dove abbiamo mostrato i nostri permessi per accedere alla regione GBAO e dovuto sborsare una piccola somma ai poliziotti corrotti che ci negavano l'accesso, o percorriamo lentamente la strada che attraversa la valle del fiume Gunt, salendo dai 2000 m di Korog ai 3500 di Jelandy. La M41, in buone condizioni, si snoda tra la catena dei monti Shugnan a destra e quella dei Rushan a sinistra attraverso un paesaggio magnifico: maestosi, imponenti picchi innevati, di oltre5000 m, si stagliano su entrambi i lati della valle percorsa dal fiume Gunt, liquido turchese che scorre tra filari di alberi e campicelli coltivati a grano, patate e fieno. Troviamo una sistemazione spartana per la notte al Kurort (centro di cure termali) di Jelandy, 3900 m. ca. molto frequentato dai Tajiki. Posso così rilassarmi nella vasca termale dove l'acqua solforosa sgorga a circa 45°, insieme ad un gruppo di donne locali. Peccato non capire il russo perchè loro mi parlano, poi ridendo mi fanno segno di seguirle fin sotto a getti d'acqua fredda. E' divertente e mi rilasso completamente. Per cena cuciniamo un risotto liofilizzato sul fornellino da campeggio posto sul pavimento del bagno...non si sa mai...La mattina dopo l'aria è frizzante, le cime dei monti intorno sono incappucciate di farina bianca: è nevicato lassù! Percorriamo 198 chilometri attraverso un paesaggio magnifico, go

Koi_Tezekdendo della vista delle montagne che si susseguono e di un cielo talmente blu da far male agli occhi a guardarlo. Una lunga e tranquilla cavalcata attraverso passi ad oltre 4200 metri di quota, giù per valli sul cui fondo scorrono i torrenti. Superato il passo Koi Tezek a 4278 m. si percorre un vasto altipiano. Si ha l’impressione che le montagne che lo circondano si siano “ritirate”! Quando la strada sbuca sulla desolata piana di Alichur proviamo una strana sensazione d’irrealtà:
 un paesaggio lunare, punteggiato da tre laghetti, tutt’intorno un susseguirsi di monti color ruggine, marrone, ocra, verde marcio, spruzzati di bianco sulle cime più alte. A un certo punto, affamati, sostiamo a quota 4000 e passa metri per cucinare una zuppa di ceci. Avevamo proprio bisogno di scaldarci un po’ poiché la temperatura ha sempre oscillato tra i 9° e i 14°. Pernottiamo al villaggio di Murgab, in una home stay, semplice, ma pulita e ceniamo in compagnia di un ciclista svizzero. All'alba mi sveglio, esco per recarmi alla toilette e mi godo lo spettacolo del solghere che indora le cime dei monti. Prendo la macchina fotografica e scatto una foto, con la yurta in primo piano. 
Partiamo subito dopo colazione.
La giornata è luminosa, l’aria cristallina e fresca. La strada si snoda tra i monti, costeggiando il fiume Akbaital ( cavallo bianco). Il panorama è splendido: alla nostra sinistra si elevano cime che raggiungono i 6000 metri, bianchissime, talune incappucciate dalle nubi, a destra monti scabri, color ruggine, spiccano contro il cobalto del cielo.
 
