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Mercoledì, 10 Settembre 2014

TREKKING: I PICCOLI, GRANDI PIACERI DELLA VITA

E’ proprio vero che a volte i piaceri piu’ veri della vita non costano nulla o quasi.
Basta sapere dove cercare e volerli trovare.

ARTICOLO DI

alberto angelici

Cinque e quarantacinque del mattino. Il cellulare frinisce debole sul comodino come un grillo dei prati.
In pochi minuti faccio la doccia e altrettanto rapidamente butto giu’ orzo caldo e una manciata di muesli.
Lo zaino e’ gia’ sul fuoristrada, assieme agli scarponi.
Via!

Le strade, dall' inizio del mese semideserte anche di giorno, a quest’ora quasi antelucana sembrano chiuse al traffico. A finestrini aperti l’aria pulita e fresca svuota l’abitacolo del caldo del giorno prima, che sa di plastica e benzina. La radio, come sempre sintonizzata su RAI 3, m’avvolge delle vaporose note della sonata K440 di Wolfgang Amadeus Mozart. Imbocco l’autostrada del sole verso sud, accompagnato dal tipico stile galante che contraddistinse una certa musica sul finire del Settecento.

Sull’ onda di un garbato scatenarsi di violini volo con la mente sul sentiero, al subentrare della sezione viole pregusto i profumi del bosco e spio anzi tempo i mille suoni della natura, sul piu’ robusto scorrere dei violoncelli gia' immagino i solchi bruni dei cinghiali alla cerca di tuberi e funghi. Capita a volte che il terreno ne sia cosi’ sconvolto, quando il branco e’ numeroso e affamato, da sembrare il lavoro di un aratro e se l’ area scorticata e’ vasta, te ne puoi accorgere in anticipo per l’afrore intenso e acido che emana dalla terra messa a nudo.

Sasso Marconi. Qui esco e sono sulla Porrettana, incubo nelle ore piu’ trafficate dei giorni normali ma splendidamente vuota adesso, grazie ai tanti che s’accalcano nella ressa di Viserba e Riccione.

L’ abitato lascia il passo alla campagna collinare, mentre assecondo il lento serpeggiare dell’ asfalto e mi godo il doppio piacere di una doppia musica: quella di Mozart per l’udito e l’altra, quella dell’armonia che mi sfila attorno.
Vedo in un orto due anziani estirpare erbacce sui solchi dell’insalata, in alto, nel cielo di debole azzurro striato, un falchetto scivola sulle tiepide correnti del primo sole, nel greto del Reno un pescatore allaccia alti stivali verdi sulle cosce.

Oltre Carbona, cosi’ chiamata perche’ a quella stazione si caricavano i vagoni di carbone di legna e carbonella provenienti dalle montagne li' attorno, iniziano i tratti della SS64 rammodernati negli anni scorsi: qualche galleria, curve “stirate” in lunghi rettilinei a 4 corsie, uniche, reali possibilita’ di sorpasso sicuro per un percorso che altrimenti pretende pazienza e attenzione, pena il rischio di allungare la gia’ lunga lista di morti e feriti.

Un’altra, moderna variante soprelevata evita l’attraversamento di Porretta Terme, cosi’ guadagno tempo, poi la carreggiata riassume connotazioni ottocentesche. Curve e contro-curve si susseguono instancabili su due corsie strette che sconsigliano ogni velleita’ corsaiola.

A Ponte della Venturina, abituale sosta per il rifornimento della “cambusa”, giro a destra nella vallata del torrente Macerone che solo a tratti e’ visibile, profondamente incassato com’e’ nelle pieghe rocciose che ospitano anche il tracciato di una delle piu’ antiche ferrovie italiane che prosegue verso la Lucchesìa e l'allora Granducato di Toscana.

E’ una bella e suggestiva valle, questa, seppur a tratti buia e umida perche’ gli alti crinali boscosi consentono l’accesso al sole per poche ore del giorno.
Appena oltre l’abitato di Molino del Pallone, una manciata di case incastrate tra il pendio, il torrente e la mini-stazione che pare quella del trenino Rivarossi della mia infanzia, ecco la deviazione per Monte Cavallo.
Da qui in avanti la strada si fa stretta e ripida, perche’ in pochi chilometri deve superare un notevole dislivello, da 490 metri ai 1280 del Rifugio di Monte Cavallo, dove finalmente lascero’ l’auto.

