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Lunedì, 18 Maggio 2009

La piana delle giare

Le rotaie muoiono a Nong Khai, la porta del Laos. Non si sono ancora organizzati in Laos ed i trasporti sono una faccenda artigianale. Ci sono dei piccoli autobus per attraversare il ponte sul Mekong.

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Un sole rosso appare ad est tra due strisce di nubi nere. Il soffio del monsone che riempie il cielo nella stagione delle piogge. Un'ampia virata e l'aereo atterra. La via per il Laos è lunga. Una terra remota raggiungibile solo a tappe. Da Bangkok, un treno notturno verso nord.

E' bello il treno tailandese. Puntuale, confortevole ed anche economico. La mattina ci si ritrova oltre Udon Thani, a ridosso del confine. Le rotaie muoiono a Nong Khai, la porta del Laos.

Non si sono ancora organizzati in Laos ed i trasporti sono una faccenda artigianale. Ci sono dei piccoli autobus per attraversare il ponte sul Mekong. Dall'altra parte una schiera di tuc-tuc aspetta i viaggiatori per trasportarli a Vientiane, distante solo venti chilometri. C'è anche un piccolo autobus azzurro.

Quando c'è, l'autobus è sempre preferibile soprattutto perché non si deve discutere il prezzo. In merito alle tariffe, infatti, i laotiani hanno una fervida fantasia.

La capitale del Laos sembra una città sonnacchiosa. Nella tarda mattinata l'afa è già opprimente, tutto avviene al rallentatore. Ogni tanto passa un tuc-tuc, sfila lentamente per fermarsi all'ombra di un albero o una tettoia. Infine l'ultimo volo per Phon Savanh.

Il volo di mezz'ora è un salto di una catena montuosa. In autobus sarebbe costato uguale ma sarebbe durato venti ore sulle impervie strade montane dell'inaccessibile regione Hmong.

Il piccolo aeroplano della LaoAir è bellissimo. E' bianco, sulla coda ha pitturato un fiore di loto. Non c'è davvero tempo per un servizio di bordo, eppure nei dieci minuti tra decollo ed atterraggio, le due hostess fanno dono ai pochi passeggeri di tre caramelle ed un mazzetto di bacche di lychees legato con un fiocchetto. Lo porgono con le mani a coppa, sorridendo ed inchinandosi quasi timidamente.

Non è un servizio e mi sembra molto di là del regalo. E' il gesto gentile di un paese povero che offre quello che ha. Guardo le montagne fuori del finestrino ma la vista mi si annebbia. Ancora una volta la gentilezza cui non sono più abituato mi commuove.

L'aeroporto di Phon Savanh è una semplice casa ed una pista in mezzo ai prati. Ha l'aspetto di una malga, forse per un diffuso odore di vacca che aleggia dappertutto. A 1500 metri di quota l'afa di Vientiane è scomparsa. Sono arrivato sulla piana delle giare.


Uno dei grandi misteri dell'Asia, la piana delle giare è un vasto altopiano cosparso di grandi giare scolpite nella pietra. Sono migliaia. Oggetti grossi, la maggior parte è alta un metro e mezzo ma alcune eccedono di molto tale grandezza. Hanno migliaia d'anni e della loro origine non si sa nulla.


Phon Savanh è un paese di frontiera. Un'ampia strada lunga un paio di chilometri. Ai lati, due file di costruzioni. E' tutto. Il paese vive di pastorizia, del poco turismo che viene a vedere le giare e del recupero dei residuati bellici.

Sì perché sulla piana delle giare non si può girare liberamente, pullula d'ordigni inesplosi. Fulcro della guerra segreta, una guerra ufficialmente mai avvenuta, è stata pesantemente bombardata durante la guerra del Vietnam. La distruzione dell'uomo moderno è stata enorme, eppure l'opera paziente di scalpellini primitivi è sopravvissuta anche a tale apocalisse. Al destino non manca il senso dell'ironia.

Del recupero dei metalli la popolazione ha fatto un'attività, ma è un'attività piuttosto pericolosa. Ogni tanto qualcuna esplode.



La piana delle giare è un territorio vasto. Le giare sono ovunque ma, causa le bombe, non si può andare dappertutto. Così la visita è limitata a tre siti la cui bonifica è ragionevolmente sicura, come dicono i cartelli. Dà un certo brivido quel ragionevolmente. Dunque, la visita guidata è obbligatoria.

