RACCONTO
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Lunedì, 27 Aprile 2009

Avvistami, Salutami, Assillami, Guidami

Il primo assaggio di Mali l'avevo avuto a Banjul, Gambia, cercando di localizzarne il consolato. Questo si era rivelato una catapecchia cadente dal cui balcone pendevano i brandelli scoloriti di quella che un tempo doveva esser stata una bandiera.
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Vagabondo0


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Il primo assaggio di Mali l'avevo avuto a Banjul, Gambia, cercando di localizzarne il consolato. Questo si era rivelato una catapecchia cadente dal cui balcone pendevano i brandelli scoloriti di quella che un tempo doveva esser stata una bandiera. In cortile, scritto a gesso sul muro, avevo trovato un nome, un numero di telefono e l'invito a chiamare. Fossi stato altrove non avrei dato credito a ciò che in effetti vedevo, ma qui in Africa ho ormai imparato che niente è impossibile. Avevo quindi cercato un telefono pubblico e chiamato e -cosa ancora più surreale- mi aveva in effetti risposto il console del Mali, sig. Hariri, spiegandomi che il consolato di Banjul era stato chiuso e che quindi avrei dovuto rivolgermi a quello di Dakar per il visto. E con un inizio del genere ero certo che non avrei trovato il più organizzato dei Paesi. Persino per gli standard africani.


Al confine avevano cercato di estorcermi un premium sul visto (avevo deciso di non tornare a Dakar per il visto e tentare la fortuna direttamente al confine) ma avevano desistito non appena raggiunti dalla voce che ero intimo col sig. Hariri in persona. Voce messa in giro da me stesso, lo riconosco. Avevo così raggiunto Kayes, prima tappa nel Paese. La temperatura era insopportabilmente alta e le recenti piogge avevano ulteriormente intensificato calore e fetori. Alloggiavo presso la maison de la jeunesse, il tipico albergo africano dove l'idea di manutenzione ordinaria (tipo imbiancare) sembra morire il giorno stesso dell'inaugurazione. Il cesso comune puzzava così tanto da far pensare che qualcuno vi fosse morto giorni addietro e che si aspettava l'arrivo del forense per poter rimuovere il cadavere.


Già qui, in una città nient'affatto turistica, si ha il primo assaggio di quella che sembra essere malattia endemica del Paese: il guidismo. Quella peculiare tendenza a pensare che ogni straniero è un incapace che finirà per soccombere alle mille insidie dell'ignoto se non accompagnato da una saggia e competente guida locale. Il virus è talmente diffuso che il governo, nel flebile tentativo di circoscriverlo, rilascia tessere che certificano che quella certa persona effettivamente è una guida. Ma se in teoria tale misura potrebbe sembrare efficace, alla prova dei fatti si rivela un vero e proprio boomerang, in quanto i portatori di tale certificato ne interpretano ora il possesso come un diritto divino a rompere i coglioni al prossimo.


Kayes è collegata a Bamako da una linea ferroviaria risalente al periodo coloniale francese, si coprono 600 Km in 24 ore. Una mirabolante media di 25 Km/h! E a Bamako, metropoli simile a Dakar ma con più alberi e meno auto, il guidismo si intensifica. Alloggiato presso l'eccellente Missione Catholique, c'è da dribblare un nutrito gruppo di guide modello cool-man-don't-worry-be-happy ogni volta che si entra o si esce. Se ignorati, tirano fuori ‘sto maledetto tesserino giallo e te lo sbattono in faccia. Non c'è modo di liberarsene. In principio pensavo che quest'ossessione per guidarti fosse figlia di puro calcolo, ma dopo aver trattato (inevitabilmente) con un buon numero di queste guide, ho incominciato a sospettare che molti sono genuinamente convinti di ciò che dicono. Dell'impossibilità, cioè, di muoverti in Mali senza una guida.



Le cose degenerano con l'avvicinarsi al Paese Dogon, vero cuore dell'industria turistica del Paese. A Segou o Mopti, ad esempio, non c'è modo di passeggiare indisturbati: una guida e un tesserino sono sempre lì per te. Tutti offrono più o meno lo stesso giro e il prezzo dipende in larga misura dalla provenienza del turista. E due sole nazionalità sembrano esistere nell'immaginario popolare del Mali: 1) i Francesi (o Europei, termini qui utilizzati come sinonimi) che sono tutti bianchi, ricchi e parlano francese; 2) gli Americani che sono anch'essi bianchi, ancor più ricchi dei Francesi e parlano inglese. Appartenere alla seconda categoria vuol dire pagare tutto considerevolmente di più.


