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Lunedì, 4 Maggio 2009

Inverno Solitario su un'Isola Greca

Avevo a lungo desiderato esplorare il Monte Athos ma, fra il maltempo e i grugniti di disapprovazione di Juan, avevo alla fine accettato (con riluttanza) Creta come destinazione alternativa per il nostro trekking invernale.

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Avevo a lungo desiderato esplorare il Monte Athos ma, fra il maltempo e i grugniti di disapprovazione di Juan, avevo alla fine accettato (con riluttanza) Creta come destinazione alternativa per il nostro trekking invernale.


Al Pireo avevamo scelto la compagnia di navigazione che meglio sposava la nostra causa (leggi: la più economica) e finalmente, nell'ennesima notte di gelo ateniese ci eravamo imbarcati su un traghetto semideserto. Turisti non ve n'erano. Le isole greche chiudono con la partenza degli ultimi bagnanti ad ottobre per riaprire solo nell'aprile successivo. Ma questo lo avrei capito solo nelle settimane seguenti. Intanto viaggiavamo indisturbati, stesi fra file di sedili, cullati dalla monotonia dei motori e con l'intera imbarcazione virtualmente nostra.


Creta è divenuta nel corso degli anni destinazione di turismo di massa per due ragioni: le spiagge della costa settentrionale e il sito archeologico di Knossos, ma noi eravamo animati da tutt'altre intenzioni. Avevo letto tempo addietro di comunità hippies che negli anni '70 si erano formate lungo la costa meridionale dell'isola. Avevo visto foto di calette e insenature senza albergoni e prive di quelle tristissime, onnipresenti tonnellate di pallide carni esposte al sole. Un Olandese conosciuto ad Atene poi, ci aveva parlato di un sentiero, l'E4, che attraversa l'intera isola da ovest a est. Era sufficiente, quella sarebbe stata la nostra meta.


Il torpedone scalava i ripidi pendii del Lefka Ori, le catena montuosa che divide l'isola in nord e sud con la stessa nettezza con cui un coltello ben affilato taglia in due un melone maturo. Il paesaggio d'entroterra era totalmente dominato da uliveti. Ulivi enormi e con le reti per la raccolta ancora stese sotto le piante. Gennaio non è sicuramente periodo di raccolta per cui immagino che, contrariamente a quanto avviene da noi in Abruzzo, qui le reti le lasciano tutto l'anno. Poi la discesa verso Paleohora e verso il sole. In poche ore avevamo abbandonato l'Europa ed eravamo ora sul mar di Libia, quello magistralmente descritto da Nikos Kazantzakis in Zorba il Greco.


Paleohora è un paesotto di non più di due o tremila abitanti. Scoperta nei primi anni '70 dalle comunità hippy nordeuropee, mantiene ancor oggi vivi quei colori e voglia di indipendenza bandiere di una ribellione successivamente imborghesitasi. V'è qualche albergo, gli immancabili ristorantini di pesce sul lungomare e una sfilza di affittacamere allineati come tessere di un domino, ma resta ancora un turismo "casereccio". E comunque sarebbe stato un problema estivo, in quest'epoca dell'anno il paese era tutto per noi.


Al mattino seguente ci incamminammo di buon'ora in direzione est. Il piano era quello di camminare seguendo la costa sud-occidentale dell'isola per poi risalire lungo le stupende Gole di Samaria fino al centro dell'isola e da lì far poi autostop per Hania o Heraklion. Il sentiero era di difficoltà medio-bassa, la giornata gloriosa, il panorama mozzafiato col Mediterraneo leggermente crespo a riflettere quel sole da troppi giorni assente dalle nostre vite. Incontrammo capre in gran numero, di quelle che riescono ad arrampicarsi anche sugli alberi e un pastore tedesco incatenato ad una croce arrugginita nel mezzo del nulla. Era pazzo di solitudine e paura e ci ringhiava e sbavava e cercava di liberarsi della catena per poterci attaccare. Una delle tante tristi scene di maltrattamento animale cui avrei assistito nel mio soggiorno Cretese.



Dopo cinque ore di cammino raggiungemmo una valle di cui ignoravamo l'esistenza. V'erano acqua fresca, riparo e legna in abbondanza per cui decidemmo di farvi bivacco. Era un posto particolare. Aperto al mare da un lato ma ben chiuso sugli altri tre versanti da montagne scoscese. Non v'erano strade. Vi si poteva arrivare solo a piedi o in barca. V'erano uliveti, qualche coloratissima (e profumatissima) pianta di limone, due chiesette e una capanna usata in estate dal custode del campeggio. V'era una fonte d'acqua fresca con un lavatoio a ridosso di una stalla inutilizzata, una miriade di capre ed infine, sui due fianchi della valle, resti di una qualche civiltà antica a noi sconosciuta. Da una parte i resti dei palazzi dei vivi, su quello opposto -meglio conservata- quella che aveva tutta l'aria di essere una necropoli.


