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Mercoledì, 10 Febbraio 2010

Attraverso il Sud America

Uno degli aspetti più belli del viaggiare è che, mai, le emozioni possono avere dei compromessi; esse sanno essere solamente incredibilmente forti ed intense. Siamo in Perù da due mesi e lasciamo Urubamba...

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Vagabondo0





Uno degli aspetti piu’ belli del viaggiare e’ che, mai, le emozioni possono avere dei compromessi; esse sanno essere solamente incredibilmente forti ed intense, vorticose e turbolente, nel bene e nel male e non possono essere mediate o attutite da nulla, solo la forza interiore puo’ aiutare a superare i momenti piu’ difficili, cosi’ come, solo l’anima, puo’ ricordarsi dei momenti piu’ unici e magici.

Siamo in Peru' da due mesi e lasciamo Urubamba, dove abbiamo lavorato come volontari in una comunità di bimbi abbandonati. Nella periferia di Cusco, da dove comincia il nostro lungo avvicinamento a Machu Picchu senza prendere il costosissimo treno, mentre passavamo una serie di dossi, un’auto si è avvicinata al bus su cui viaggiavamo e, fulmineamente, ha aperto il portellone e rubato il mio zaino ed improvvisamente mi sono ritrovato dall’altra parte del mondo solo e senza più nulla. Nonostante il durissimo colpo già pochi giorni dopo abbiamo cominciato la lunga camminata attraverso gli antichi sentieri Inca per raggiungere la preziosa, immensa e ancora semidimenticata citta’ di Choqueqiraw a 3.300 metri. La prima notte abbiamo campeggiato lungo il fiume Apurimac, uno degli affluenti del Rio delle Amazzoni (qualcuno sostiene addirittura che sia l’origine dello stesso) a 1.500 metri di altitudine e il secondo giorno, di buon mattino, abbiamo coperto i 1.800 metri di dislivello attraverso una vegetazione ed un paesaggio memorabili.

Choqueqiraw, si dice, ospitava circa 15 mila persone e quello che ora si puo’ visitare, strappato alla giungla e alla natura con decenni di lavori, e’ solo una minima parte di quello che, ancora, si cela tra il verde e le piante. Il sito è aperto al pubblico solo dal ’92 ,perche’ prima non c’era modo di attraversare il mostruoso Rio Apurimac. Pare che, all’arrivo degli Spagnoli, all’inizio del 1500, gli Inca abbandonarono quasi subito Machu Picchu, perche’ non lo reputavano particolarmente importante dal punto di vista strategico, ma combatterono strenuamente per difendere la citta’ di Choqueqiraw, splendidamente situata alla confluenza di tre valli e all’ombra di un imponente ghiacciaio. La storia e’ molto misteriosa e le cronache spagnole si mescolano con i diari di qualche raro avventuriero dei secoli passati (sopra tutti l’italiano Raimondi e l’inglese Bingham) e cosi’ non sappiamo molto di questo luogo magico, che in lingua quechua significa "cratere d’oro", e l’immaginazione e la fantasia possono sostenere che questa fosse la mai trovata ultima capitale Inca. Noi abbiamo campeggiato poco più in basso di fronte a montagne immense e a nuvole che parevano vive e animate tanto cambiavano frequentemente forma e posizione e abbiamo potuto goderci il luogo quasi da soli.



Il terzo giorno, sotto una pioggia che non ci avrebbe quasi piu’ lasciati fino all’ultimo, abbiamo intrapreso la discesa verso il Rio Blanco, infestato da feroci zanzare, per poi riprendere a salire per un sentiero, che zizagando in modo vertiginoso, ci ha portato nuovamente a circa 3.000 metri. Qui abbiamo campeggiato a lato di un paio di casette in pietra con il tetto di paglia; al lume di un paio di candele abbiamo diviso il cibo con i bambini incuriositi dalla nostra presenza, cercando di comunicare con il poco quechua capito e lo scarso spagnolo parlato da loro. Di fronte a noi una superba cascata di alcune centinaia di metri originata direttamente dal ghiacciaio. Il giorno successivo (il quarto) abbiamo superato il passo a 4.300 metri, spazzato da un vento gelido e per poco abbiamo potuto ammirare tutti i ghiacciai nascosti parzialmente dalle nubi e, poi, il sentiero ci ha portati a scendere bruscamente nel minuscolo villaggio di Yanama, isolato giorni di cammino da qualsiasi civilta’ e situato all’inizio di una valle lunga e grandiosa.

