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Mercoledì, 29 Gennaio 2014

California on the road

Il racconto del viaggio in California di Simona, fattto "on the road".

ARTICOLO DI

Malika

CALIFORNIA ON THE ROAD 
 
La California- the Golden State, i parchi naturali e quelli urbani, le città, la costa. Un sogno che ho potuto realizzare 15 anni fa girovagando zaino e tenda in spalla per un mese nel West degli Stati Uniti.
Mi sono ritrovata a rivivere questi luoghi anche nell’estate del 2013 con Vagabondo, se pur con tempi e modi differenti, con un gruppo di 14 persone, tutte lanciate in questa avventura nuova da scoprire.
Tanto per dare qualche numero, in 18 giorni abbiamo percorso 3000 miglia e visitato 8 parchi tra statali e nazionali. Abbiamo visto metropoli come San Francisco, Los Angeles e San Diego e le cittadine sulla costa di Santa Barbara e Monterey. Abbiamo bevuto birra  e vino americani, mangiato carne, pesce, verdure, formaggi e l’immancabile pizza, fatto colazioni dolci e salate. Abbiamo dormito in stanze da 2, da 3 e da 4 letti, e anche in un dormitorio con 6 letti a castello e bagno comune. Abbiamo camminato nei sentieri di molti parchi, girato per le vie delle città, e pure di notte dopo un tramonto mozzafiato nel Grand Canyon (in realtà non per scelta ma per aver perso le ultime navette..). Siamo passati da quasi 50° a 8°, da un’altitudine di 2000 metri a -80 slm!
Abbiamo viaggiato in due auto da otto posti in 15, con trolley, borsoni, zainetti e souvenir lungo le highway a tre corsie per senso di marcia, rettilinee per miglia e miglia alla velocità di crociera di 65 miglia orarie (a volte anche di più..), su strade tortuose di montagna a 20 miglia all’ora, tra percorsi asfaltati e strade battute, nelle vie urbane piene di incroci e semafori, e lungo la mitica Route 66, un tempo unica via di collegamento tra Chicago e Los Angeles. Qui abbiamo pure mangiato allo storico Delgadillos Snow Cap, un locale minuscolo con un piccolo corridoio completamente tappezzato all’interno di biglietti da visita, iscritto nel National Register of Historic Places. Abbiamo guidato, camminato per vie e sentieri, ballato e nuotato!
Insomma, non ci siamo fatti mancare proprio niente. Un viaggio on the road comodo, ma impegnativo. Ma soprattutto indimenticabile..
Prima di questi viaggi avevo vissuto la realtà americana solo attraverso i film che, per come quelli italiani con De Sica o Alberto Sordi, ne danno uno spaccato- se pur spesso esagerato- molto realistico. E soprattutto di come l’America sia diversa dall’Italia e dalla mentalità degli italiani..
Quello che più mi ha colpito e continuerà a colpirmi dell’America e della California è la sua contraddizione in ogni angolo, con le sue regole proibitive intercalate da sorprendente tolleranza, con la sua mentalità aperta e rigida a seconda delle situazioni, con la sua idea di società e di benessere. Ed è così che la voglio raccontare.
Per viaggiare negli Stati Uniti, che sia per turismo o per lavoro, si deve compilare l’ESTA, un modulo on line che ti autorizza ad entrare negli States (anni fa compilavi un modulo cartaceo in volo, effettivamente la tecnologia ha fatto i suoi progressi!). Le domande a cui si deve rispondere sono però fuori dalla mia logica e decisamente anacronistici: dopo tutti i dati anagrafici su chi sei, dove vivi, che fai, dove vai, per quanto ti intrattieni ecc.. ti viene chiesto di rispondere a domande tipo: “tra il 1933 e il 1945 è stato coinvolto, in alcun modo, nelle persecuzioni intraprese dalla Germania nazista o dai suoi alleati?”. Ma cavolo, sono del ’72 io.. mi hai chiesto i dati poco prima.. e se rispondessi di sì? Meglio non scoprirlo a pochi giorni dalla partenza! Sì perché per gli americani mentire è un atto gravissimo, non come da noi dove è normale negare anche l’evidenza..
