Articolo
racconto icon
Lunedì, 11 Maggio 2009

Dublino: un viaggio in gennaio

Dublino. Non è vero che la si percorre tutta in un giorno. Perché si, ciò che impressiona sono le lunghe arterie aldiquà ed aldilà dal Liffey (marrone come il malto), ma ciò che stupisce sono gli spigoli.

Concorso Storie Vagabonde

ARTICOLO DI

Vagabondo0


Questo racconto partecipa al concorso Storie Vagabonde!

Ci sono 1000 euro in palio! Partecipa anche tu inviando i tuoi racconti entro il 25 aprile 2009. Dal 1 al 30 giugno 2009 potrai votare il vincitore ed assegnare il premio: se questo racconto ti è piaciuto, ricordatene!




Decollato e atterrato. Ridecollato e riatterrato. Operazione incredibile, a pensarci, quotata alta dai bookmakers. Da sospendere il fiato all’altezza dell’esofago. A divinis. Dublino. Vista in picchiata, con 38 di febbre e un timpano quasi perforato. E sempre più piccola, coi suoi campi di rugby in allontanamento, in dissolvenza, ultimi singhiozzi di un sogno senza spazio-tempo. Dublino. Meta obbligata, tributo. Al ragazzino innamorato dell’Irlanda che sono stato. All’adolescente che se vedeva un’arrugginita spilla con l’arpa tra cinquecento altre al mercatino di Margherita di Savoia la comprava infoiato, arrivando a pagarla fino a 4mila lire; che beveva scure in lattina spiegando agli amici la barbarie del Bloody Sunday; che invidiava il fregio dell’Ira all’amico di Valeria; che ordinava Murphy e Caffrey’s nei pub, disegnando scenari di protestanti e cattolici nell’immaginifica Derry del manicheismo; che collezionava bottiglie di Mc Farland e Kilkenny. E sciarpe. E bandiere ai cortei. E Achtung baby. E Riportando tutto a casa.


Un tributo.

All’addestramento all’esistere.


Dublino. Non è vero che la si percorre tutta in un giorno. Perché si, ciò che impressiona sono le lunghe arterie aldiquà ed aldilà dal Liffey (marrone come il malto), ma ciò che stupisce sono gli spigoli. E quello che ci puoi trovare. Cavalli da traino, fusti di birra, finestroni lunghi un piano e mezzo, carrozze.

Ti ci vuole tempo, come far posare una Guinness.

Tempo per comprendere cos’è il tempo a Dublino.

Il perché di quei signori sotto le insegne, nella prima periferia luminosa, col bicchiere mezzo pieno alle undici del mattino. Il perché dei locali con le cucine chiuse alle 18, che per cena non intendono quello che intendiamo noi, che non si sa bene dove mangino e cosa. Degli operai col casco giallo con la baguette ripiena di tonno e cipolla mentre sei ancora alle prese con il caffè lungo e i cornetti della pasticceria italiana. I tranvieri, gli autisti d’autobus, con la faccia da film di Ken Loach, che attendono – con burbera pazienza di gomito – che si smaltisca lentamente la fila di quelli che scendono e poi raccolgono monete ed osservano biglietti e guardano in faccia la faccia di quelli della fila di terra, che salgono. Uno alla volta. E che uno alla volta salutano. Senza frette improvvise al punto di rottura, apparentemente senza un mestiere, una professione, una meta, una direzione. Olimpica calma nordica. Tre fermate d’obbligo e molte facoltative. Basta una mano che si alza sul marciapiede e il 123 può fare anche 10-13 soste tra O’Connell e Thomas St. Così fa la gente, ma non si comprende in fondo cosa faccia sul serio, la gente di Dublino. Non smettere di domandartelo, ragazzo. Il perché del perché piove sempre e loro, i dublinesi, non si bagnano e ti guardano come una foca monaca, divertiti dal giaccone, dal cappello, dal cappuccio, dai guanti. Mentre le irlandesi girano in gonna e soprabito, leggere come una tradizione attualizzata. Il freddo non è cosa di tutti.

O la sveglia di buon mattino che, dietro le tende pesanti, ti aggredisce con i fari delle auto, che hai l’impressione neonatale d’aver confuso la notte per il giorno. E ti viene da chiedere al tipo dell’ostello che ore siano, e di quanto bisognava aggiornare il fuso orario.

Stupefacente città ovattata. Traffico diversamente rancido sulla St James’s. Dame’s St è un fiume terrestre, fatto di gente sospesa, di veicoli senza suono, di luci a intermittenza, di architetture ardite, inconciliabili, tenute assieme dalla qualità dello spirito più che dagli artifici dell’estetica.