Sul treno Kayes-Bamako avevo conosciuto Roberto, un Italo-Svizzero in anno sabbatico, e insieme viaggiavamo al Paese Dogon. Ad ogni tappa intermedia, assillati dall'immancabile manipolo di guide (tesserare e non), Roberto faceva un punto d'onore nel chiarire che noi non eravamo turisti bensì viaggiatori. Una distinzione incomprensibile agli occhi dei locali e, ad esser sincero, piuttosto flebile anche ai miei. In realtà, i veri viaggiatori sono morti tanti anni fa, nel momento stesso in cui è nata l'idea di turismo. E l'esperienza di viaggio intorno al mondo del secolo XXI è più prossima a quella del cacciatore di tintarella di Ibiza che non a quella dei vari Marco Polo. Quindi, Si, siamo turisti, ma poveri. E i turisti poveri non ingaggiano guide.




Eravamo riusciti a schivare quasi tutti gli assalti, a tenere a distanza i ripetuti consigli a non avventurarci soli in quella valle d'inquietudine e mistero. Tra le dozzine di assurde storielle rifilateci, la mia preferita è quella di Adil a Mopti. Secondo costui, la legge del Mali prevede l'obbligo di ingaggiare una guida per ogni straniero che si rechi nel Paese Dogon. I contravventori sarebbero fermati dalla polizia al posto di controllo di Bandiagara (che in realtà non esiste) e scortati fino al locale sindacato del turismo dove una guida d'ufficio verrebbe assegnata allo sprovveduto turista. Il tutto, ovviamente, a spese del turista stesso che in tal caso non potrebbe nemmeno mercanteggiare sul prezzo! Confesso di avergli riso in faccia. Lo so, non si fa, ma l'idea del Perry Mason delle guide assegnatoci in maniera coercitiva dalle autorità del Mali era davvero troppo surreale per poter restar seri. Eppure, giunti a Bandiagara, ultima fermata prima dei villaggi Dogon veri e propri, avevamo conosciuto Bah, la prima guida non appartenente al genere cool-man-don't-worry-be-happy, un tipo taciturno e di poche pretese economiche. E avevamo finito per ingaggiarlo.


Su consiglio di Bah, il trekking era durato quattro giorni, con partenza da Dourou e arrivo a Kani Kombolé, seguendo la faglia in direzione sud. 25 Km coperti a una media non meno vergognosa di quella mantenuta pochi giorni prima in treno: 6 Km/giorno! La giornata tipo prevedeva sveglia all'alba (inevitabile visto che dormivamo sotto le stelle), colazione, visita del villaggio dove avevamo pernottato, un'oretta di cammino per raggiungere il seguente villaggio, maxi-mega pausa pranzo dalle 10 alle 17 e quindi un altro breve tratto di marcia prima del definitivo stop serale. Dopo tre giorni di tale routine al bromuro, ho fatto presente a Bah che un ottuagenario in sedia a rotelle avrebbe percorso più strada di noi.


Ma se dal lato sportivo il trekking del Paese Dogon si è rivelato praticamente nullo, da quello culturale è stato invece una delle più interessanti esperienze della mia vita. Ogni villaggio differisce dal seguente tanto nell'architettura come nei costumi e, in alcuni casi, persino nel credo religioso. Ancor più sorprendente è forse l'alto livello di autonomia socio-economica di cui godono. Sono quasi autosufficienti sul piano alimentare, grazie alla produzione di miglio, cipolle, mango e altri ortaggi e all'allevamento di capre, polli e bestiame, e fino a pochi anni fa lo erano anche su quello giuridico, con un consiglio di anziani incaricato di dirimere i contenziosi fra i membri della comunità. Oggi, sfortunatamente, sono sempre più quelli che decidono di far ricorso ad avvocati e giudici di stampo europeo, ignorando la saggezza autodidatta (e disinteressata) dei propri vecchi.



In senso negativo, sono stato invece colpito dall'esasperata tendenza a mendicare. I bimbi conoscono solo una frase in francese: "Donnez moi l'argent!" (Dammi i soldi). Gli adulti non conoscono nemmeno quella ma aprono la mano con la stessa prontezza con cui chiudono la mente. Nel villaggio di Yaba Tulun, ad esempio, siamo andati a far visita all'hogon, il capo spirituale del villaggio solo per essere ricevuti con queste parole: "Donnez moi les kola". Lui, un capo spirituale, un saggio. Deprimente.


Ma anche la nostra guida non era seconda a nessuno quanto a saggezza. Scoperto che Roberto vive a Berna, stessa città di una delle sue fidanzate, ha avuto a chiedermi se fossi mai stato in Svizzera. Quando gli ho risposto di no, ha replicato con la serietà propria di guida federata: "Dovresti andarci. Sai, in Svizzera hanno la TV in ogni casa". Amen.


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