La prima cosa che colpisce è che, incredibile, anche in America c’è la crisi: il personale degli aerei non è più quello di una volta; nel volo interno da Philadelphia a Las Vegas ci sono le hostess over 50 che sembrano essere riemerse e rispolverate tra montagne di scartoffie di qualche ufficio e catapultate a 10mila metri d’altezza. Il servizio è impeccabile, ma colpisce la divisa di alcune, in tuta di ciniglia blu stile badante di qualche casa di lusso. Nei Parchi non incontri più tra i sentieri il ranger Smith che ti saluta con cartina alla mano, e lungo le road le macchine della polizia si vedono raramente, e non sbucano più dai cespugli o dietro i cartelloni pubblicitari lungo le highway (giuro che li ho visti anni fa!!) rincorrendo e fermando le auto con le luci accese e il suono isterico a singhiozzo della sirena. Ma noi siamo riusciti a farci notare dall’unica macchina della polizia nella highway a Livingston, verso San Francisco, mentre viaggiavamo un po’ sopra il limite di velocità. Watson, così si chiamava the policeman, ha chiesto i documenti all’autista, rammentandoci i limiti di velocità. Poi gli ha consegnato, con un sorriso a 36 denti, il suo biglietto da visita con la scritta a penna “call me”!
La prima tappa è Las Vegas che significa “le praterie”, che probabilmente in qualche tempo remoto ci saranno pure state, ma noi, immersi nell’afa del deserto del Nevada, rimaniamo colpiti dalle sue luci, visibili anche dalla Death Valley, quelle dei casinò e delle strade. Una città che dagli anni ’40 ha fatto fortuna, e anche sfortuna, arricchendosi con il gioco d’azzardo. Un giro per la famosa Strip è doveroso, se non altro perché per il resto del viaggio verremo abbagliati dalla luce naturale e dalle distese di paesaggi che si perdono a vista d’occhio. Qui a LV tutto è studiato per intrattenere il turista che deve spendere nei locali e nei casinò: i parcheggi sono gratuiti, si può fumare nelle sale da gioco, dove a fianco ad ogni slot machine trovi il porta cenere così da non dover distogliere la concentrazione dal rullo ipnotico dei possibili simboli vincenti. Al primo piano del Venetian sembra di essere tra i canali di Venezia con musica italiana di sfondo, e le guardie vestite da carabinieri. Le fontane del Bellagio, attirando fiordi di turisti, danzano a tempo di musica in una coreografia luminosa di giochi d’acqua e luci.
A differenza di altre città, per le strade di Las Vegas fai fatica a camminare lungo i marciapiedi, come in centro a Genova sotto le feste di Natale, ma sotto una cappa di umido e caldo. Lungo i marciapiedi, sui ponti e ai semafori puoi assetarti acquistando bottigliette di acqua ghiacciata. L’acqua, stranamente, sarà carente in molti parchi e, salvo in casi eccezionali dove puoi riempirti la bottiglietta dalle fontanelle, dovremo fare la scorta ad un market o alle macchinette automatiche dei Visitor Center, sempre che ce ne siano ancora.
Il primo parco che visitiamo è ad una mezzora da Las Vegas, il Red Rock Canyon che ci lascia entusiasti per i colori naturali delle rocce, rosse appunto, e il verde della vegetazione intorno, e che sarà il preludio alla magnificenza di parchi come il Grand Canyon e la Monument Valley nei giorni successivi.
I Parchi. Non si può venire nel West e non visitare i parchi, grandi o piccoli, deserti o boscosi, la natura è così varia e i paesaggi così diversi, che ogni parco sembra un mondo a sé: dal lago blu salato del Mono Lake, al Colorado con le sue acque torbide in Arizona, dalle scogliere sull’oceano della Big Sur all’imponente granito brillante al sole dello Yosemite N.P.
Eh sì, la storia millenaria del West è appannaggio della natura, più che delle città: nei libri scolastici di scienze è immancabile una foto del Grand Canyon per comprendere la geologia dei luoghi e come milioni di anni di lenta deposizione di sedimenti abbiano creato migliaia di strati di roccia visibili ad occhio nudo in un unico panorama mozzafiato, a più di 2000 metri di altezza, lì.. a portata di clic.
