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Martedì, 1 Febbraio 2005

A piedi in Belize

In Belize con Andrea. Tante informazioni utili per chi volesse seguire il suo esempio.

ARTICOLO DI

Vagabondo0

Carissimi vi allego una descrizione del viaggio fatto a piedi e trasporti pubblici in una zona veramente selvaggia del Belize: la zona attorno a Punta Gorda e al confine con il Guatemala.
Viaggio 22 Febbraio - 5 Marzo 2002 ( Belize - Guatemala )

Parto da Parigi con un volo diretto a Miami il 22 Febbraio. Una notte di sosta nella città, alloggiando al semplice e vuoto albergo Travelodge per la modica somma di 50 $, e parto il giorno dopo per Belize city.

L'incontro con il mio amico Saverio avviene alle 12.00 a.m. ora locale ( -7 ) all'aeroporto della capitale.

Lui proviene da un viaggio di circa 10 giorni attraverso il Guatemala classico.

Grande festa, anche perché avevamo qualche preoccupazione nella riuscita del nostro incontro sia per la distanza che per la difficoltà di trovare la coincidenza da Miami per Belize city.

Ci sono due compagnie che vi portano da Miami a tale destinazione: La American Airways, e la Taca.. La Continental e la United Airways invece fanno scalo a Huston, per poi dirigersi in Belize.

Il costo del biglietto è stato veramente eccessivo: 1.300 $ andata e ritorno!

Partiamo entusiasti subito per raggiungere la parte meridionale di tale stato, resasi indipendente dal regno unito da circa 30 anni.

Arriviamo con l'autobus della linea John's busline a Dandriga, cittadina dall'aspetto esotico e sicuramente immutata dall'inizio del secolo, che rimane il punto di riferimento del Belize centrale e di partenza per l'isola di Tabacco Caye, che dista circa 18 km dalla costa, e quindi della successiva realtà di Glover's reef anch'essa a circa 16 km da Tabacco.

Il tragitto in bus dura tre ore circa e appena arrivati ci sistemiamo nella guest house vicinissima alla fermata.

Finalmente, dopo una prima passeggiata che ci permette di cominciare a capire dove siamo capitati e a quale realtà dovremmo relazionarci ceniamo in un baretto , penso l'unico della cittadina, dove ci servono riso, fagioli e pollo fritto.

I mosquitos cominciano subito a divorarci gli arti, ma l'emozione di essere finalmente arrivati a Dandriga ci porta ad ingurgitare la cena e a chiuderci in stanza per fare il piano per il giorno dopo.

Scopo primo è comunque arrivare nella zona più a sud, che, anche seondo la guida della Lonely Planet, è una meta solo per chi è veramente carico di spirito di avventura.

Il giorno dopo aspettiamo un autobus verso le 9.30 a.m. che, secondo dei pescatori locali, dovrebbe passare da li per andare verso l'ultimo avamposto del Belize - Punta Gorda.

Arriva abbastanza puntuale e dopo circa 5 ore giungiamo a destinazione.
Di domenica Punta Gorda appare spettrale e umida: nessuno in giro e dopo tutto quel tempo passato all'interno di uno scatolone rovente e traballante sopra una strada per lunghi tratti non asfaltata ci guardiamo un po' spaventati e pensierosi.

Camminando anche noi traballanti inciampiamo in una specie di bar che abbina lo squallore dell'emigrante inglese con il sapore esotico della filosofia rasta - caraibica.

A gestirlo c'è una anziana signora piena di energia ma apparentemente senza più un vero approccio con la realtà.

Arzillamente ci da subito da mangiare quello che sta gia preparando per lei e dopo un paio di birre comincia a darci qualche dritta sul posto.

Capiamo ben presto che il posto dei "viaggiatori" si trova all'estremità del villaggio e si chiama "Nature's way resort" ed è gestito da un Inglese che vive li da 30 anni serenamente, sposato ad una donna locale di colore dalla quale ha avuto un figlio.