Il tracciato sale per strette curve dove e’ bene suonare. Ho notato che in montagna si e’ completamente perso l’uso del clacson, unico caso in cui sarebbe bene, invece, avvisare della propria presenza sperando che un’ eventuale auto in arrivo dall’altra parte ricambi la cortesia. Il che non capita mai: anche se suono spesso, a sorpresa mi capita di incrociare altre vetture il cui conducente, se azzardo una seconda, piu’ prolungata suonata, mi guarda come se fossi matto.

Ancora un paio di bivi ma se anche non ci fossero le chiare indicazioni, basterebbe tenere sempre verso l’alto.
A Case Forlai, antico borgo in pietra, termina l’asfalto, il fondo si fa roccioso e dissestato. Con auto prive di trazione integrale o a telaio basso e’ consigliabile parcheggiare, anche in condizioni climatiche favorevoli, e proseguire a piedi per gli ultimi 4 chilometri che separano dal rifugio.

Si sale tra i castagni, alcuni giganteschi e in parte cavi. I tronchi, simili a rocce chiare e i monconi anneriti dei rami mostrano le cicatrici di una secolare battaglia con i fulmini, sovrastano le piante piu’ giovani e sembrano sorvegliare i viandanti con tranquilla ma vigile attenzione.
A tratti si entra nel buio di piccole abetaie con cui le autorita’ forestali degli anni ’60 e ’70 cercarono di sanare le ferite prodotte sui castagneti dalla malattia fungina che mezzo secolo fa ne distrusse la gran parte.

Nel periodo invernale le striature dei sempreverdi spiccano scure come dita di una grande mano aperta sul crinale per poi confondersi ad ogni primavera con il bosco circostante al sopraggiungere delle nuove chiome.
Parcheggio nel profumo di resina e per un attimo resto immobile sul sedile, lo sportello spalancato su un paesaggio che conosco da anni ma ogni volta apprezzo con volutta’ primeva.
I metalli scricchiolano nel sollievo del raffreddamento; sembra quasi che con quei suoni la macchina tenti un approccio, cercando il dialogo con le creature di un mondo tanto diverso da quello della citta’ appena lasciata.

M’incammino sulla carrareccia solcata nell’argilla da profonde tracce di pneumatici, ampie pozzanghere raccontano recenti piogge cosi’ come l’aria umida e calda che ristagna nel sottobosco. Di sicuro sono arrivati i funghi, penso, e si spiegano le tante auto parcheggiate che ho superato salendo al rifugio. Qui pero’ non c’e’ nessuno e la pace e’ totale. Su rami alti di un abete scuote un grosso uccello, forse un notturno, magari una civetta, nelle pieghe della montagna un cane abbaia e un altro gli risponde chissa’ dove, e intanto una larga nuvola color del fumo compare dietro le creste del versante modenese, scivolando bassa scollina verso di me, rasenta il nudo crinale e per un istante mi ricorda un toupet sul cranio di un vecchio vanitoso.

Zaino poco carico, anche se per prudenza ho conservato la giacca a vento leggera. Pantaloni accorciabili e maglietta addosso, camicia nello zaino assieme al necessario per cucinare, borraccia, micro-farmacia, coltello e torcia frontale. Anche un telo di plastica sottilissima per stendersi. Altro non mi serve, per “sopravvivere” un giorno.

La prima parte del percorso sale rapidamente a zigzag nella penombra di una fitta abetaia. Procedo sul profumato materasso di aghi resi morbidi dalle recenti piogge, osservando con tristezza i tanti tronchi divelti dai venti invernali e dal peso della neve. Il fenomeno si accentua laddove lo strato del terreno s’assottiglia impedendo di fatto alle radici degli abeti, gia’ di per se’ poco sviluppate, di fare sufficiente presa sulla sottostante falda rocciosa.