Nei parchi, insomma, si deve andare, esempio tra l’altro di come l’America sia leader nel promuovere qualsiasi cosa come unica e grandiosa. In America infatti, riescono a costruire un intero museo di storia naturale intorno ad un unico scheletro di dinosauro ritrovato nelle vicinanze, oppure ti propongono il famoso “Path of History” di Monterey, dove siamo stati, un percorso segnalato con bolli dorati incastonati nel marciapiede e da cartelli esplicativi di fronte a edifici originali del periodo coloniale spagnolo o messicano. La casa più antica risale alla seconda metà dell’Ottocento. Il percorso è storico, come indica il nome, ma il mio concetto di storia e di antico non mi fa apprezzare più di tanto l’itinerario: in Italia abbiamo così tanta storia da raccontare, che le città sarebbero “bollate” di mille colori diversi come tanti coriandoli sparsi. Ma in Italia, per distinguerci, teniamo chiusi i musei ad agosto.
I parchi non raccontano solo la storia degli eventi naturali, ma anche delle prime civiltà che vi hanno vissuto. Il rispetto per questi luoghi naturali e vivi è percepibile in ogni dove: la gente cammina silenziosa lungo i sentieri, si riescono a fotografare piccoli animali a pochi metri di distanza. I percorsi sono ben segnalati e guai a uscire dal percorso, per non deturpare il fragile ecosistema dove piante e animali vivono. Mi ricordo che 15 anni fa nel Parco dello Yellowstone, all’inizio di un sentiero, potevi ritirare il depliant informativo da una cassetta di metallo, fare il giro e riporlo nella cassetta. Se invece volevi tenerti la guida bastava lasciare qualche monetina come offerta libera. Caspita, noi a Genova siamo davvero meno generosi: nel parco urbano sulle alture hanno costruito un’area pic-nic e nel giro di un paio di mesi qualcuno si è portato a casa tavolo e panche di legno come souvenir, ma senza lasciare nulla in cambio, che tirchi..
Dal Nevada passiamo in Arizona e raggiungiamo il Grand Canyon, conosciuto anche come “lo scrigno di luce” perché con i primi raggi di sole del mattino la natura si risveglia, esplodendo in colori vivaci e ricchi di storia d’altri tempi. L’alba alle 6 del mattino ripaga del sonno e della stanchezza accumulati, e quando il sole si tinge di giallo siamo tutti pronti per ripartire, anche se un po’ dispiaciuti di lasciare questo posto meraviglioso. Ma la Monument Valley ci attende e il viaggio è lungo.
La Monument Valley non era originariamente inserita nell’itinerario di Vagabondo, ma essendoci stata anni fa sapevo che, se avessimo deciso di visitarla, avrebbe lasciato tutti a bocca aperta. E così è stato: percorrendo la rettilinea highway 163 sono lì ad attenderci veri e propri monumenti di arenaria rossa distribuiti su una pianura infinita di terra e polvere. Un paesaggio così aperto e immenso non poteva sfuggire ai registi dei film western e di molti altri come Thelma & Luise, per citarne uno fra tanti. Il Parco si estende tra Utah e Arizona su una pianura di origine fluviale, che appartiene alla Navajo Nation Reservation, dove ancora vive una tribù, e gestito a pagamento dagli indiani. In una bancarella indiana acquistiamo un braccialetto in argento per una delle ragazze che compirà gli anni l’ultimo giorno del nostro viaggio. 
Dalla Monument siamo andati a dormire, dopo 9 ore di auto, nella Death Valley, la Valle della Morte o, come la chiamavano gli indiani, Tomesha- la terra infuocata: apparentemente senza vita questo paesaggio disumano è quasi interamente privo di ombra e ancor più di acqua. E l’aria qui è irrespirabile: stare 10 minuti sotto il sole delle 2 del pomeriggio a Bad Water, a quasi 50° e a -80 metri s.l.m., toglie ogni dubbio su cosa significa vivere nel deserto incandescente e respirare faticosamente aria bollente che si sprigiona dal suolo e dalle suole delle scarpe. L’unica sorgente d’acqua perenne sta a Furnace Creek, riconoscibile dal gruppetto di palme che sorgono verdeggianti a ridosso delle dune sabbiose. Le dune bianche lasciano temporaneamente tracce di piccoli animali, fino a quando il vento non spazzerà via la sabbia superficiale, per essere poi nuovamente ripopolate e disegnate dal passaggio di altri animali . Perché la valle, non si direbbe, è piena di vita, osservabile meglio al crepuscolo quando la temperatura concede alla fauna di uscire allo scoperto, senza abbrustolire al sole.
