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Martedì, 25 Marzo 2014

Marocco oltre ogni aspettativa

L’intensità di quei paesaggi, dal rosa delle montagne all’arancio della sabbia, non la puoi immaginare fino a quando non se lì. Ti riempie di calore il cuore e di colore gli occhi. 

ARTICOLO DI

MartiBackpacker

Sono partita senza credere che il Marocco potesse darmi tanto. Dopo soli cinque giorni di viaggio ho detto arrivederci a questo magico paese con una voglia matta di tornarci. Ho trovato persone, cibo e panorami indimenticabili.

Per poter concentrare tutto l’itinerario nel poco tempo a disposizione, ho scelto, seppure con qualche dubbio, di abbandonare il self drive per affidarci a una guida locale che conoscesse bene le strade. Idir è stato più che un semplice autista, ha dimostrato di essere un’ottima guida e, soprattutto, è diventato un amico. È anche grazie a lui se questo viaggio mi è rimasto dentro più di altri.

Primo giorno trascorso nella bella e caotica Marrakesh. Scesi dal taxi in una piazzetta che si affaccia sul suq, varchiamo la soglia di questo folle mercato perdendoci dopo pochi istanti. Vagabondare nei vicoli per dieci minuti, ma non riusciamo a venir fuori dal labirinto, così tentiamo la fortuna chiedendo a un ragazzo di accompagnarci al riad. Pochi passi e ci siamo, in un budello uguale a tanti altri ecco lo spesso portone del riad Matham. Spalancate le porte ci troviamo in un palazzo magnifico,  curato nei minimi particolari, dove si è improvvisamente lontani dal chiasso cittadino. L’atmosfera unica delle costruzioni che hanno mantenuto un’architettura autentica è da vivere se vi trovate in questa città.

Dall’alto della terrazza osserviamo i tetti sotto di noi, fino alle montagne. Impazienti, dopo aver gustato il primo di tanti tè alla menta, ci lanciamo alla scoperta della medina. Il suq è una festa di colori, odori e voci. Ci si fa spazio cercando di restare indenni nel traffico di persone, motorini e asini. Il mercato è amato dai turisti, ma nei banchi più periferiche si incontra gente di ogni tipo. Gli uomini anziani, qui, passeggiano mano nella mano con uomini più giovani, segno di rispetto e amicizia. Pranziamo con un cous cous nel caffè di Azouz , dove conosciamo un corso innamorato del Marocco appena tornato da un viaggio di tre settimane nel Sahara dell’Algeria. Ci diamo appuntamento per la sera e poi ci mettiamo in cammino verso le tombe saadiane. Allontanandoci dal suq scopriamo una Marrakesh altrettanto affascinante. Guardando in su notiamo sui tetti le cicogne, nei loro enormi nidi ed entriamo in un paio di erboristerie da levare il fiato, non solo per la quantità di aromi che impregnano l’aria, ma per le file e file di barattoli di vetro con dentro ogni tipo di spezia, erba o altro rimedio naturale. Trascorriamo le ultime ore di sole con la visita a un paio di altre tappe classiche e curiosando nella medina.

Quando il sole cala, Jemaa El Fna, l’immensa piazza di Marrakesh si riempie di turisti e giovani del posto. Sono tantissimi i banchi che servono spremuta d’arancia così come le possibilità di mangiare all’aperto. A ogni angolo incantatori di serpenti, musicisti e donne che fanno tatuaggi all’henné. Non mi è piaciuta. Artisti di strada che, se ti fermi a guardarli per pochi secondi, ti chiedono prepotentemente “un’offerta”; donne che, con altrettanta prepotenza, provano in ogni modo a prenderti le mani e a sporcarle di henné; incantatori che tengono i serpenti in condizioni orribili arrivando a privarli dei denti (non va meglio alle scimmie che sono trascinate da una parte all’altra della piazza alla ricerca di turisti che desiderino scattare una foto con l’animale). È arrivato il momento di rilassarsi davanti a una tajine insieme Azouz, che insiste per offrirci la cena. Mangiamo tutti insieme: noi, il signore corso, Azous e la sua futura giovane terza moglie. Ma non è poligamia, sono due divorzi alle spalle. E la cosa che più mi fa sorridere è che lui continua a mostrarle con orgoglio le foto della moglie da poco lasciata, facendole notare quanto fosse bella.

È nel secondo giorno, quello che sto per descrivere, che mi innamoro del Marocco. Non so esattamente quando sia accaduto, se nel Café des Amis, bettola dove mangerei ancora un milione di volte, o lungo la valle delle mille kasba, che al tramonto si infuoca.