Dopo altri due giorni di cammino abbiamo raggiunto di nuovo la giungla e il piccolo villaggio di Santa Teresa, dove un chilo di mango costa pochi centesimi e dove le banane sono il cibo piu’ diffuso. Da li’abbiamo raggiunto Aguas Caliente, il piccolo villaggio ai piedi di Machu Picchu, grazie alla combinazione di un paio di minibus locali con una camminata lungo la ferrovia. Il mattino seguente sotto la pioggia che pero’, lungo la salita, ha lasciato progressivamente il posto a un cielo nuvoloso ma screziato di belle sfumature azzurre, siamo entrati a Machu Picchu, uno dei luoghi piu’ belli dove abbia mai messo piede in vita mia. Non e’ tanto la locazione, peraltro impressionante, in cima alla montagna, abbracciata dal Rio Urubamba, impetuoso e limaccioso, ne’ tutte le montagne circostanti coperte di fitta vegetazione o le cime innevate che si intravvedono sullo sfondo, ma, piu’ di tutto, e’ la dimensione e l’estensione della citta’, la grandezza degli edifici e lo stato di conservazione degli stessi, che lasciano a bocca aperta. Poi l’ascensione a Wayna Picchu (grande montagna) e la vista dall’alto di tutto il complesso, di tutte le terrazze difensive e a scopo agricolo, degli edifici che mescolano sapientemente il lavoro umano e la natura, rendono l’idea di quanto grande e organizzato dovesse essere questo centro cerimoniale e politico.

Dopo tre settimane e un indimenticabile Natale speso circumnavigando in solitario l'imponente Ausangate, una delle montagne che, a sud di Cusco, formano la Cordillera Vilcanota, impressionante catena montuosa con piu’ di 200 picchi oltre i 6.000 metri, abbiamo lasciato il Peru’ viaggiando con un bus notturno verso il Lago Titicaca, enorme specchio d’acqua al confine tra il Peru’ e la Bolivia dove, secondo una leggenda, nacque il dio Sole. La sosta sul lago e’ stata una maniera spettacolare per spezzare il lungo viaggio andino tra Cuzco e La Paz e per ammirare la meravigliosa Cordillera Blanca che svetta, al mattino, tra le nubi, oltre le acque trasparenti e cristalline. E poi La Paz.....

La piu’ alta capitale del mondo si estende in un canyon enorme, che un tempo era una miniera d’oro, tra i 3.500 ed i 4.100 metri d’altitudine, protetta, tutt’intorno, da punte immense e imbiancate e, piu’ di tutte, dall’impressionante Huayna Potosí (6.088 mslm).

Nel 2005 Evo Morales fu eletto Presidente della Bolivia e, per la prima volta nella storia sudamericana, un Paese andino ha un capo di stato indigeno; egli ha iniziato uno stretto rapporto di partenariato con il Venezuela di Chavez e la Cuba di Fidel e all’inizio di dicembre 2008, in piu’, e’ stata promulgata una nuova costituzione. La parte piu’ meridionale della Bolivia, piu’ ricca, senza il fortíssimo condizionamento delle Ande, che gode all’opposto, delle enormi ricchezze amazzoniche, e dove Evo e’ meno popolare che nel nord, pero’, si e’ opposta alla promulgazione delle nuove leggi ed ha iniziato a raccogliere firme per chiedere l’autonomia. Il risultato di tutto cio’ e’ che, attualmente, la Bolivia e’ un Paese in brillante fermento politico, dove le discussioni pro-Evo o contro Evo nascono spontanee nelle strade cittadine e sui pullman di lunga tratta. La gente fa la coda per comprare i quotidiani, si ferma agli angoli delle strade per dibattere, ti spiega con piacere il suo punto di vista, cerca di convincerti della sua stessa opinione e, esattamente nel periodo in cui ci trovavamo in La Paz, due isolati piu’ in basso dell’ostello festaiolo in cui dormivamo, si svolgevano nel palazzo presidenziale estenuanti incontri tra i nove prefetti delle rispettive regioni boliviane ed il governo per trovare un accordo.