Dai quasi 50° passiamo ai 35° di un’area di servizio, dove facciamo il pieno di gasolio, cibo e bevande e gonfiamo le gomme, e al confronto ci sembra di stare al fresco! Alla sera arriviamo a June Lake, ambiente alpino dall’aria frizzante a 10°. Siamo a ferragosto e per festeggiare alla sera cucineremo al barbecue carne, salsiccia, tofu e verdure, il tutto annaffiato dall’immancabile birra, alternata a vino rosso. E per concludere una bottiglia di rhum e tante risate.
June Lake è vicino al Parco di Mono Lake, meno noto dei precedenti, ma conosciuto perché impresso sulla copertina dell’album dei Pink Floyd “wish you were here”. Il Lago è il principale luogo di nidificazione del gabbiano della California e punto di sosta di numerosi uccelli migratori. Se sei coraggioso puoi immergerti, o meglio, galleggiare nell’acqua blu gelida e salata di Mono Lake dove vivono piccolissimi crostacei (le cosiddette “scimmiette di mare”) prelibati al palato dei gabbiani. Le famose guglie di tufo sono emerse qua e là dal lago dopo che le acque dei suoi immissari vennero copiosamente captate per raggiungere i rubinetti di importanti città come Los Angeles. Le isolette di tufo sono così diventate penisole e i nidi di gabbiano sono diventati preda di coyote. Con la costruzione di un secondo acquedotto l’acqua è diventata ancor più salmastra e malsana. Insomma, l’uomo crea e poi distrugge; ma in America è bastato un piccolo comitato di attivisti ecologisti a convincere la Corte Suprema della California a tutelare il lago e a stabilire il livello minimo di acqua, e così, nel giro di pochi decenni, i corsi si sono riempiti di acqua e la fauna locale si è ripopolata. L’ingresso al parco è a pagamento, ma dopo le 17 non c’è più nessuno e per pagare basta imbucare una busta con il denaro in un contenitore a terra.. noi ovviamente abbiamo pagato, ma in Italia lo avremmo fatto?
Nelle vicinanze del Parco visitiamo Bodie Ghost Town-la città fantasma: una piccola città abitata da 10.000 abitanti intorno al 1880, a oltre 2500 metri di altezza, florida al tempo delle miniere d’oro e d’argento, che nel giro di nemmeno 100 anni venne completamente abbandonata per i costi eccessivi dell’estrazione. Tutte in legno, solo il 5% delle case sono sopravvissute a numerosi incendi e all’abbandono. Camminando per le vie ci si può immaginare come poteva essere la vita a Bodie, nel far west con i suoi 65 saloon, la piccola chiesa metodista, la scuola, i negozi e l’ufficio dello sceriffo, ma anche dove malattie, rapine, delinquenza e il freddo dell’inverno decimavano la popolazione ogni anno.
Il viaggio prosegue e ci immergiamo nella stretta valle dello Yosemite N.P. dove la vegetazione cambia repentinamente: sequoie giganti e Yellow Pine altissimi ricoprono i versanti, intercalati da radure di rocce di granito, la patria dei climbers. Questo parco si apprezza maggiormente se si ha voglia di scarpinare, per capire meglio la morfologia della valle e vedere le vette dei monti. La prima volta che andai nel parco dello Yosemite, 15 anni fa, mi fece visita un orso nero: dormivo in tenda quella notte per raggiungere la vetta dell’Half Dome, un panettone di granito tagliato a metà ma in senso longitudinale. Durante la notte in tenda sentii il bramito dell’orso in lontananza e la preoccupazione andò per il cibo che mi ero portata nello zaino e che non avevo riposto nei food storage ermetici (e fortemente consigliati, ma da noleggiare) a prova di orso, avendolo invece adagiato sotto la testa a mo’ di cuscino. La notte passò tranquilla, ma al ritorno nel parcheggio mi trovai la portiera posteriore dell’auto divelta e graffiata! Un orso aveva tentato di aprirla probabilmente attirato dai profumi (o dalle puzze varie di resine e creme da sole) all’interno dell’auto. Quest’anno invece ho avuto il piacere di fotografare un orso nero in carne e ossa dalla strada che corre parallela al letto del fiume, verso sud poco fuori dal Parco, intento a pasteggiare con una trota. Uno spettacolo davvero unico ed emozionante. È difficile poter vedere questi animali soprattutto in questo periodo dell’anno affollato dai turisti. Stranamente quando arriviamo nel Parco fa caldo, la temperatura è di 31° e le Lower Falls sono totalmente asciutte. Il giorno dopo scoppierà un incendio devastante che vieterà il transito nella valle e nel parco per settimane, ettari di foresta andati in fumo, un disastro ecologico di non poco rilievo. Il pensiero, ma solo di pochi attimi, va a quel pacchetto di sigarette che distrattamente abbiamo abbandonato chissà dove nel parco..