Quando il sentiero assume un andamento piu’ pianeggiante, e corre sul crinale, incontro giovani querce, roverelle, cespugli di more e lamponi e, laddove il sole riesce a far capolino, le felci, che hanno invaso il sentiero e lo contendono alle ginestre, pianta utile, oltre che bellissima per i fiori violentemente gialli. Si’, utile, e almeno per due motivi. I suoi rami sottili, se schiacciati a lungo con un martello forniscono lunghe fibre con le quali non e’ difficile intrecciare ottime corde e, avendo a disposizione un telaio, solide stuoie piu’ durevoli della stessa canapa. Se poi ci troviamo nella necessita’ di accendere un fuoco, operazione peraltro vietata oltre che da norme di legge in primis dal buon senso, dopo esserci accertati di non incendiare l’intero bosco, ricordiamoci che i rami della ginestra bruciano perfettamente anche se verdi grazie a una sostanza oleosa in essi contenuta.

Tengo un passo veloce, rispettando una pausa di tre minuti ogni ora di cammino. Non ho alcuna meta da raggiungere ma da alcuni giorni sento nelle gambe e nella testa la necessita’ impellente di camminare, di camminare tanto.
Lungo il sentiero, le tracce ancora abbastanza evidenti per chi sa dove guardare, testimoniano di un antico mestiere oggi pressoche' scomparso dalle nostre montagne: quello del carbonaio. Sono aree circolari perfettamente livellate, allora dette “piazze”, che si allargano sul sentiero e che un tempo erano occupate dalle carbonaie, grandi cumuli di rami disposti in cupole perfette che potevano arrivare ad impiegare anche 100 quintali di legna ciascuna. Sotto lo strato di foglie ancor'oggi e’ possibile trovare cenere e pezzetti di carbone.
La preparazione era lunga e complessa e per giorni e giorni, da otto a quindici, dalle pire si alzava il fumo e la combustione, attentamente sorvegliata, a turno, dagli addetti e frenata da un equilibrato apporto di ossigeno, trasformava il legname in carbone e i rami piu’ sottili in carbonella. L’attenzione doveva essere massima, giorno e notte, perche’ la distrazione di un momento, una combustione troppo rapida, un calore eccessivo, potevano mandare in fumo e in cenere il lavoro di giorni e l’intero guadagno. A questo proposito credo che scrivero’ una specifica opinione, perche’ anche i piu’ giovani sappiano quanto poteva essere faticoso, fino a poche diecine d’anni fa, guadagnarsi l'esistenza.

Cammino da oltre cinque ore, la temperatura e’ giusta, grazie anche alle nuvole che ogni tanto si frappongono tra me e il sole.
La vista di un prato in lieve pendio mi rammenta che la colazione di quel mattino e’ un ricordo oramai sbiadito; e’ il momento di utilizzare le cime di ortica, la malva e la borragine raccolte sul sentiero senza neppure fermarmi.

Una lastra d' arenaria, messa in piano con piccoli altri frammenti, funge da sostegno per il mio mini fornello a gas Markill. E’ il piu’ piccolo tra i tanti in commercio e il piu’ leggero, grazie alla costruzione interamente in titanio, circa 40 grammi, e dimensioni pari a mezzo pacchetto di sigarette. Una vera piuma, molto solido pero’, il migliore nel suo genere, e, unito a una bombola non piu’ grande di un pompelmo, capace di portare a ebollizione un litro e mezzo d’acqua in pochi minuti.

Sul fondo del pentolino metto d’olio d’oliva, poco, appena due cucchiai, aggiungo le foglie tagliate grossolanamente, lascio insaporire un minuto poi unisco due pugni di riso, rimescolo rapidamente fino a che non ha assorbito il liquido quindi bagno con un litro d’ acqua circa, correggo con mezzo dado bio dell’Alce Nero e lascio cuocere quindici minuti a fuoco basso, rimescolando ogni tanto.
Spengo quando il riso e’ ancora brodoso, seguendo il desiderio del momento ma avrei potuto “tirato” di piu’, magari con l’aggiunta di parmigiano grattugiato.

A qualcuno sembrera’ forse poca cosa ma per me non c’e’ nulla di piu’ piacevole che gustare con un cucchiaio pieghevole vecchio di quasi 50 anni un semplice riso cucinato con nulla, magari nel tegame stesso, immerso nella pace assoluta di un crinale boscoso, guardando il gioco delle nuvole, il volo degli uccelli o un gruppetto di formiche che s’affanna per trascinare nel nido un frammento del mio craker.

E’ proprio vero che a volte i piaceri piu’ veri della vita non costano nulla o quasi.
Basta sapere dove cercare e volerli trovare.

 

 

 

 

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