In Irlanda non diventi irlandese. Non è come Roma, che in una volta ti fa romano. Qui (ora lì) non diventi dublinese. Non puoi diventarlo. Senti, percepisci, provi – quando sei predisposto – una vicinanza sentimentale al limite del misticismo. Ma devi accontentarti dell’immenso privilegio di rimanergli amico.

Amico di una nazione che dopo secoli ha quasi messo ordine in casa propria; ha finito il trasloco, costruito il parquet, arredato le stanze e adesso – nella piena maturità di una gioventù vissuta – ha deciso di godersela. E ha messo in bella mostra i pezzi della vecchia abitazione. L’irlandesità è ovunque, non solo tra i souvenir di Carrolls. È un senso d’appartenenza, fiero e profondo come certi pozzi neri, ma nient’affatto sfacciato, né volgare, né escludente. L’amore smisurato per quella terra strappata non è vanto d’elite, sentimento di superiorità. È il più ambito dei patrimoni, messo a disposizione degli ospiti d’ogni latitudine. E non c’è bisogno di didascalie per comprendere come vadano mostrate con gioia e contrizione certe ferite. Lo senti dinanzi al General Post Office, dove i Socialist Workers ancora gridano – come Jim Larkin dalle braccia al cielo – che i grandi sembrano tali perché siamo in ginocchio. Al Garden of Remembrance, dove i figli di Lir vengono mutati in cigni, e la generazione della Libertà dedica un pensiero deferente a quella della Visione. Nelle glaciali viscere delle Kilmainham Gaol, nel vento mostruoso, antropomorfo delle prigioni. Come una pietra sul cuore dinanzi al muro delle fucilazioni. Quei volti che trovi da Connolly Books, posterizzati, tra un’edizione inglese delle Lettere dal carcere di Gramsci e i ritratti di Brecht e Behan. O al Brazen Head, dove la sera suona il bodhran, tra la Proclamazione e un Micheal Collins in posa da bello gucciniano. Dinanzi a quel muro, ora, sventola il tricolore.

San Patrizio è una specie di scrigno. O di ripostiglio. Devi fare attenzione a dove metti i piedi. Mattoni, pile di calcinacci, un termosifone, tra gli scritti di Swift, le antiche croci celtiche e le campane ugonotte. Mentre Boyle guarda, dall’alto della sua monumentale ultima casa, i piccoli stand dello shop accanto al battistero. Al posto del battistero. Si vendono semi di trifoglio, gnomi sghignazzanti, pietre da collo, bracciali e cartoline. Il prete ci accoglie sorridente: "I-ta-lia-nu". Si, e la stretta risulta troppo forte. Il coro è una palpitazione marmorea. Si contempla in silenzio. Lo sguardo passa sui vessilli delle famiglie, sugli elmi piumati, sul legno degli scranni. La mente va indietro nel tempo, ad epoche indefinibili. Abbracci con un un’unica panoramica scale a chiocciola, pergamene, porte della pace, calici d’argento, navate e contrafforti. E pensi che hai fatto bene, nonostante tutto, ad entrare in questa gotica bottega di memorie. Scrigno, senz’altro scrigno.



Due commesse servono un espresso in tazza sottile in Lower Kevin St. Qui (oramai lì) arrivano la Illy (come al Patriot Inn) e la Lavazza. Alla Spar si entra per prepararsi la colazione, comprare il giornale o le sigarette (tutte 6 euro e 20 cent), spedire una lettera, pagare una bolletta. E, ancora, fare la spesa, riempirsi scodelle di cus-cus o pasta scotta, prepararsi insalate o secondi piatti. Un universo chiuso, autoreferenziale e autarchico, luogo di una socialità frettolosa e distratta, qualitativamente differente e distante dalla comunione cercata, voluta, pretesa del primissimo buio. Il pub, custode geloso dell’anima. Una zuppa e un paio di pinte da O’Donoghue’s, tra i cimeli del rugby. Una al Globe, con la sua spocchia trendy. Una da Madigans, dove anziane signore e giovanotti si scambiano pareri sul tizio del gioco dei pacchi in tv. Una al Foggy Dew, dove alle pareti ci sono Guevara e Pancho Villa. E alle sette una folla variopinta, mentre fuori la pioggia batte sui vetri. A due passi il Trinity college, la scollacciata Molly Malone, il traffico di turisti e il bip dei semafori in movimento. Il resto di questa città dal cuore nordico, dall’efficenza nordica, dai pasti orrendi e dallo stomaco duro. Col gaelico prima lingua sui cartelli stradali e le divise del Celtic o della nazionale in ogni centro commerciale. Dublino è una lastra di ghiaccio su una colata lavica. E quando la vedi allontanarsi dai finestrini del decollo, non puoi fare a meno di desiderare un nuovo atterraggio.


Viaggia con noi

Iscriviti gratuitamente. Conosci i tuoi compagni di viaggio prima della partenza.

Viaggia con noi in tutto il mondo.