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Lunedì, 3 Ottobre 2016

Il sorriso di Rocinha

la mia indimenticabile esperienza alla grane favela di Rio...

ARTICOLO DI

Lucia D'Antonio

Il sorriso di Rocinha. “Se la vita di dà un limone, fanne una capirinha! “-(proverbio brasiliano)- “Che delizia sentir parlare italiano!, posso prepararvi una spaghettata?”. La voce al telefono è quella di Barbara Olivi e la nostra visita alla più grande favela di Rio, la favela Rocinha, comincia con la sua spaghettata di benvenuto. Ci vengono a prendere alla fermata dell’autobus e ci scortano fino alla sua casa. Una stanza, direi, con angolo cottura e bagno. Una stanza abbastanza grande, ma in cui fai fatica a muoverti perchè ricettacolo di pacchi, libri, giochi, biscotti, sparsi ovunque sul pavimento, tutti doni della bella Italia. A cui, aggiungiamo anche i nostri. L’aspetto di Barbara non tradisce la sue voce roca, da vera guerriera e dall’età indefinita. Barbara vive nella favela Rocinha dal 1998 dedicandosi anima e corpo al suo progetto "Onlus –il sorriso dei miei bimbi-"che si occupa principalmente di educazione e formazione dei bambini della favela. Ci catapultiamo sugli spaghetti, con la voglia di ricordare il sapore del nostro paese, qualcuno in piedi, qualcuno seduto a terra o sul divano nei piccoli spazi liberi ancora rimasti. -Ti manca l’Italia Barbara?- - Ma manco per niente!!!, Milano- Rio sola andata! E sola andata resta, non torno più indietro! Quella risposta mi spiazza, ma di lì a poco non mi è stato difficile capirne il perché. Con la pancia piena scendiamo in strada con lei alla guida. Io con la paura addosso. I racconti che avevo sentito, legati alle favelas, erano racconti di miseria, violenza, narcotraffico, prostituzione, criminalità, sparatorie, rapine, sequestri di persone. Avevo infilato il cellulare sotto la felpa nella speranza di "rubare" qualche scatto. L’impatto è di una violenza sconcertante che quasi mi disarma: baracche e catapecchie sfilavano come quinte scenografiche terrificanti davanti ai miei occhi, le une addossate alle altre, piccole, umide, pericolanti, costruite con fango e mattoni, piene zeppe di gente indaffarata e non, che intravedevi dalla strada, un vero e proprio formicaio umano! Panni stesi dappertutto, in un arcobaleno di colori. Per un attimo pensai ai panni stesi dei “quartieri” della mia Napoli, quelli che profumano di bucato appena fatto. Ma qui di quel profumo nemmeno l’ombra. Queste persone non hanno nulla, neppure l’intimità. I vicoli sterrati, stretti e maleodoranti, in più punti diventano angusti passaggi, con ripide scale di collegamento tra una baracca e l’altra e dove a malapena riesci a passare respirando. Ai lati depositi di spazzatura, un po’ ovunque, a cielo aperto, così come a cielo aperto … le fogne! In quegli stessi vicoli una donna pulisce il pesce, una mamma, di 16 anni al massimo, pettina la sua bimba, i narcotrafficanti complottano accigliati, uomini armati fanno la guardia agli ingressi; In quegli stessi vicoli i bambini giocano distesi, a due passi dall’immondizia, con le carte, con le figurine con qualsiasi cosa possa avere la parvenza di “gioco”; in quegli stessi vicoli i bambini corrono scalzi, con i loro aquiloni e con le manine attaccate ai loro fragili fili e corrono, corrono, corrono… e sorridono,… SEMPRE! Alzo la testa per respirare. Al di là della moltitudine di cavi elettrici scoperti che affiancano le abitazioni e che ricoprono l’intera favela, intravedo il cielo. Era intensamente grigio. Quella stessa mattina, il cielo che avevo lasciato a Copacabana era azzurro. Intensamente azzurro. Quasi a ricordarmi il paradosso di Rio, città dalle mille facce e contraddizioni a pochi metri di distanza. Dalle nostre parti si dice che Cristo si è fermato ad Eboli. Qui pare che si sia proprio dimenticato di metterci piede. Eppure la gente sorride. Sorride sempre. Quei vicoli così poveri di tutto, sono carichi di umanità. La senti, la respiri, la vivi e non ne sei mai sazio... Quando salutammo la favela pioveva. Una pioggia che sembrava non volesse mai cessare e che fosse stata mandata dal cielo per lavarci, dato che da un po’ …non lo facevamo. Io, come sempre senza ombrello, per la prima volta mi riparai sotto la felpa. Non volevo lavarmi. Non volevo che la pioggia lavasse i miei vestiti puzzolenti, che avevano toccato quelle pareti, abbracciato quei bambini, calpestato la terra sterrata dei vicoli. Non volevo che sbiadisse quella strana malinconia del distacco. Volevo portarmelo tutto, INTATTO E INDELEBILE, nella testa e nel corpo, il sorriso di Rocinha!! “Se la vita di dà un limone, fanne una capirinha! " —

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