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Mercoledì, 10 Settembre 2014

E LE PIETRE MI DISSERO

All'estremo sud della Corsica, Bonifacio si erge solitario sul promontorio calcareo.

ARTICOLO DI

alberto angelici

All'estremo sud della Corsica, Bonifacio si erge solitario sul promontorio calcareo.
Non armonizza un granche' con il resto dell' isola, questo antico borgo genovese i cui abitanti parlano un arcaico dialetto ligure e infatti verrebbe da alzare lo sguardo per avvistare sullo sfondo il doppio lampo del faro di Genova per quanto ogni pietra, ogni angolo ricordano la Liguria. Le massicce muraglie color senape che racchiudono la cittadella sembrano ancora temibili, come inespugnabili dovevano essere apparse ai pirati turchi nel '500. Bonifacio domina il selvaggio territorio che lo circonda, le falesie a strapiombo, la terra arida, i cumuli di pietre su cui fioriranno lentischi e rosmarini, come una nave pietrificata.

La primavera e' agli esordi, cosi' che i colori appaiono ancor piu' crudi e aspri. Mi aggiro tra vecchie pietre, le mani appese alle macchine fotografiche, respirando il fascino di quei luoghi antichi, l' odore di macchia, il sapore di un mare oramai avaro. Una tramontana non sgarbata arruffa olivi e corbezzoli, il selciato medievale riecheggia grida genovesi.
Sono solo. In me l' inquietudine di non poter dividere tutto questo con qualcuno.
Cale deserte. Godo di una pace che confina con la desolazione e sento che e' il momento migliore per vivere questa terra.

Spira un' aria corsara lungo i vecchi bastioni erosi da un vento salso che qui attorno non manca mai.

Non e' tanto che la legione straniera se n'e' andata da Bonifacio, meno di vent'anni, lasciando come ricordo solo alcuni tedeschi usciti dai ranghi e sposati con le ragazze del paese. Il centro storico e' circondato di strutture potenti, architetture marziali che gli conferiscono un' aria da avamposto, ultimo baluardo all' avanzata del barbaro invasore.

Il silenzio e' spettrale, vorrei poterlo fotografare ma posso soltanto assorbirlo nella pelle. L' atmosfera e quell' assoluto di pietra mi ricordano il Deserto dei Tartari e un Giuliano Gemma la cui consueta mancanza di mimica una volta tanto ben si confa' al ruolo dell' ufficiale duro e taciturno.

Cannoni arrugginiti cui l' aria salsa ha conferito il colore e l' aspetto di sfogliatelle al cioccolato, torrette e casematte: una visita a Bonifacio inizia dalle sue strutture di difesa. Per un' erta rampa entro in paese dalla Porte de France. A destra si cammina verso la punta piu' occidentale del promontorio. Rasento il municipio e varie caserme dall' aspetto abbandonato. Due, invece, sono divenute alberghi. Uno sembra accogliente e si chiama, vedi un po', Genovese.

Seguendo i bastioni arrivo alla seconda porta, la Porte de Genes (ci sarebbe in circonflesso ma sulla tastiera non lo trovo), un doppio, poderoso portale con ponte levatoio e carrucole. Proseguendo nel giro delle mura, la Rue du Portone conduce alla Place du Marché, affacciata sul mare delle Bocche. Qui le mura scendono a capofitto sulla falesia, regalandomi lo spettacolo della scogliera imbiancata da un mare combattivo e forte. Il circuito termina contro il Torrione, restaurato una quindicina d' anni fa, di fianco alla chiesa di San Domenico, costruita dai Cavalieri Templari. Li' accanto una ripidissima scala incide la falesia fino al mare, ricordo di un inutile assedio del 1420 da parte di Alfonso di Aragona, dal quale oggi prende nome, poi via di fuga per i legionari stanchi di corvé. Stranamente la scala e' transitabile a pagamento, riservata a chi proprio non soffre di vertigini.

Percorro il silenzio di quelle strade anguste. Sfilano ai miei fianchi lunghe file di casette strette le une alle altre come a difesa di un vento che s' ingolfa tra le persiane inquiete. Le scuote sui fermi col ticchettio di tacchi nervosi, alza due sacchetti di plastica, che ondeggiano verso di me e barcollano come metafisiche foglie di un viale inesistente.

Rue Longue, Rue du Palais de Garde, Rue Archivolto. Negozi, botteghe, ristorantini e vicoli contorti che scendono a gradinata. Fuori stagione Bonifacio parla il linguaggio delle pietre, solitario e ventoso. E' difficile trovare interlocutori - mi dico - tra vie belle ma deserte, ma ho voglia di arrotare il mio francese e mentre mi guardo intorno incontro uno sguardo curioso e canzonatorio. Marcel Turnayre, si chiama, bonifaciano purosangue, proprietario di " U Castillè", ristorante in Place Montepagano. Davanti a un bicchiere di rosso di Sartène, Marcel racconta della Cittadella, di quando brulicava di militari, della ressa estiva, di belle donne passate di li' e dell' isola Cavallo, un tempo presidio di miliardari e ora preda delle speculazioni. Mi dice di Lavezzi, informe cumulo di massi granitici che a primavera si copre di fiori viola e di Piana, la piu' piccola delle isole, da raggiungere a piedi quando il mare collabora partendo da Punta Sperone, camminando in una rada non piu' profonda di un metro.
Sembra non voler piu' smettere, Marcel, e nel suo raccontare si anima e gesticola, poi scompare e ritorna con un coltellaccio e due salamini nodosi e scuri. Dal francese scivola in un italiano dolce che smussa le consonanti e rende piu' sonore le vocali, poi qualche parola della sua strana lingua.

"Tu es mon rèmede à la solitude, cher ami - sbotta, ridendo - l' antidoto alla solitudine di un momento di malinconia". E non vuole un franco.

Per un attimo, mentre la bottiglia tintinna sull' orlo del mio bicchiere lo sguardo appanna di tristezza e le labbra si stirano quasi a contrastare il sorriso. D' istinto mi vien da chiedere poi mi trattengo e fermo la domanda con una fetta di salame piccante.

 

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