Dopo aver lasciato lo Yosemite abbandoniamo momentaneamente i parchi per immergerci nelle vie di San Francisco: qui veniamo travolti dal traffico automobilistico lungo il Bay Bridge e le utilissime radioline ci permettono di rimanere compatti zigzagando tra una corsia e l’altra. La prima sosta è a Mission District, il quartiere a sud famoso per i suoi numerosi murales, più etici che artistici, che fiorirono con la scuola di Diego Rivera. Nei locali si trovano immagini della moglie e artista Frida, ritratta in ogni dove. Le donne qui a Mission sono particolarmente considerate: dai loro murales che descrivono la libertà dalla schiavitù e l’idea di famiglia, al Women’s Building, una palazzina con le facciate interamente ricoperte di dipinti di Madre Natura e con l’immagine di una delle donne del Centro America più rappresentative degli ultimi tempi: Rigoberta Mencù, premio nobel del ’92 per la pace. Nella palazzina possono accedervi solo le donne, e all’ingresso stanno due energumeni (uomini?) a controllare.
Per contro, i murales di Rivera al piano terra della Coit Tower dipingono una realtà antisemita e intollerante. Non sorprende quindi l’esterno della struttura razionalista della torre, un siluro fallico in cemento grigio. La vista dalla torre però è suggestiva: verso ovest, immerso nella nebbia, si intravedono i piloni e le travi dal tipico colore rosso del Golden Gate Bridge, e il tracciato delle strade della città, un movimento sinusoidale disegnato dall’orografia delle numerose colline che costellano i quartieri.
Se siete a SF dovete percorrere una delle tre linee dei cable car, filobus trainati da un cavo sotterraneo, che attraversa il centro della città salendo e scendendo dalle colline panoramiche. E ancora, Lombard Street la strada urbana più tortuosa e ripida del mondo, Chinatown con le lanterne rosse appese da un palazzo all’altro in mezzo alla strada e la via dei balconi fioriti, mentre a North Beach le scritte e i locali portano nomi italiani, e c’è pure la Liguria Bakery!! E poi ti ritrovi a camminare tra case vittoriane di Health Pacific dagli stili e i colori personalizzati, dove tutto è molto curato, persino le aiuole condominiali tosate a mo’ di piccoli bonsai uno vicino all’altro.
SF mi ha incantato, mi ha colpito: trovi il giovane rasta che ti invita ad un parti Krishna nell’immenso e verdeggiante Golden Gate Park, o il tizio peruviano con le orecchie da coniglietto che sfila tra la gente con un vassoio di bevande in mano, vedi passeggiare il clochard che trasporta oggetti in un carrello rosso della spesa, e i cinesi in pensione che giocano a dama seduti su un muretto.
Vedere il Golden Gate Bridge in tutta la sua maestosità non è facile, a causa della nebbia fitta che spesso lo avvolge. Abbiamo pedalato dal Fisherman’s Worth fino all’imbocco del ponte; dopo un po’ la nebbia si è diradata e davanti a noi l’immagine del ponte con la regata di Luna Rossa in primo piano.. molto suggestivo!
La visita ad Alcatraz è particolare: con una audio guida in italiano segui il tour all’interno della fortezza ormai decadente e abbandonata: chi ha visto il film “Fuga da Alactraz” con il mitico Clint Eastwood si è già fatto un’idea del carcere duro di centinaia di detenuti. Ora divenuto Museo fa fatica a sostenersi, tanto che a ottobre Alcatraz, come la Statua della Libertà e diversi Parchi sono stati chiusi per shutdown, essendo strutture “non indispensabili”. C’è crisi anche in America, ma l’ex governatore Swarzenegger avrebbe trovato un’idea grandiosa: la gente non acquista più le auto? Le autograferà lui! Ah beh…
E chi dice che solo nei Parchi puoi vedere la fauna locale? al Pier 39 in Fisherman’s Worth, la zona del porto di SF agglomerato di localini e negozi della qualunque, puoi ammirare i leoni marini, comodamente stravaccati sulle zattere in legno intenti a gorgheggiare e litigare.