 
La strada conduce al passo Akbaital, a quota 4655 metri, dove  ci fermiamo. Scesi dalla moto immortaliamo il momento, scattando parecchie foto. 4655karakul_lake
Poi proseguiamo, sobbalzando sulla sterrata che scende dal passo. Costeggiamo per decine di chilometri la frontiera cinese. In alcuni punti corre vicinissima alla strada, solo pochi metri ci separano dalla Cina! Arrivati alla piana del lago Karakul, a3900/4000 metri di quota, lo scenario che si presenta ai nostri occhi ci lascia senza fiato: le acque del lago scintillano, più azzurre che mai, sullo sfondo di una catena di alte montagne, le cui vette candide brillano al sole. A destra s’innalzano altri picchi, coperti di neve. Non abbiamo mai visto niente di più spettacolare! Decidiamo di fermarci in questo villaggio. Pernottiamo 
alla homestay di Tildahan ed Erkin, molto pulita ed accogliente (19 dollari a testa, più altri 10 per tre pasti). 
Nelle stanze il mobilio è  pressoché inesistente, ma si nota il tocco femminile: vasi di fiori alle finestre, leggere tende ricamate, un piccolo mobile dipinto di azzurro con fiori rosa applicati a decoupage funge da lavandino esterno. La famiglia è molto povera, come tutti in questo villaggio. Non c’è acqua corrente, e Tildahan e la figlia maggiore fanno il bucato in grandi catini di ferro, accovacciate in un angolo del cortiletto. Una bimbetta di un paio d’anni scorazza avanti e indietro, osservandoci da lontano. Ci sono altri due bambini, un ragazzino di una decina d’anni e una bambina di poco più grande. Lui trasporta i bidoni d’acqua con una carriola, lei spazza le stanze e accudisce la sorellina.  Le ore scorrono pigre, ci sentiamo a nostro agio in questo piccolo cortile, al sole, osservando la vita della famigliola. La doccia si rivela un’interessante esperienza. Si entra in una casupola dove, da una stanzina che funge da spogliatoio, si entra in una seconda, caldissima, contenente un grosso serbatoio con acqua bollente. Tildahan mi porta un grande secchio con acqua gelida, un bricco ed un secondo secchio con cui attingere l’acqua calda. Mi lavo così, immersa nel vapore odoroso di legno, a 3990 metri di quota…sentendomi felice.  La cena è molto semplice, consiste in una specie di pastasciutta con patate e carote, yogurt e per dolce i lamponi. Più tardi conosciamo il padrone di casa che rientra dal lavoro in quel momento. Erkin parla un po’ inglese così riusciamo a scambiare quattro chiacchiere. Apprendiamo da lui che la gente del villaggio rimpiange i sovietici sotto i quali c’era meno povertà e più lavoro. Dopo cena ci ritiriamo nella casetta per gli ospiti a conversare con Morten, un motociclista danese, fino a che la luce, 
prodotta da un piccolo generatore, non si spegne all’improvviso e restiamo nel buio più completo. Accorre subito Erkin scusandosi per l’inconveniente. Non ci resta altro da fare, una volta trovate le nostre torce, che prepararci per la notte, stendendo i nostri sacchi a pelo sui piumini che Tildahan ha preparato, in doppio strato, sul tappeto delle due camere. Alle 3,30 ci svegliamo per andare in bagno. Dobbiamo vestirci completamente, infilando anche giacche e stivali per uscire nella notte fredda. Il fiato esce dalla bocca come vapore, alzo gli occhi al cielo e…Dio quante stelle! Distinguo chiaramente il Carro dell’Orsa maggiore, la via Lattea e una quantità incredibile di stelle luminose. Restiamo alcuni minuti, rapiti, in silenzio, ad ammirare il cielo, poi torniamo ai nostri caldi sacchi a pelo.

La mattina seguente, dopo colazione ci accomiatiamo dalla simpatica famiglia, con la promessa di spedir loro alcune foto. Regalo due scatole di pennarelli e di matite colorate alle bambine, che ci salutano con grandi sorrisi. Partiamo insieme a Morten ed insieme attraversiamo il letto sassoso di un fiume e un guado impetuoso. Arrivati al Kizil Art Pass, a 4336 metri, dove è situata la frontiera tajika soffia un vento tagliente e la temperatura precipita scendendo a 4°. Come Dio vuole espletiamo le formalità burocratiche in un’ora circa, poi affrontiamo i 20 km. di terra di nessuno che la dividono da quella Kirghiza. Sono altri 20 chilometri di strada sterrata, con terreno fangoso e sconnesso per il passaggio di veicoli pesanti. Un tormento! Fortunatamente passiamo la dogana kirghiza in un attimo, addirittura con baci e abbracci di un doganiere, amante dell’Italia. Si scende verso Sari Tash attraverso una valle fiancheggiata da una catena di imponenti montagne, tra cui spicca il Lenin Peack, 7134 m. ma... questa è un'altra storia!
Il Tajikistan è un Paese di grande bellezza e ci siamo ripromessi di tornarci.
 
 

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