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Venerdì, 6 Febbraio 2015

In Patagonia

Ho seguito tanti altri viaggi di Chatwin, ma tra le mie letture mancava ancora questa. Forse perché in verità non volevo molto andarci, in Patagonia. E poi, invece...

ARTICOLO DI

lavi

Ho seguito tanti altri viaggi di Chatwin, ma tra le mie letture mancava ancora questa. Forse perché in verità non volevo molto andarci, in Patagonia.

La mia storia é sicuramente meno avventurosa. Una ragazza sola, in un ostello nel centro del più grande paese della regione, seppure minuto: El Calafate. Ah, l'ostello ha la piscina, chiusa da vetrate su un giardino tra più coccoli che esistano e abitato da uno strano ibis dal becco arcuato. Gite con guide esperte. Gite in barca. Ci si sente protetti da una parte - ed é un bene - ma dall'altra un po' stretti. Poi basta guardare al di sopra di transenne e corrimano, oltre cappelli e macchine fotografiche, che vedi tutto immenso. Non puoi percorrerla tutta, questa immensità, ma puoi respirarla.

Io passeggiavo sotto l'ombra del condor.

Primavera. Monocromi in variazioni. Il lago Argentino muta il colore delle sue lagune, piante, acque, infinite volte al giorno, e non ti stancheresti mai di mirarlo. Le nuvole ci corrono sopra, si aprono si spezzano e si baciano. E il lago diventa caraibico, termale solforico, mare in tempesta, latte e menta (o latte di mandorle, a seconda dei gusti), increspato di ochette. Intorno: cespugli color salvia, batuffoli di cotone, tuorli di fiori su prati radi, da alta montagna - ma siamo a soli 200 metri sul livello del mare, stupefacente. Allora ti viene in mente la macchia mediterranea, ma senza lo stesso profumo. Qui c'è l'odore del vento, che porta ghiaccio seppure ancora non si veda. Doppi una punta e c'è la voga del rosso e allora é tutto tinto di rosso, anche quello che sembra muschio. Cespugli che paiono alberi centenari ti osservano come vecchie streghe bruciate, accartocciandosi su se stessi.

Eccolo il Perito Moreno. Che mica é morto, sai, ma ti viene da piangere al guardarlo. È una visione ancestrale. Te lo trovi lí davanti, di colpo, e ti prende un colpo sul serio. È grande. È potente. Si sente tutta la sua saggezza di anziano solcato da rughe profonde. Poi ti ci avvicini combattuto dalla voglia di riallontanartici per vederne la fine, se ce n'é una, lassù in cima. E non é l'unico ghiacciaio, avrà decine di fratelli, più grandi e più piccoli. Ne ho visti altri tre, al rifugio sopra l'Estancia Cristina, su quel ramo del lago Argentino che prende il nome di Upsala. Tre lingue di ghiaccio che comprimono le montagne e paiono spingerle in alto, sempre più in alto, mentre loro scendono in basso fino a intingere la punta nell'acqua, quasi ad assaggiarla.

Al primo sparo, un tipo accanto a me ha detto é un aeroplano. Qui? Ho pensato. Due minuti e ne sento un altro. Non di cretino che parla di aerei, ma di tonfo che sale ovattato e gracchiante come l’audio di un film in bianco e nero. Arriva in differita. Perché in effetti vedi laggiù una guglia di ghiaccio che si stacca e rimbalza sulla superficie del fronte trascinandosi con sé quanto può. Ma il suono si avvisa ormai quando i pezzi sono nell'acqua, e ti assicuro che non é un semplice splash. È un lamento rombante di una perdita. Ti si stringe il cuore quando ne senti un terzo e un quarto e un quinto. Perché nelle due ore che il perito Moreno ti cattura - servono tutte, due ore, solo a guardare, lá, imbambolato - ne senti tante di queste separazioni strazianti. E vorresti avere qualcuno vicino da rassicurare, che non é la fine. Che il mondo non si sta sciogliendo, che l'effetto serra non sta attuando proprio in questo secondo, che il riscaldamento globale si avverte in città per la puzza il caldo lo smog, ma non arriva qua. Ti capita anche di incontrare una guida che ti dice c’est la vie. Come? Chè qui non siamo ai poli. C’è solo la lunga vita di chilometri di ghiacci che ritornano acqua. E continuano a formarsi, sotto venti occidentali che lassú sulle Ande creano vortici di nubi e piogge che scendono in fiocchi, nevi che compattano altre nevi, e che diventano ghiacci. Dopo 400 anni c'è una parte che raggiunge il lago, e lí muore. Continua in una lenta navigazione, fino alla dissoluzione. Témpanos, in spagnolo. Squarci di blu-Klein sull'acqua turchese, bianco su panna, trasparenze. Il capitano del Parco ogni giorno sulla sua lancia troverà iceberg in posizioni differenti, come dune spazzate dal vento. Che di vento qui ce n'é da vendere, altroché. Teso e instancabile, se poi si placa ed esce un raggio di sole stai alle Maldive, manca solo la palma e un cocktail in mano. Allora ti grattano un po' di ghiaccio e te lo fanno credere (che ci stai), versandoci del whisky. E tu bevi, e ti riscaldi e ti raffreddi insieme. E pensi: quasi-quasi rimango un'altra oretta a meditare.

Sul senso della mia vita, se non su quello del mondo. 

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