Colazione marocchina e subito dopo facciamo conoscenza con Idir. Percorreremo tanti chilometri insieme. Usciti da Marrakesh scopriamo un mercato all’aperto simile ai nostri: qui la gente di città e dei sobborghi vicini viene a fare la spesa per la settimana successiva. Ci sono bestiame, cibo e indumenti. Al suq di Marrakesh i locali comprano solo poche cose e in caso di necessità, come avviene per noi con i mercati e i negozi di alimentari. Ci incamminiamo verso le montagne dell’Atlante. Una volta iniziata la salita, tornante dopo tornante incontriamo i venditori di funghi secchi e dall’alto scorgiamo donne e uomini al lavoro nei campi. La terra è verde e fertile, ma superato il punto più alto il panorama cambia rapidamente. Scegliamo di percorrere la strada delle carovane:  ora dominano le tonalità del rosso e dell’arancio; al posto della vegetazione la pietra. Visitiamo Telouet, una kasba che per anni è stata completamente abbandonata e per questo molto danneggiata. È bellissima. Parte di essa è in rovina, ma non meno affascinante. Da una delle finestre del palazzo, ricco di mosaici e intarsi, si scorge il paesino che, durante gli anni d’oro del signore di questa kasba, ospitava i lavoratori della zona. È ancora oggi un villaggio abitato.

Ait Ben Haddou è la prossima tappa. La strada continua a offrirci paesaggi meravigliosi: larghi canyon di roccia arida all’interno percorsi da un fiume verde di alberi. Ad aspettarci dopo ogni curva c’è una sorpresa. Un muratore sotto al sole delle undici è in piedi sul tetto di quella che sarà una casa e ci dà giù con la pala sbattendo sui mattoni fatti di terra per rafforzare la struttura. Ogni tanto tra le rocce un villaggio berbero fa la sua comparsa. Ad Ait Ben Haddou ci troviamo di fronte a una kasba molto diversa dalla precedente. Questa cittadella che viene restaurata in continuazione è in perfette condizioni e funziona da set cinematografico per produzioni internazionali. Non tutto ciò che vediamo è vero, parte delle mura esterne, per esempio, sono in polistirolo, realizzate per un film. Ait Ben Haddou oggi è abitata solo da 5 famiglie che hanno negozi di souvenir e botteghe artigianali. Salendo verso il granaio, la costruzione che domina sul resto della cittadella, visitiamo alcune abitazioni berbere, tutte costruite in mattoni di fango e paglia fatti essiccare al sole.

Dedichiamo poco tempo alla medina di Ourzazate. Troppe chiacchiere ci hanno fatto rallentare e tutti e tre moriamo di fame. Idir ci chiede il via libera per portarci in un posticino che conosce lui. La scritta in arabo significa Caffè degli amici. C’è una specie di bancone fuori, la carne a vista e tante mosche, che sono le uniche clienti oltre a noi, ma a quanto dice Idir le tajine che preparano qui sono eccezionali. Entriamo nella cucina dove ci mostrano i contenitori di coccio che da ore cuociono lentamente sulla brace. Il cuoco veste l’abito tradizionale. Ne prendiamo una per tutti e tre, ci laviamo le mani perché non ci sono posate e condividiamo questa tajine di montone e verdure buonissima, concludendo con un tè che, come ci spiega Idir, deve essere molto, fin troppo, zuccherato. E si riparte. Attraversiamo la valle delle rose che nel giro di poche settimane ospiterà il festival annuale in cui questo profumatissimo fiore, qui solo di colore rosa, è protagonista. I fiori attaccati a rovi ormai scarseggiano, ma qui e lì sbuca un bocciolo sfuggito alle donne addette alla raccolta.

Idir è nato in questa regione; è berbero, non arabo, ci tiene alla distinzione. Durante l’ultimo giorno in sua compagnia, sulla strada del ritorno, entreremo in uno dei laboratori che estrae olio essenziale dai petali delle rose. Da giovane ha lavorato qui. Ci spiega come avviene l’estrazione degli oli essenziali e ci mostra i macchinari. Ce ne andiamo con alcuni profumatissimi boccioli da portare a casa.