Arriviamo laggiù, ci presentiamo, ma purtroppo lì per lì pare non ci sia posto per noi.

Dopo qualche minuto all'improvviso sembra venirgli in mente che invece un posto potrebbe esserci, e ci conduce in un gabbiotto composto da due letti a castello, con dei materassi bucati e di una vecchia spugna mordicchiata dal tempo, che poggiano su un pavimento di cemento vivo.

Dopo esserci messi d'accordo sul posto per 10 dollari beliziani pari a 5 dollari US, fa istallare le zanzariere, copre i letti con degli stracci e ci chiede se abbiamo bisogno di altro.

Appena svestiti saltiamo per aria alla presenza di uno scorpione che attraversa il pavimento spedito sul piede del mio amico!

Passiamo la serata alla locanda della vecchia inglese cantando e suonando blues ed incontrando due canadesi che avevano appena fatto il giro delle isole beliziane in Kayak, toccandole una per una in 19 giorni e dormendo in tenda.

La notte tutto bene.

Il giorno dopo ci organizziamo per andare a passare due giorni nel villaggio Maya ad un'ora di bus da Punta Gorda.

Il bus per il villaggio di San Pedro parte tutti i mezzogiorni dalla piazza principale della località, anche perché porta alla mattina presto alcuni indios a vendere ortaggi vari al mercato mattutino del posto.

Saliamo con gli indios e arriviamo nel villaggio verso le due, contattati subito da uno che sembra essere la guida locale per i turisti che vogliono passare con loro qualche notte e visitare con essi i siti archeologici maya lì vicino e le grotte nella giungla.

Durante il pomeriggio lasciati liberi e con l'obbligo di essere di ritorno da loro per le 6.00 p.m., ora della cena in una delle famiglie, io e Saverio andiamo a vedere a piedi il siti di Lubuntum.

Una camminata sotto il sole che ci ha fatto perdere almeno due chili a testa, ma ne è valsa la pena anche perché le piccole piramidi che compongono tale sito sono non ancora restaurate e quindi piene del loro fascino, lontano dalle solite mete turistiche e non ancora contaminate dalla mano dell'archeologo di turno.

L'unica presenza è una specie di guardiano che nel tempo libero, quindi sempre, tenta di studiare per prendere il diploma in scienze naturali.

Mentre ci perdiamo tra le rovine incontriamo un indio che ci chiede se siamo del gruppo di ricerca condotto dal sig. Marc; noi diciamo di essere da soli, ma chiediamo subito notizie di chi fosse questo Marc.

Ci fa vedere uno spiraglio nella foresta che dovrebbe, secondo lui , condurre alla sua capanna nella foresta e quindi andiamo a vedere.

Troviamo un tipo strano che vive lì da circa 20 anni e fa il ricercatore agronomo in completa solitudine, ma che durante la nostra visita stava mostrando ad un gruppo di scolari di una università americana, venuti li per uno stage, dei segreti sulle piantagioni locali.

Vediamo per la prima volta il chicco di cacao così come è raccolto dalla pianta e quindi da lui tostato.

Facciamo il bagno in un fiume che scorre al di sotto della sua abitazione - fantastico, ma con un po' di paura per il rischio di incontri con qualche animale acquatico.

Ritorniamo e per un contrattempo improvviso ci perdiamo, io torno indietro a cercare gli occhiali da sole che mi erano caduti e nel ritorno non trovo più Saverio.

Meno male che nel frattempo due uomini facenti parte di quel campo stavano venendo su dalla mia stradina nella giungla e mi hanno avvisato che probabilmente avevo preso la seconda delle due strade per tornare e che il mio amico sarebbe potuto essere nell'altra.

Infatti era così.

Arriviamo al villaggio giusto in tempo per la cena poverissima, ma carica di sapore locale e delle sue tradizioni.