Da SF ci muoviamo lungo la road 1, la litorale, e il paesaggio si trasforma: alte scogliere inframmezzate da distese di sabbia, davanti all’oceano con le sue onde altalenanti, e gruppi di balene e delfini riemergono in lontananza. Un gran bello spettacolo con i binocoli.
Pfeiffer Beach è un piccolo parco costiero, dove la sabbia bianca è macchiettata qua e là dal viola dei minerali frantumati provenienti dalle rocce soprastanti: un riposino distesi sulla sabbia o camminando a piedi nudi e poi si riparte.
Arriviamo a Santa Cruz, una località costiera molto carina e ben tenuta: talmente tenuta che anche i suoi visitatori sono “tenuti”, cioè trattenuti dal poter fare quello che per noi in Italia sarebbe ordinario. All’inizio della spiaggia, infatti, un palo con più cartelli variopinti ricorda che non si può bere alcol, non si può fumare, non si può dare da mangiare agli animali selvatici, non si possono accendere fuochi, non si può accedere sulla passeggiata con bici o skate. Queste saranno le regole da seguire in tutte le spiagge delle cittadine sulla costa che incontreremo. San Diego poi è davvero particolare: la sua passeggiata in puro cemento larga pochi metri separa la spiaggia vera e propria dalle abitazioni disposte una accanto all’altra e parallele al litorale. Ebbene, mentre stai camminando lungo la sidewalk bevendo una birra avvolta nel famigerato sacchettino anonimo di carta marrone (come se non si capisse che stai bevendo alcol..), a destra vedi il mare e a sinistra villette con porte e finestre spalancate, dove la gente beve tranquillamente il proprio drink rigorosamente alcolico: ah già, loro sono in proprietà privata perciò possono fare quello che vogliono..
Nella spiaggia di LA a Santa Monica invece faremo il bagno, prenderemo il sole, vedremo un piccolo branco di delfini nuotare e i pellicani pescare tuffandosi in mare come siluri. E i famosi lifeguard di Baywatch? le varie Pamela Anderson o i David Hasselhoff sono ormai leggenda e quei pochi bagnini fanno da vedetta da un minuscolo abitacolo rialzato a pochi metri da terra, largo 2 metri x 2. A fianco il 4x4 di servizio parcheggiato. Nessuna barchetta a remi o a motore. Ma se dovesse mai salvare una donna che sta affogando o che rischia di essere mangiata da un pescecane.. che farebbe mai il nostro baywatcher? Chiuderebbe l’ufficio, chiuderebbe il 4x4, tornerebbe su in ufficio a prendere il salvagente, per poi ricordarsi che lo ha lasciato nel 4x4, proprio per non dover risalire gli scalini. Allora richiuderebbe l’ufficio, riaprirebbe l’auto, prenderebbe il salvagente e si volterebbe verso il mare.. ma dove diavolo è finita la signora urlante? Probabilmente qualcuno sulla spiaggia l’ha recuperata, o se l’è mangiata lo squalo..
In compenso, come tutte le spiagge di chilometri di sabbia, trovi i fanatici del fitness: alle 2 del pomeriggio sotto un sole incandescente la ragazza con la coda di cavallo in bikini e pantaloncino attillato corre a piedi scalzi con gli auricolari. Poco vicino due giovani in bike a petto nudo imperlati di sudore pedalano lungo la ciclabile parallela alla spiaggia, zigzagando fra turisti e corridori. Ma non manca anche la donna incartapecorita e pure scocciata: nell’Info Point di Malibu siamo a chiedere informazioni sulle spiagge di Los Angeles; dopo una decina di minuti ci viene detto che no, non hanno cartine di LA e non possono stamparle, ma hanno diversi depliant di tutti gli intrattenimenti di Malibu (ah, però). Nel frattempo la donna incartapecorita è entrata e uscita due volte lamentandosi con il tizio dell’ufficio informazioni perché ci sono due tipi fuori che fumano! Oddio, penso, sarà qualcuno dei nostri che sta gettando la grigia cenere delle sigarette nel finto prato verde smeraldo.. sì sono loro, ma sono nel parcheggio-ghetto a fumare, dove è concesso. Ma la donna incartapecorita non tollera simili insane abitudini dove fa jogging e respira aria buona. Forse, se respirasse un po’ di fumo, si distenderebbe i nervi e pure la pelle..