Dopo alcuni giorni spesi in La Paz, tra le sue viuzze strette ed in salita, sempre affollate di venditori ambulanti (indimenticabili le soltenas, tipiche empanadas boliviane che mescolano il ripieno salato alla dolce pasta esterna) e con i mille colori dei vestiti locali, ci siamo diretti a sud, passando un paio di giorni nell’antica capitale, Sucre. La ricca citta’ coloniale e barocca mostra la sua enorme differenza con il nord, non solo per il clima mite e per la posizione geografica,è infatti adagiata su morbide colline piu’ in basso delle Ande, ma, sopratutto, per la quasi totale assenza di popolazione indígena, eccetto i molti mendicanti per la strada che non si vedono invece a nord, e per il contesto molto piu’ occidentale e meno "etnico".

Viaggiando in direzione sud verso l'orribile Santa Cruz de la Sierra, abbiamo deciso di spendere ancora qualche giorno ad errare tra la natura e ci siamo avventurati lungo la cosiddetta "Ruta del Che", il tour dei ricordi. Raggiunto il villaggio di Vallegrande nella Bolivia meridionale, dove la vegetazione mantiene elementi andini uniti alla rigogliosita' e al verde scintillante della selva, abbiamo visitato il minuscolo ospedale locale, dove il corpo del Comandante fu trasferito dal luogo della cattura e mostrato alla stampa e dove, per quasi 30 anni, fu seppellito in una fossa comune sotto la pista d’atterraggio dell’areoporto militare. Fu lasciato solo e senza rinforzi, a morire con le mani tagliate in una scuola in mezzo al nulla della giungla boliviana e solamente alla fine degli anni ’90, per strenua volonta’ di Fidel Castro, ebbe una degna sepoltura nel mausoleo di Santa Clara, nella "sua" Cuba.

Il giorno dopo ci siamo imbarcati su un camion e, dopo quasi 5 ore di viaggio attraverso panorami superbi, maestosi ed intatti ed un paio di impantanamenti, abbiamo raggiunto La Higuera, villaggio disperso a 2.400 metri d’altezza dove, 41 anni fa, Ernesto e 21 altri compagni di guerriglia, furono catturati e torturati per tutta la notte da agenti della CIA. Il piccolo pueblo e’ un omaggio al Comandante, con la sua grossa statua nel mezzo della piazza principale, il piccolo monumento a lui dedicato, i molti murales sui muri delle case, il piccolo museo che mostra gli ultimi momenti della sua vita e, piu’ di tutto,mi porto nel cuore i commoventi racconti dei vecchi abitanti che, ancora, si ricordano di quando Ernesto entrava nel villaggio per usare il telegrafo e contattare Cuba per chiedere rinforzi.

Dopo avere passato la notte sul posto, tra i racconti dei vecchi superstiti, abbiamo definitivamente abbandonato il paesaggio andino e, con pause e pernottamenti vari, ci siamo diretti a sud: dopo sei giorni di viaggio via terra, attraverso l'umido sud della Bolivia, costeggiando a ovest l'immensa Amazzonia, il piatto Paraguay, il riccamente coltivato sud del Brasile, con la visita alle indimenticabili ed imponenti cascate dell’Iguazu’, abbiamo finalmente raggiunto le spiagge atlantiche dell’ Uruguay. Allungati al sole caldo dell’estate, abbiamo riposato le nostre membra in una piccola cabañas in fronte alle onde ed agli scogli nel piccolo villaggio di hippies e pescatori dal nome pittoresco di Punta del Diablo.

Qualche settimana dopo siamo arrivati a Buenos Aires. A dire la verita', la capitale argentina non ci e' piaciuta. Dopo tanto tempo nella dimensione andina di Peru' e Bolivia, dopo tanto tempo fuori dalle logiche di una citta' caotica e rumorosa, lontani da uno stress e da un ritmo di vita che accomunano molti agglomerati urbani attorno al mondo, l’impatto è stato piuttosto brutale. Dopo tre giorni siamo scappati da una citta' che, con noi, si e' dimostrata ostile e che non ha saputo affascinarci o mostrarci un'anima particolare o un sorriso ammiccante. Siamo tornati alla natura, ci siamo ricordati quanto e' semplicemente bello potere vedere il cielo e sentire il silenzio che il caos cittadino fa dimenticare e, zizagando per l'Argentina, ora sul lato andino attraverso la turistica Bariloche e l'alternativa El Bolson, ora sul lato dell' Atlantico, in pochi giorni, abbiamo attraversato l'immensa Patagonia e, percorrendo le sue steppe desertiche, abbiamo raggiunto l'Isla grande di Tierra del Fuego. Dopo migliaia di chilometri sul sedile del pullman, l'occhio si appiattisce su un paesaggio senza fine, immobile per ore, posato sull'orizzonte, paesaggio come deserto, pochi arbusti, tante, grosse nuvole, l'Oceano, a tratti, a squarciare di blu, la monotonia e vento, vento, vento, vento.



