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Giovedì, 23 Marzo 2017

Incontrare il marabout in Senegal: storie d'Africa

Una moschea da costruire, una figura quasi santificata da incontrare e i famosi ritmi africani... il nostro Vagabondo Doc Uinsor ci racconta un'esperienza decisamente più unica che rara: una finestra sull'Africa.

ARTICOLO DI

Vagabondo

Incontrare il marabout in Senegal: storie d'Africa

Testo e foto di: 

Guido Crescentini Anderlini - Vagabondo Doc Uinsor

Lasciamo Dakar che è ancora notte.

L’auto scorre veloce sulla corniche, schivando i giovani che escono dalle varie discoteche, sulla strada verso l’aeroporto e l’uscita dalla città.

Le otto ore di strada che ci separano dalla meta iniziano sulla nuovissima autostrada che arriva fino quasi a Thies, deserta. Poi si continua a percorrere i lunghi rettilinei della brousse, la campagna Senegalese. Conosco questo paesaggio, l’ho già percorso in parte altre volte, ma in questo mese di settembre, mese delle piogge, ha perso il suo classico aspetto semiarido e sfoggia un verde inconsueto.

I grandi baobab che lo adornano sono l’unica conferma di dove ci troviamo: al centro del Senegal.

Stiamo attraversando il paese da Ovest a Est, a velocità folle per altro, per arrivare a Matam, dove vive monsieur le marabout T.S. per il quale ci è stato chiesto di progettare una moschea.  

Il marabout è una figura fondamentale dell’islam saheliano, è una specie di cardinale, potremmo dire, a cui si attribuiscono poteri superiori che lo fanno diventare quasi un santo vivente. Ci sono poi marabout più o meno potenti, e ovviamente più o meno venerati. La fama di monsieur T.S. si spande in tutta l’Africa islamica, e da tutto il continente i fedeli peregrinano fino a Matam per avere con lui un colloquio. A volte aspettano pazientemente per settimane prima di essere accolti, ma non se ne vanno finché non hanno ottenuto di essere ricevuti. Sono a volte uomini d’affari, politici, oltre alla gente comune, a richiedere di essere ricevuti dal marabout. Aspettano perché la quantità di gente che vorrebbe vederlo è enorme, e le “audizioni” sono solo pomeridiane; la mattina monsieur T.S. coltiva i campi e solo dopo aver preparato il pranzo per i poveri del villaggio di dedica alle consultazioni private. 

La capacità africana di aspettare è proverbiale e incredibile per noi del primo mondo.

Con rassegnazione e fatalismo si attende pazientemente qualsiasi cosa, un pasto, un ritardo, un viaggio interminabile, una vita migliore.

A metà viaggio ci fermiamo per una pausa in un villaggio in cui dev’esser giorno di mercato, ma tra la marea di gente che affolla la strada il nostro accompagnatore e tramite tra noi e il marabout, scorge la figlia a fianco di un taxi-brousse evidentemente in avaria. La ragazza, partita nella notte da Dakar e diretta al matrimonio della cugina chissà dove, viaggerà con noi fino a pochi km da matam per poi salire su un altro taxi-brusse che la porterà a destinazione. Ora in macchina siamo in 6 e devo dire non proprio comodi. 

Percorriamo a più di 180 km/l’ora una strada sterrata nel nulla ma l’autista è bravissimo a evitare le buche, i bambini che di tanto in tanto compaiono a bordo strada, le capre e le galline. 

MATAM, L'ATTESA

Arriviamo a Matam per mezzogiorno. 

Il luogo è simile a come l’avevo immaginato nei mesi precedenti, preparando il progetto. Un avamposto del nulla: case basse rosse o gialle, qualche vecchio malandato edificio d’epoca coloniale, tanta gente per strada impegnata a far quasi niente. Penso che non sia cambiato molto negli ultimi duecento anni, se non fosse per qualche automobile scassata che di tanto in tanto solca la strada sterrata.

Veniamo accolti in una delle casa “d’attesa” a qualche decina di metri da quella dove monsieur riceve. Ci fanno accomodare, scalzi, in una specie di polveroso salotto e si dà inizio al teranga, la tradizionale ospitalità senegalese.

Il pavimento della stanza è ricoperto di tappeti sbiaditi e sfilacciati sui cui sono appoggiati dei materassi coperti con teli colorati. Alle pareti rosa sono appese alcune foto scolorite di gente vecchissima, forse i predecessori di monsieur. Una finestra che dà su un cortile interno assicura l’areazione e l’ingresso delle mosche. Oltre a noi, ad attendere di essere ricevuti, ci sono un altro paio di uomini che ci dicono di essere lì da qualche giorno. 

Il teranga prevede che che ci venga offerta dell’acqua per bere o lavarsi che sta in due taniche di plastica appena fuori dal salotto, (i musulmani sono tenuti a fare le abluzioni prima della preghiera); berla significherebbe morire all’istante, penso. Ci viene indicato il bagno, dove si entra rigorosamente in apnea, e subito dopo un ragazzo ci offre delle bibite simil coccola che appoggia su un vassoio a terra al centro della stanza.Sfidando le pulci mi addormento un po’, steso per terra con la testa appoggiata al materasso, come me quasi tutti gli altri nella stanza. 