Andiamo a letto dopo poco in una capanna che probabilmente era un vecchio fienile - nel frattempo anche i due canadesi sono arrivati in bici.

Top of page!



La mattina ci accordiamo per partire alle 6 e andare a piedi nella giungla a vedere la tiger cave - durata del tragitto 6 ore.

Stupendo percorso nella giungla che conduce a diversi fiumiciattoli da attraversare e finalmente alla grotta.

Questa caverna che si apre con una cavità alta una ventina di metri è percorribile al suo interno per circa tre ore e 30 di cammino al buio.

La nostra scorta era composta da due indio uno in testa della fila e uno a chiuderla muniti di machete e torce elettriche.

Esiste una storia sulla denominazione di "caverna della tigre", che ricorda un incontro fatto nella giungla da parte di un uomo bianco all'inizio del secolo, per cui lui spaventato e rincorso dalla tigre si nascose in tale caverna.

La leggenda, che non dovrebbero essere chiamata così visto l'insistenza per la sua veridicità da parte degli indios, narra che la tigre sul punto di finire il malcapitato scivolò e si schiantò in uno dei molteplici baratri all'interno della grotta, morendo sul colpo.

Al di là di questo tocco di colore, la grotta appare veramente maestosa e il suo pavimento è composto da una levigata pietra che, a tratti si impenna, in formazioni simili a funghi creati dal calcare contenuto nelle gocce che da molti secoli cadono incessantemente nello stesso punto, e in altri si abbassa formando pozze d'acqua e d'argilla a volte anche molto profonde.

Camminiamo per circa una mezz'ora salendo e scendendo da pendii e piccole discese di massi fino ad arrivare a non vedere più nessun barlume di quella luce che fino ad allora, alle nostre spalle, alleggeriva in parte la crescente sensazione di angoscia.

Ad un certo punto nel buio più totale ci apparve davanti uno spettacolo incredibile, che sembra essere una particolarità della grotta: un fungo, meta un tempo dei sacrifici religiosi che venivano fatti dagli indios, composto di fango pietrificato e di miliardi di schegge luccicanti simili a cristallo che lo facevano brillare, rimandando amplificata la luce delle nostre torce.

Dopo usciti ci siamo riposati e abbiamo ripreso a respirare con il solito ritmo affaticato dall'umidità e dalla temperatura.

Riprendiamo la strada del ritorno, dopo esserci concessi un breve bagno in un laghetto formato da un ruscello che entrava da una parte della grotta e ne usciva dall'altra portandosi dietro della terra.

Arriviamo sfiniti e tentiamo di prendere un autobus locale che avrebbe dovuto passare per un incrocio ad una mezz'ora dal villaggio; fortunatamente la nostra guida trova immediatamente uno disposto a portarci con una macchina, tirata fuori da non so dove, e invece di aspettare l'autobus decidiamo di proseguire fino a Punta Gorda con lui, il quale ci aveva piazzato all'aperto nel porta pacchi di dietro.

Arrivati per le 12.00, veniamo a sapere che una lancia sarebbe partita da li a poco per Puerto Barrios, in Guatemala, e da questa cittadina non sarebbe stato difficile in serata trovare un qualcosa che ci avrebbe portato a Livingston Guatemala, nostra meta.

Dopo le pratiche di sdoganamento, due foglietti di carta e una domanda sulla destinazione, partiamo con altri 4 o5 passeggeri e tre barcaioli, uno dei quali era il Capitano.

Dopo un'ora vediamo qualcosa all'orizzonte - Puerto Barrios.

Arriviamo verso le 4 del pomeriggio e l'atmosfera che subito respiriamo, nel porticciolo composto da un solo molo di 5 metri, trasuda sudiciume e lassismo spagnolo.

Il posto mette un po' di inquietudine, ma come al solito la prima impressione lascia spazio solo alle sensazioni e alle suggestioni tipiche di chi si trova improvvisamente in un posto a cui è totalmente estraneo.