Poi, quasi 4.000 km dopo, cominciano i laghi, i fiumi le foreste e all’improvviso...le Ande, che finiscono nel mare, prima della fine del mondo. Tierra del Fuego consiste in una grossa citta', Ushuaia (la baia che ruggisce all'ovest, in lingua indigena) e in minuscoli villaggi o sparse fattorie. Il resto e' foresta, mare, ghiacciai, montagne, il piu' inesplorato ed inaccessibile. Cio' che si ammira e' una luce lunga ed intensa che illumina luoghi rari che profumano di antico e di naufragi ed e' bella l'armonia che i diversi elementi della natura sanno avere insieme.

Dopo alcune notti di campeggio nel parco nazionale, abbiamo fatto vela verso nord cominciando la nostra lenta risalita a tappe. Siamo entrati in Cile, ad Ovest, e, usando come "campo base" il piccolo villaggio di Puerto Natales, che sembra uscito da un racconto di Sepulveda per la sua innocenza e semplicita', ci siamo avventurati nel parco nazionale Torres del Paine. Quest'ultimo e' un massiccio montuoso granitico e millenario nel cuore delle Ande a ridosso della frontiera argentina, da un lato e il Pacifico, dall'altro, che sa offrire alcuni dei paesaggi classici ed estremi della Patagonia. Concentrato superbo di una bellezza naturale perduta in molti altri luoghi, delizia degli occhi e dei sensi da dove non avremmo piu' voluto partire e che ci ha regalato un lungo trekking di 9 giorni tra foreste e valli, ghiacciai e laghi, pietraie e fiumi, paesaggi indimenticabili e sontuosi, natura assoluta, distinta, nobile.

Poi abbiamo lasciato le Torres del Paine e, quindi, la cordillera andina dietro di noi e, all'improvviso, siamo sprofondati di nuovo nell'arido, piatto ed infinito altipiano patagonico. Abbiamo lasciato il Cile in autostop e siamo tornati in Argentina. E poi a nord, di nuovo, con una serie di passaggi fortunosi e divertenti, campeggiando al lato della strada nel nulla piu' assoluto, svegliandoci sotto un cielo illuminato a giorno dalle stelle, abbiamo raggiunto, un paio di giorni dopo, El Chalten, paesino minuscolo, allungato in una posizione deliziosa tra il Fitz Roy e il Cerro Torre al fondo di un immenso lago e base d'accesso per una delle altre montagne classiche della Patagonia, il Fitz Roy, appunto. I quattro giorni passati camminando per avvicinarci ai suoi picchi severi sorvolati dai condor, ai ghiacciai imponenti che sprofondano in laghi trasparenti, alle cascate selvagge, ci hanno offerto, ancora una volta, piaceri e vedute indimenticabili e un altro splendido lato di queste terre.

Volevamo lasciare questi luoghi in modo degno e rispettoso, volevamo onorare il loro nome e la loro bellezza selvaggia e, cosi', abbiamo optato spavaldamente per l'autostop, di nuovo, attraverso tutta l'Argentina, per 3.000 chilometri, fino a Buenos Aires. E' stata dura, lunga, a tratti da parere impossibile, con il vento gelido che consuma le membra e penetra ovunque, piantando la tenda dove si poteva, dormendo pochissime ore e facendo un'overdose di piatta,brulla steppa, ma e' stata vittoriosa. Con lunghissimi ed interminabili passaggi in camion, alternati a brevi tratti in vecchi pick-up, in 72 ore siamo arrivati in citta' e con una corsa contro il tempo, la sera abbiamo preso la nave attraverso il colossale Rio de la Plata, in direzione Montevideo.

Mi sono svegliato il giorno del mio venticinquesimo compleanno nella capitale uruguaya, 5 mesi ed una settimana dopo essere atterrato in Lima. Stanco ma soddisfatto.


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