Arriviamo a Santa Barbara, dopo aver lasciato la Big Sur, una località gradevolissima, con il porticciolo e la spiaggia bianca, le vie piene di negozietti, tantissimi parcheggi liberi. I locali sono concentrati verso il litorale, ma rimango sbalordita dagli orari di apertura e chiusura: gli happy hour sono dalle 15 alle 18 e alle 22 in punto chiudono tutti i locali dove si mangia e si beve! Insomma, se arrivi tardi rischi di saltare la cena e di zigzagare fra serrande abbassate.
La metropoli per antonomasia è senza dubbio Los Angeles, con le spiagge chilometriche, i quartieri “in”, le sontuose ville dei VIP aggrappate alle rocce sul mare: l’insegna “Hollywood” sui monti alle spalle della città, troppo inflazionata nei film, dal vivo è deludente; Beverly Hills e Rodeo Drive (dove Julia Roberts in Pretty Woman tenta di fare acquisti) sono tirate a lucido: auto decapottabili con le targhe personalizzate, giovani donne con il barboncino bianco appena uscito dal parrucchiere. È proprio come nei film! La famosa “Walk of Fame” a Hollywood è una strada con entrambi i marciapiedi tappezzati da stelle di ottone che portano il nome dei personaggi più famosi del cinema, della TV o della musica e li distingui per un logo che identifica il loro settore di appartenenza. Tra nomi immortali come Michael Jackson o Charlie Chaplin o The Doors, spiccano quelli di Shrek e Michy Mouse, per la gioia dei fans più piccolini (e anche di quelli grandi).
Qui la vita notturna è accesa fino all’alba, trovi locali aperti fino a tarda notte e gente che cammina in ogni dove. Mangiamo all’Hard Rock Cafè: buona musica, ma servizio e cibo scadente.
A LA mi sono concessa una giornata agli Universal Studios, un parco divertimenti con attrazioni dedicate a diversi film e cartoni animati, come I Simpson’s e Shrek, Transformers, Jurassic Park e Ritorno al Futuro e poi spettacoli, musica, negozi e pizzerie. Gli intrattenimenti sono tutti in 3D o 4D e ci si diverte come bambini. Poi si fa il giro dei set cinematografici: da Psycho a King Kong, da NCIS e CSI a La Guerra dei Due Mondi, tra simulazioni di terremoti nella metro newyorkese o di improvvise piogge torrenziali del Centro America. Lo spazio qui non manca e i set cinematografici, se pur concentrati in qualche centinaio di mq, sono un business post produzione che ne fanno una delle attrazioni più frequentate dai turisti. 
Dopo le grandi città della costa californiana riprendiamo il nostro viaggio immersi nella natura del Joshua Tree National Park, un parco divenuto famoso con l’album omonimo degli U2; i fan più sfegattati dormiranno all’Harmony Motel dove furono ospiti gli U2. Al Visitor Center troviamo in ogni dove pareti tappezzate da curiosi avvertimenti: attenzione alle api! Sì perché le api sono attirate dal caldo dei motori e dall’aria calda emessa dai climatizzatori delle auto, e risalgono le vie d’aria entrando nei mezzi. Azz.. per fortuna oggi c’è vento e non vediamo nemmeno un’ape! A Key’s view, oltre a godersi un bel tramonto rosso tra le cime dei monti, puoi vedere in lontananza la famosa Faglia di Sant’Andrea, una spaccatura longitudinale che corre parallela alla costa da nord a sud. Il parco è ricco di rocce tonde ammucchiate a creare figure bizzarre, e degli alberi di Giosuè- i Joshua Tree con questi rami allungati verso l’alto che ai mormoni ricordano Giosuè in preghiera, ma che gli indiani conoscevano già da centinaia di anni per il suo utilizzo, come cibo e come materiale da lavorazione per sandali e cesti. E tra le rocce spuntano colorati i petroglifi di popolazioni che qui vi abitarono già 5000 anni fa. Insomma, un piccolo parco che racconta una grande storia.