Comunque in un certo senso ci sentivamo già più di casa, perché il carattere latino che traspariva nelle fisionomie, sia pure poco rassicuranti dei fannulloni locali, non era tanto distante da alcuni aspetti dal nostro sud.

Dopo aver rifatto le pratiche di immigrazione con gli addetti guatemaltechi, salpiamo di nuovo per Livingston, oramai con il sole che si stava nascondendo dietro alle montagne fumanti di lussureggiante umidità.

Arrivati a sera, dopo una mezz'ora di lancia, l'atmosfera che avevamo provato al nostro arrivo e il suo sapore si fanno ancora più caldi e suggestivi, anche per l'effetto dell'imbrunire.

Sbarchiamo e, attraversando la cittadina, sento con piacere che la freddezza nei rapporti interpersonali che avevamo provato in Belize, malgrado tutto il fascino della sua natura, era svanita in questi vicoli gonfi di schiamazzi, di galline, di donne che cucinavano sulla strada, di anziani dondolanti tra i fumi al ritmo della musica dei loro vicini che li avvolgeva.

Cerchiamo la locanda che un inglese incontrato per caso a Punta Gorda ci aveva consigliato, in una casa di legno che aveva attaccato fuori un cartello con scritto "here Internet ".

Troviamo finalmente la " Casa Rosada ", bellissimo e folcloristico lodge ben costruito e costituito da un complesso di mini appartamenti che abbracciava una piazzola di sabbia, in riva al mare.

Non bisognerebbe propriamente parlare di mare, perché Livingston sorge sulla foce del famoso Rio Dulce, fiume che nasce da una sorgente all'interno del Guatemala e taglia la giungla per chilometri, tra montagne verdi , parchi naturali, uccelli di ogni tipo e villaggi indio.

Livingston è li ferma e ci aspetta.

Troviamo l'ultima casetta disponibile - dentro è bellissima e accogliente proprio come il padrone, e l'atmosfera è allegra benché statica e molto umida.

Mangiamo una aragosta intera per ciascuno e alla sera andiamo a ballare e ad ascoltare la musica Garifuna locale da un gruppo improvvisato di meticci che affollano il palco di questo unico bar stile raggamuffin.

Molto bravi e molto drogati.

Top of page!



La mattina dopo partiamo con un certo Arturo, un giovane trovato in un ristorante la sera prima, dall'aspetto sincero e buono, che ci promette per 100 quesales ( 50 US$ ) di farci fare un giro per tutto la giornata seguente sulla sua lancia, risalendo il Rio Dulce e guidandoci nei posti più interessanti.

Partiamo alle 8 dal pontile del nostro albergo, dopo essere rimasti senza fiato per la maestosità del paesaggio: una giungla vergine che cadeva a picco sulle rive del fiume dal colore smeraldo.

Qua e là puntini verdi ci indicavano la presenza di grandi uccelli vari e pellicani immobili su sottili rami, che non capivamo come potessero reggerne il peso.

Dopo circa un'ora circa il cielo, già abbastanza grigio alla mattina, comincia a scaricare le sue lacrime e ci inonda per una altra ora buona, ma nonostante tutto riusciamo a vedere dei piccoli affluenti del ramo principale, ricchi di presunti gameti e coccodrilli, fino ad arrivare ad un castello spagnolo.

Il castello non era assolutamente un granché, ma la sua storia era interessante, soprattutto perché era un posto di blocco che serviva sia per lo sdoganamento dei materiali preziosi che dal mare dovevano raggiungere l'interno del Guatemala, sia per la difesa dagli innumerevoli pirati che erano dietro ogni insenatura nell'attesa delle preziosi navi
.
Il fiume dunque per secoli era stato un vero campo di battaglia, e a tutt'oggi molto poco è stato tirato su dai suoi fondali; il giorno prima ci avevano mostrato e fatto toccare dei pezzi di navi spagnole ripescati per caso, di grande valore almeno dal punto di vista storico ed emotivo.