Ho qui descritto in poche righe la valle di Lyssos ma noi queste scoperte le facemmo nel giro di parecchi giorni. Quello che doveva essere un semplice bivacco per una notte divenne in pratica il nostro rifugio invernale. Si dice che il più grande desiderio quando si parla di vacanze sia quello di trovare un'isola deserta, ecco, noi ne avevamo trovata una. Desideravo i silenzi penitenti del Monte Athos, avevo trovato quelli naturali di Lyssos.


Mi riesce un po' difficile descrivere in maniera interessante settimane di vita solitaria. Vennero a mancare quegli incontri fortuiti e particolari che rendono piacevolmente raccontabile un viaggio, eppure si è trattato per me di una delle esperienze più singolari mai vissute. Le più comuni attività quotidiane, come ad esempio fare la spesa, diventavano qui operazioni che esulano dalla routine. Sougia, il paese più prossimo, era a un'ora e mezzo di cammino, piazzata al termine di una gola spettacolare, ma era ai fini pratici una città fantasma chiusa a chiave per il periodo invernale. I ristoranti erano chiusi, gli affittacamere erano chiusi, il medico era andato via, la polizia era andata via, il minimarket era pure chiuso. Solo una kafeneia era aperta. La proprietaria ci vendette mezzo filone di pane scuro e ci disse che anche le Gole di Samaria erano chiuse, impraticabili a causa della crescita del fiume.


Non ci restava altro da fare, una volta a settimana, che scarpinare fino a Paleohora per far provviste, vedere volti che non fossero i nostri, scambiare vecchi libri e magari comprare l'Herald Tribune di qualche giorno addietro. I tempi di percorrenza dello stesso sentiero andarono scendendo visibilmente e dalle cinque ore impiegate la prima volta arrivai a coprire agevolmente la distanza in poco più di tre. Mesi di freddo e sedentarietà mi avevano indebolito, la vita a Lyssos, invece, caratterizzata da mancanza di preoccupazioni e da una dieta ricca di fibre e poverissima di grassi (non potendo conservare la carne, ne consumavamo solo una volta a settimana, il giorno del viaggio a Paleohora) m'avevano restituito il pieno vigore fisico.


Juan restò una decina di giorni, poi tornò in Spagna da fidanzata e figlia. Lo accompagnai a Paleohora, ormai era quello per noi il vialetto di casa, ma poi decisi di tornarmene a Lyssos. Ero stato in relativa solitudine, ora volevo provare quella assoluta. Da solo le giornate passavano ancor più lentamente. Il clima continuava ad essere benigno, non sembrava gennaio. Di giorno giravo in pantaloncini e di notte una coperta era sufficiente. Mai nessuno passava da Lyssos. Nella notte si vedevano le luci dei pescatori in lontananza e il silenzio era talmente incorrotto che ne potevo udire le voci.



Le capre pascolavano in apparente libertà per la valle mentre le pecore seguivano un comportamento piuttosto singolare: alle prime ore del mattino scendevano dal versante ovest della valle e andavano a pascolare su quello opposto, alle tre del pomeriggio, come guidate da ordini superiori, riscendevano da est e su verso gli stazzi. Il tutto eseguito con rigore prussiano seppur prive di pastore o cane. Non era inconsueto incontrare capre morte nella valle. Il pastore -invisibile ma evidente presenza- scendeva a valle una volta a settimana e ne rimuoveva le carogne. Lo vedemmo una sola volta, quando c'era ancora Juan: era corpulento, aveva la barba rossa, il binocolo al collo, ignorò il nostro saluto e tirò dritto per la sua strada dopo averci lanciato un'occhiataccia. Non ci fece una gran impressione, devo riconoscere.


Poi una volta trovai una capra moribonda. Era a terra vicino all'abbeveratoio, cercava di tirarsi su ma era come se il piede di un gigante le mantenesse un lato appiccicato al suolo. Era grossa e di color fulvo e il suo cuccioletto non si allontanava da lei. Era una scena pietosa. Pensai di darle da mangiare e da bere così da tenerla in vita almeno fino alla visita settimanale del pastore. I primi tre giorni scalciava e faceva di tutto pur di alzarsi non appena mi avvicinavo con la ciotola dell'acqua e delle foglie. Il cucciolo si allontanava di pochi metri, poi le tornava al lato non appena mi allontanavo. Al quarto giorno non scalciava più, non beveva né mangiava e il suo agnellino l'aveva abbandonata. Era il mio giorno di "shopping" a Paleohora, la lasciai supponendo che l'avrei trovata morta al giorno seguente. Ma l'indomani la capra non c'era più e con le mie cose trovai invece una forma di formaggio. Come dire, mai giudicare un libro dalla copertina.


Prima di lasciare Creta andai a visitare la tomba di Nikos Kazantzakis ad Heraklion. Il giorno che salii sulla collina che domina la città pioveva a secchiate. Sulla sommità v'era la lapide dello scrittore e il suo epitaffio: "Non spero in niente. Non temo niente. Sono libero."


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