Lasciamo il Parco e terminiamo il nostro lungo viaggio on the road a San Diego, i cui quartieri lungo la costa la rendono una città incantevole di villeggiatura: la domenica pomeriggio a Jolla Beach si riversano intere famiglie in spiaggia o nel verde urbano con tanto di tende e tavoli da campeggio, barbecue, rete da volley e musica latino americana. I quartieri sono ben puliti e colorati. Anche i marciapiedi lo sono: una striscia che corre lungo il bordo indica se e quando puoi parcheggiare: blu, rosso, bianco o verde. A San Diego sarà difficile trovare un marciapiede senza colori, e soprattutto non a pagamento.
San Diego è una città relativamente giovane, che ha avuto una crescita rapida nel giro di qualche decennio: lo si capisce anche dal nome, o meglio, dall’ordinamento delle strade: nella downtown da nord a sud le vie sono chiamate 1°avenue, 2°avenue e così via, mentre da est a ovest sono A street, B street, fino alla G street. Sebbene poco originali facilitano l’orientamento ai visitatori.
A 20 km da San Diego, verso sud, c’è il confine messicano. Andiamo al famoso outlet di SD per gli ultimi acquisti e dal parcheggio spicca, al di là di un muraglione, la bandiera messicana. Il confine infatti è a poche centinaia di metri. Decidiamo di andare a Tijuana, la prima località messicana che si incontra subito dopo la frontiera. Al confine nessuno ci ferma, anche perché non c’è proprio nessuno, né tanto meno facciamo code. Passiamo al di là (o nell’aldilà..) attraverso un tornello di acciaio che permette solo di avanzare. La realtà che vediamo è molto diversa da quella alle nostre spalle in terra americana: bancarelle lungo le strade con gli oggetti a terra, forte odore di spezie e cibo, auto sgangherate in coda, taxi gialli in ogni dove, case fatiscenti di due o tre piani, negozi vetusti, gente che parla solo spagnolo. Prendiamo il taxi, dove ci stipano anche in 6 più l’autista e raggiungiamo la via centrale di Tijuana, chiamata Revolution. Piena di negozi di souvenir, il turista riconoscibile a miglia di distanza viene corteggiato lungo la strada perché entri nel locale ad acquistare qualche souvenir. Mangiamo tacos casalinghi, beviamo margarita e torniamo indietro. 
Il rientro negli Stati Uniti è tutt’altro che semplice: una fiumana di gente, a prescindere dal colore della pelle o dalla nazionalità, è ferma in coda a centinaia di metri dalla dogana. Attenderemo più di un’ora prima di mostrare i nostri passaporti. Mentre siamo in coda notiamo un uomo abbarbicato al muro col filo spinato, nella zona franca fra i due Stati. Un poliziotto messicano dal suo lato cerca di convincerlo a tornare indietro. Non dimenticherò mai lo sguardo sfinito e straziato di quell’uomo appeso alle sue speranze di una vita migliore. Poco dopo arrivano i rinforzi a stelle e strisce. Non so come è finita, certo è che non credo che il messicano avrà varcato il confine, almeno non quel giorno e in quel modo..
Alla dogana ci fanno mille domande e una del gruppo è costretta a lasciare le mele sigillate portate nello zaino dagli States, perché a rischio di contaminazione.
Un po’ più sollevati, ma con l’animo incupito rientriamo in città a San Diego. 
A San Diego ceniamo in un locale cucinando alla griglia carne e pesce, beviamo vino di Coppola, e andiamo a ballare in un locale poco lontano. L’ultima sera a cena ripercorriamo mentalmente le tappe del nostro viaggio: l’albergo più smart, il parco più entusiasmante, la gente, i colori del tramonto, il cibo più buono, i chilometri macinati, e concordiamo di dare il primo premio alla foto più brutta di gruppo, quella scattata al tramonto nel Grand Canyon su richiesta (ahimè) ad un giovane francese, dove l’unica cosa che si scorge nella penombra sono i catarifrangenti di una giacca!
La sveglia alle 4 del mattino ci prepara al ritorno a casa, dopo aver consegnato il nostro regalo acquistato alla Monumet Valley alla festeggiata, imbarchiamo le borse andiamo all’aeroporto.
Il viaggio è stato impegnativo, ma davvero ricco di sfumature che rimarranno nel cuore e nella mente.
A chi pensa di visitare il West, a chi non l’ha ancora fatto, a chi ha bisogno di consigli per scegliere la propria meta, dico solo che questo è un viaggio indimenticabile, dove, con la compagnia giusta, ogni momento sarà ricco di emozioni uniche.

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