Usciti dal Café des Amis è pomeriggio inoltrato e Idir vuole assolutamente portarci nel punto più alto delle gole del Dades per il tramonto. La valle delle mille kasba con questa luce si è tinta di rosa e di rosso, percorrendola a ritmo serrato arriviamo in tempo e anche se per pochi minuti ci godiamo uno spettacolo meraviglioso. La mattina seguente, dopo un sonno profondo in una bella pensioncina, siamo di nuovo pieni di energie e quanto mai felici di aver Idir con noi, dopo aver capito che da soli non saremmo riusciti a percorrere quelle distanze. Abbiamo tempo a sufficienza per concederci alcune pause nei punti panoramici della valle delle mille kasba che percorriamo a ritroso. Dopo esserci fermati per ammirare le famose dita di scimmia, formazioni laviche molto particolari, ci dirigiamo verso la Valle del Draa, dove osserviamo dall’alto i rigogliosi campi irrigati da un sistema antico e ingegnoso. Poi gole del Todra, dove facciamo una passeggiata e incontriamo donne e bambine che portano al pascolo le capre. Nella cultura berbera sono le donne a portare avanti molti dei lavori legati alla casa: si occupano della pastorizia, talvolta anche dell’agricoltura e hanno il compito fondamentale di fare rifornire la famiglia di acqua. Assaporiamo un tè e risaliamo in macchina diretti verso Rissani, dove Idir ha promesso di farci assaggiare una pizza berbera.

Nel suq di Rissani ordiniamo al banco di una macelleria il “condimento” per la nostra pizza. Dopo pochi minuti un ragazzo arriva a bordo della sua bici portando una pizza calda che consegna al macellaio per la farcitura. La pizza berbera è una focaccia tagliata in due ripiena di carne macinata con mandorle, uovo e cumino. La mangiamo accampandoci alla meglio vicino alla strada, poi si riparte. Ormai Merzouga è vicina.

Superata la porta della città del deserto troviamo un’atmosfera diversa rispetto a quella dei villaggi incontrati finora. Qui molte donne sono vestite completamente di nero; è l’influenza araba. Superiamo l’ennesimo mercato e usciamo dalla città avvicinandoci sempre di più all’Erg Chebbi, il complesso di dune più vasto del Marocco. È il nostro obiettivo.

 Il deserto inizia a mostrarsi pian piano. Prima ai bordi della strada c’è poca sabbia, chiara. Il paesaggio è suggestivo, con le rocce e l’aria calda a renderlo sfocato. Avvicinandosi al Sahara il livello di sabbia aumenta, ma mantiene ancora un colore chiaro. Ci fermiamo per cercare qualche fossile, ma non dobbiamo fare il  minimo sforzo. Sono davanti a noi, ovunque e di notevoli dimensioni. Una delle tante tende beduine (che, ahimè, sono ben poco beduine ormai) è la “porta” per accedere ai pozzi e scendere in uno di questi. È una visita interessante: dalla fonte più vicina, a chilometri di distanza, l’acqua veniva condotta fino al deserto grazie a un lungo canale discendente sul quale a distanza regolare si aprivano i pozzi, molti dei quali arrivati intatti fino a oggi.

Siamo quasi all’Erg Chebbi. Ancora una volta sorseggiamo un tè e poi salutiamo Idir, che ci aspetterà qui fino al mattino seguente. Saliamo sui dromedari per raggiungere l’accampamento. Insieme a noi una coppia francese a alcune ragazze marocchine. Non possiamo prendercela comoda perché nelle ore successive potrebbe esserci una tempesta di sabbia. Le dune sono magiche, lo è anche la vista sull’Algeria. Sono su Bob Marley che procede con un’andatura lenta e ondeggiante. Arrivati al campo giochiamo un po’ con la sabbia e poi aspettiamo la cena, che sarà a base di cous cous e musiche e canti tradizionali. Niente stelle, abbiamo portato con noi la pioggia. Durante la notte, la tempesta di vento porta via le nuvole, regalandoci per la giornata seguente una magnifica alba e delle dune che sembrano non essere mai state toccate da un piede o una zampa, ma solo da una fitta pioggerellina.

In questo quarto giorno ci aspetta un viaggio in macchina di oltre dieci ore, che interromperemo solo per fare qualche tappa lungo la strada e una piccola deviazione alla ricerca di una delle cooperative di donne che tesse tappeti berberi. Il latte crudo di dromedario sembra non essere piaciuto al mio apparato gastrointestinale, ma tra qualche battuta sulla mia pancia dolorante e un po’ di soste forzate, arriviamo col calare del sole a Marrakesh e salutiamo Idir. Con lui sono tuttora in contatto.

Quinto e ultimo giorno. Lo dedichiamo alle mete della città che ancora non abbiamo visto; più bella tra tutte la Madrasa Ben Youssef, antica scuola coranica.

Nel pomeriggio saluto Marrakesh con tanta tristezza. Cinque giorni sono decisamente troppo pochi per riuscire a stancarsi di questo splendido Marocco.

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