Andiamo a vedere un altro villaggio di frontiera chiamato Frontiera che sta al confine tra l'arteria principale del Rio e il bacino da cui sgorga.

Aveva un aspetto maledetto, e l'aspetto esterno, il legno consumato dal sole , la sonnolenza delle case che attorniavano il molo principale del porticciolo, che poi costituivano l'intera cittadina, ci ispirava di una voglia irresistibile di andare a mettere il naso per vedere chi vivesse lì e, soprattutto, come vivesse..

Al ritorno da questo putrido villaggio di fine Ottocento e putrido veniamo colti ancora dalla pioggia.

Fradic,i decidiamo di tornare verso Livingston, visto che c'era ancora un bel pezzo da fare. Strada facendo soccorriamo degli indios che, a causa dal maltempo, si erano rovesciati con la loro piroga di legno, e a cavalcioni sul guscio rovesciato tremavano di disperazione, non tanto per le loro vite quanto per il carico di caffè e di spezie che, per un valore di 8000 quesales, galleggiava quieto sull'acqua.

Cerchiamo di aiutarli a raddrizzare la barca, ma non si riesce: devono andare a terra , ne carichiamo uno sulla nostra barca e sotto il diluvio lo portiamo in un villaggio poco distante dove con un'altra barca andrà poi a recuperare i suoi compagni sul luogo del rovescio.

Noi ci fermiamo a mangiare in un lodge sulla sponda del fiume, dove una vecchietta ci prepara a tutte e tre qualcosa da mangiare e da bere, e anche lei e le sue figlie ne approfittano.

Infreddoliti, torniamo e salutiamo il cortese Arturo, dicendogli che per 300 quesles la mattina dopo ci avrebbe dovuto portare di nuovo a Puerto Barrios, perché avevamo intenzione di tornare a Punta Gorda in Belize, per poi forse risalire e andare a scaldarci le ossa in qualche atollo e finirla in bellezza.

Mancavano tre giorni ormai, ma le cose che avevamo fatto e visto facevano esplodere in mille allucinazioni emozionanti questo lasso di tempo così breve nella realtà, facendolo sembrare un periodo indefinito.

Puntuale come un orologio Arturo, la mattina dopo alle 8 salpiamo e prendiamo la coincidenza per il Belize alle 10, in un'ora di sballottamenti saremmo tornati nell'ex Honduras britannico.

Giusto in tempo di ri-sdoganare, e via a prendere il bus che avrebbe dovuto partire alle 12 dalla piazza principale di Punta Gorda .

Invece appena mi assento un secondo per andare a fare pipì, eccolo che sbuca da non si sa dove e reclama urgentemente con il clacson..

Si riparte e decidiamo nel tragitto di farci scaricare a Dandriga, per tentare ancora di prendere una lancia che riuscisse a portarci all'isola di Tabacco - detta Tabacco Caye.

Stavolta ci riusciamo, e con una lancia puntiamo sul mare dritti: davanti non c'è nulla e non si intravede neanche nulla.

Dopo un'ora si arriva all'isola
.
Vi sono tre lodge formati ciascuno da due casette di legno con dentro due letti, per la luce solo candele. Noi andiamo chiaramente nella meno costosa e più rudimentale: Gaviota resort il suo nome.

Eravamo sbarcati, verso sera, aggrappati al nostro zaino, che nel frattempo iniziava ad inzupparsi di pioggerella ben presto tramutatasi in pioggia tropicale.

Prima di mangiare quasi metto un piede su un pesce pietra a pochi passi dalla riva - miracolo.

Mangiamo e poi non ricordo più nulla.