Vengo svegliato quando il ragazzo delle bibite entra e appoggia in terra una enorme ciotola di metallo con dentro un pollo e delle verdure. Ci si raduna in cerchio intorno alla ciotola e si inizia a spiluccare pezzi di pollo. Un altro aspetto del ternanga prevede che qualcuno stacchi i pezzi di carne per te e te li metta vicino, perché tu li mangi. Da parte dell’ospite è educato finire tutto quello che viene servito.

Dopo il pollo ecco arrivare un’altra ciotola con un grosso pesce fritto e del cous cous. E’ necessario mangiare anche quello per non offendere l’ospite e veniamo esortati dal nostro accompagnatore a farci forza e mangiare…!

Quando abbiamo finito il ragazzo viene a sparecchiare, raccoglie tutto su un vassoio e getta gli scarti fuori dalla finestra, nel cortile. Il nervosismo tra la parte italiana dei miei compagni di viaggio comincia a salire per la lunga attesa per essere ricevuti da monsieur. L’accompagnatore ci spiega che una volta arrivati a Matam non si può andarsene senza esser stati ricevuti da monsieur, anche se questo vuol dire modificare i propri programmi. Il nostro programma è un volo all’alba successiva, e ci chiediamo se monsieur sia sensibile alle rigidità delle compagnie aeree. 

 

L'INCONTRO CON MONSIEUR

 

Finalmente alle 6 del pomeriggio, dopo circa 6 ore chiusi nel salottino polveroso, un silenzioso signore di mezza età viene a prenderci per condurci qualche decina di metri più avanti, a casa del marabout.

L’area antistante la casa è piena di gente pazientemente seduta o stesa che aspetta il proprio momento. Al nostro passaggio veniamo guardati con occhi incuriositi e ammirati, ma anche sospettosi, per la fortuna che abbiamo nell’essere ricevuti. 

L’edificio è un po vecchiotto e di color turchese. All’interno è pieno di gente, un viavai continuo di uomini e donne su e giù per ripide scalette.

Veniamo guidati su una di queste impervie scalette e accompagnati ad una stanzetta stretta e lunga, semplicissima, piena di cose per terra, libri, bicchieri per il the, coperte, fogli di plastica; ha l’aria di essere una soffitta o un garage.



In fondo alla stanza, steso a terra su un fianco, con un braccio che gli regge la testa c’è lui, monsieur le marabout T.S..

Sembra più giovane di come l’avevo immaginato o visto in fotografia. Ha l’aria fiera, gli occhi intensissimi e saggi e magnanimi. Indossa un boubou (tunica senegalese)
azzurro e sorride. 

Al nostro ingresso alza un braccio in segno di saluto, sorridendo, e ci invita a sederci a terra intorno a lui. Anche lui si siede e inizia a prepare il the che ci offirà, lo fa in silenzio, assorto, concentratissimo.

Quando ha finito di versarlo e offrircelo inizia a parlare in una lingua incomprensibile col nostro accompagnatore che dopo qualche minuto ci presenta a lui (come capiamo dai gesti che fa indicandoci).

Monsieur parla solo quella lingua, ma questo non sembra impedirgli di capire le altre.

L’accompagnatore ci invita a mostrargli il video del progetto che abbiamo disegnato per lui, e una volta finito gli consegnamo una brochure con lo stesso. Si stende a terra tenendo la brochure con le braccia alzate, studia le immagini, sembra contento come un bambino con l’album delle figurine... Ha bisogno di una nuova moschea che possa contenere molti più fedeli, non sfarzosa, solo grande. Nonostante questo, è come se le cose del mondo lo sfiorassero solo. La moschea è solo una contingenza terrena, i suoi occhi rivelano che ciò che veramente gli interessa sta molto più in alto.

Il suggello dell’incontro è un ”si, dobbiamo farla (la moschea)”. 

Tutto l’incontro non dura più di venti minuti. Noi dobbiamo ripartire, lui ha altra gente da ricevere. Ci alziamo e monsieur si concede a una foto con noi.

Mi spiegheranno poi che una foto con lui, nel west Africa, può aprire molte porte. Ci congeda con un energico saluto, una stretta di mano forte e con rincorsa. Uno scambio di sguardi intenso e una benedizione per il nostro viaggio, il nostro lavoro, la nostra vita.

Quando usciamo la gente instrada, quella in attesa, ci guarda ora come dei miracolati, dei fortunatissimi e degni di rispetto. Riattraversiamo il villaggio con le luci basse del tramonto, i colori delle case che si scuriscono e intensificano, la gente che comincia a rientrare nelle case, la polvere e il silenzio; qualche ragazzino che ci urla “toubab”, uomo bianco, al nostro passaggio e io che penso a che esperienza sarebbe poter seguire, a fianco di monsieur, i lavori di costruzione di una moschea nel cuore dell’Africa.  

 

Questa storia è stata scritta e vissuta dal Vagabondo Doc Uinsor. 

Architetto nella vita di tutti i giorni e vagabondo nel tempo libero. Oggi potete trovarlo a progettare residenze sociali in Portogallo, a recuperare antichi cimiteri in Egitto, a progettare moschee in Senegal o a pianificare circuiti ecoturistici in Etiopia, ovunque il suo lavoro possa conciliarsi con la conoscenza di nuovi luoghi. 

Se volete scrivergli, qui trovate il suo profilo: https://www.www.vagabondo.net/it/viaggiatore/uinsor

 

Risposte

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