RACCONTO
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Lunedì, 16 Febbraio 2015

Kobarid

Una parola entrata nel linguaggio comune.

ARTICOLO DI

Simaluse

Qualcuno di voi ha mai sentito questo nome? Chissà quante volte l’abbiamo letta sui libri di storia, la nostra tragica disfatta nella Grande Guerra…

Perché Kobarid non è altro che il nome di Caporetto in sloveno.

E’ in una bella giornata di sole, che si apre questo primo pomeriggio di maggio. Ci addentriamo a Caporetto sicuri della nostra destinazione e in pochi minuti ci troviamo di fronte a un grande edificio bianco con infissi scuri ma ben aperti; quasi a sorreggere il portone, un pezzo d’artiglieria pesante da un lato e un vecchio cannone dall’altro.

Kobariski muzej recita un grande bandierone bianco.

Il museo di questa cittadina non poteva che essere dedicato alla Prima Guerra Mondiale, con richiami anche alla Seconda. Nell’ingresso sono presenti decine di croci originali che vennero usate per contrassegnare le inumazioni dei soldati morti sul campo di battaglia; non fai in tempo a leggere tutte le targhette che vieni accompagnato in una elegante stanza attigua. La gentile signora carica il filmato in italiano ed ecco che in mezz’ora, seduti comodamente su sedie imbottite di raso bianco e rosso, ripercorriamo con la tv le scene che cent’anni fa decine di migliaia di ragazzi della nostra età, impreparati ad un simile orrore, hanno vissuto sulla loro pelle. Il resoconto finale è lancinante. Il video finisce, rimaniamo al buio ancora qualche secondo, le luci si riaccendono. Usciamo e percorriamo la luminosa scalinata. Le altre sale, disposte su più livelli, ci mostrano i reperti del conflitto, dalle munizioni fino alle atroci tagliole, dalle varie divise e calzature, alle scritte imploranti sui portoni delle carceri,  le maschere anti-gas che non riuscirono a proteggere tanti ragazzi, fotografie e riproduzioni in scala dei vari combattimenti e tante tante armi diverse, grandi e piccole, lucide o rovinate: quanto devono aver ucciso queste orrende mazze chiodate. Strazianti sono le lettere scritte dal fronte, in una sala al buio viene riprodotta una commovente scena di trincea e, all’ultimo piano, appena saliti gli scalini finali, ecco apparire il grande bollettino finale dell’agognata e stridente vittoria italiana.

Esci da quel museo con un senso di profonda oppressione nel cuore. Inizia a piovere, è pioggia vera. Percorriamo una tortuosa salita immersa in una piccola ma buia foresta, per omaggiare i tanti soldati italiani che riposano nel vicino Sacrario di Sant’Antonio. Anche alcuni ragazzi del ’99, dormono qui. Un fulmine cade non poco distante da noi, non possiamo scendere dall’auto. Guardiamo il grande cimitero che si innalza sulla collina dai suoi piedi, mentre lo scrosciare della pioggia è sempre più intenso. Dal finestrino annebbiato e grondante di rivoli d’acqua ci soffermiamo verso il grigio santuario avvolto dalle nuvole basse. E i pensieri iniziano a veleggiare anche nella tua mente, hanno il retrogusto di sensazioni passate: chissà quante sofferenze possono aver patito i ragazzi che hanno combattuto una guerra a loro così estranea, quanto orrore devono aver visto quei poveri occhi nel tempo in cui furono, quanto dolorosa è stata la morte che gli ha colti così lontano da casa, soli e ignoti. Ma i perché? non hanno senso di esistere, qui. Il temporale non ha nessuna intenzione di placarsi, decidiamo di ritornare a casa, diamo un ultimo sguardo a quell’immenso cimitero senza croci pietose, battuto dall’acqua, e ripercorriamo a ritroso la via del ritorno accorgendoci che il monte del calvario è costellato dalle stazioni della via Crucis. Una grandinata ci costringe a fermarci, ci troviamo nei pressi di Tolmin, dove iniziò lo sfondamento sull’Isonzo, non siamo riusciti a lasciare ancora questi monti saziati da tanto sangue. Non abbiamo scelto il giorno migliore per conoscere Caporetto, ma probabilmente una giornata di pieno sole avrebbe stonato con questi luoghi, non avrebbe permesso il compimento di un seppur minimo ma doveroso pensiero.

E Kobarid o Caporetto che sia, simbolo di atroci sofferenze e morte, merita, se non un misero fiore, almeno una piccola lacrima confusa tra la pioggia.

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