Il mattino seguente il tempo non ricorda sicuramente quelle cartoline che vendono all'uscita delle agenzie di viaggio che descrivono " viaggio ai carabi 350 dollari 6 notti e cinque giorni tutto compreso".

Comunque il nostro barcaiolo di nome Boxter, in realtà, non si sa come, in seguito scopriamo che il suo vero cognome è Lloyd, ci porta a fare una escursione non lontano dall'atollo.

C'è mare e molto vento e infatti vediamo poco sott'acqua, solo coralli, rotti forse dall'uragano di Ottobre, pesci pochi.

Torniamo, e sotto l'amaca e la pioggia, leggo le avventura di un uomo eccezionale di nome Gino Strada co-fondatore di Emergency e Saverio legge le memorie di un professore di Harward, che diventerà crescendo uno dei massimi trafficanti di droga europeo.

La sera ci mettiamo a parlare sempre con il nostro amico Caronte, il quale avvertendo nell'aria che il giorno dopo il mare sarebbe rimasto comunque ruggente ma il vento sarebbe calato, ci promette una gita alla riserva naturale Glover's Reef
.
Dista 19 Km dalla nostra isola e noi speriamo nella sua esperienza e soprattutto nel suo buonsenso, anche perché la posta per questo giochetto è 200 US$.

Il nome dell'isola che forma l'epicentro della riserva deriva dal pirata che fino a non tanto tempo fa la abitava e la custodiva gelosamente.

Ore 9.00 la lancia, io, Saverio, Boxter e un rasta dell'isola partiamo e il capitano punta dritta la prua a 90 gradi rispetto al molo verso il mare aperto, assicurandoci che le onde, che per il momento non ci permettono non ci permettono di vedere l'orizzonte se non a piccoli tratti, si calmeranno.

Incrociamo le dita e andiamo.

Solo dopo un'ora, dopo che da un bel pezzo la nostra isola era sparita dalla poppa, la profezia inizia ad avverarsi.

Il grande reef che difendeva l'isola del pirata Glover cominciava a difenderci dal mare aperto
.
Un'altra ora e arriviamo. Un paradiso.

Nel frattempo Boxter propone un avvicinamento all'isola pescando alla traina.

Tre barracuda saranno il nostro bottino dopo solo mezz'ora, e soddisfatti andiamo a farcene cucinare uno presso l'unico lodge sulla terra ferma.

Il panorama ricordava veramente le cartoline di cui parlottavamo prima: acqua cristallina che, come l'iride nell'occhio di una svedese, attornia una pupilla scura di palme.

Chiazze di giardini subacquei, che si intravedevano sotto il filo dell'acqua, mostravano come la natura aveva decorato in maniera incredibilmente armonica un suo lembo di terra, e in più ne aveva appoggiato sopra dell'acqua.

Turchese, azzurro e blu di diverse gradazioni coloravano il tragitto tra l'atollo e il mare più profondo che, saltando sopra il reef, si tingeva di nero prima di fuggire all'infinito.

Cocchi, palme, conchiglie giganti, vento sulla faccia, sole ubriacante, mante, cristalli d'acqua e legno galleggiante si amalgamavano davanti a noi, e al nostro io che drammaticamente, con ancora il piede cittadino e i sensi intorpiditi, cercava di assorbire più benessere possibile prima del rientro alla base.

Meraviglioso.

Tornati all'isola concordiamo con l'oramai " nostro amigo Boxter " che la mattina seguente avrebbe portato le nostre carcasse e il loro contenuto ravvivato fino a Belize city.

Tre ore di viaggio, l'aereo, l'aria condizionata, la gentilezza formale delle hostess, Miami, le urla, l'occasione a 9,99 US$, l'altra opportunità migliore......di Qui non passi se non paghi..... due chiacchiere con il Taxista cubano, poi quello parigino ed eccoci a Milano...chiami l'amico e non sai cosa raccontargli anche se aspetti di farlo da dieci giorni.

Ciao

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