Usciti dalla città, la strada si perde lungo tratturi che serpeggiano per i prati. Si dà il passo alle mandrie di vacche, si costeggiano laghetti dove gruppi di bambini giocano felici in mezzo a papere, anatre ed oche che, meno felici, tentano di evitare schizzi e schiamazzi. Ogni tanto affiora tra loro la testa dai lunghi corni di un bufalo d'acqua. Più che un paesaggio sembra una scenografia. Il mondo col suo ritmo frenetico sembra così distante.

Il sito 1 è una collina sulla cui sommità vi è il gruppo di giare più grosse. Strano un così gran numero d'oggetti misteriosi non sia entrato in storie e leggende. La guida non fa alcun accenno a qualche mito, eppure un certo senso del magico ci dev'essere, perché in alcune vi sono dei bastoncini d'incenso che bruciano lentamente. La guida sembra più ansiosa d'indicare i crateri delle bombe, in lui prevale certo una memoria ancora troppo recente di ricordi drammatici. Lascia scorazzare un po', poi richiama tutti, desideroso di mostrare qualcosa a suo giudizio più interessante: una piccola collina rocciosa, al suo interno un'ampia grotta. Racconta che in tale luogo si radunava la popolazione del paese durante i bombardamenti, fino al giorno in cui un razzo riuscì ad entrare nell'apertura sterminando tutti in un sol botto. Il senso del magico si fonde con l'orrore della guerra.


I prati cedono al bosco ed il sito 2 è spettacolare. Più piccolo del primo, è un gruppo di un centinaio di giare sulle quali, come sui templi d'Angkor, gli alberi sono cresciuti, inglobando, stritolando, schiacciando le giare stesse. Radici e giare formano un tutt'uno, come piante cresciute in vasi troppo stretti che alla fine hanno spezzato. Un gran ficus ha aperto una giara in quattro petali rocciosi, un altro ne ha avvolto una con le radici. Un grande albero è cresciuto a cavallo di una massiccia giara caduta, troppo grossa perché sia sfondata.


Il sito 3 è distante qualche chilometro. Dal terreno collinoso si scende in una zona pianeggiante coltivata a riso. Il verde brillante delle risaie rende il paesaggio luminoso. Il pulmino si ferma al bordo di un torrente da cui è necessario proseguire a piedi. Si attraversa un traballante ponticello d'assi e si cammina lungo gli stretti terrapieni che delimitano le terrazze delle risaie. Le colture terminano in un prato dove c'è un numeroso gruppo di giare. Sono molto differenti da quelle dei siti precedenti. Più che giare sembrano sezioni di tubi. La differenza morfologica evidenzia che le giare non sono state prodotte in serie. Probabilmente, forme diverse corrispondono a periodi diversi.


Il sito 3 è invaso dalle vacche. Sono anche piuttosto petulanti e non si lasciano allontanare facilmente. Molestare le vacche non è il mio sport preferito, ma la mandria è numerosa. Le giare quasi non si vedono. Naturalmente è opportuno guardare dove si mettono i piedi.


L'aspetto molto arcaico del sito 3 ricorda molto i complessi megalitici dell'Europa continentale. Pietre enigmatiche, indifferenti alle vicende umane.

Perché riempire un territorio per chilometri e chilometri di tali pesanti manufatti in un luogo e un tempo in cui la terracotta era già conosciuta? Le giare non danno risposte.


Dal sito 3 lo sguardo spazia sull'ampia vallata in cui è immerso. Un paesaggio bucolico di prati e risaie, macchie di boschetti, rada presenza umana. A ben guardare, tutto il paesaggio è punteggiato dalle giare che da lontano sembrano solo grosse pietre. C'è una gran pace qui.

Quando il gruppo di visitatori si allontana, resto indietro e solo allora sento il rumore del silenzio. Il silenzio ha un rumore, è l'assenza d'ogni suono. Si ascolta attentamente, non abituati ad una tale assoluta mancanza e si finisce per udire il soffio del proprio respiro. Allora capisco. La piana delle giare è un luogo immobile nello spazio e nel tempo e forse le giare sono la voce di chi le ha costruite per dire, per raccontare, noi siamo stati qui e questo è il nostro segno per non essere dimenticati.


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