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Mercoledì, 17 Dicembre 2014

Il Mio Cappello

Bruxelles, Belgrado, Trieste. Avrei viaggiato così.

ARTICOLO DI

Mr. Francis


 

Bruxelles, 1926

Da tempo la pioggia aveva cominciato a battere le strade consumate di Bruxelles, ma la marcia di Osvaldo Mor procedeva senza sosta. 

Aveva percorso tutta Chaussée de Waterloo che dalla periferia portava in centro. Accanto a lui l’immenso palazzo di giustizia aveva schermato un po’ del vento freddo del nord che rendeva le gocce feroci, ma poco dopo gli alberi del

Parc du Petit Sablon lo avevano spezzato di nuovo in vortici imprevedibili e taglienti che gli rigavano il viso.

Da quando era partito, si era mosso con un rigore quasi matematico, procedendo per lunghe linee rette e svoltando di tanto in tanto assecondando la forza che lo attraeva con cieca fiducia.

Seguiva quel desiderio senza conoscerne il significato o la meta fino a quando, percorsa Rue de la Régence e dopo alcune svolte nel dedalo del centro storico, imboccò Rue au Beurre per sbucare nella Grande Place.

Diede un rapido sguardo ai palazzi che si stringevano intorno alla piazza e spinto ancora dallo strano vorace desiderio s’incamminò verso un punto preciso.

In fondo, sul lato corto della piazza, un edificio del sedicesimo secolo attendeva scolorito dalle intemperie. Si avvicinò al portone e notando che il custode non era presente, entrò.

Nell’ampio cortile si fermò qualche istante davanti alla fontana, putti imperlati di pioggia vegliavano sull’acqua stagnante appena mossa dalle piccole gocce.

Nel ventre verde della fontana si muovevano stancamente alcuni pesci rossi chiazzati di nero. In quel momento si sentì un’altra volta posseduto da quell’irrimediabile desiderio e ricominciò la marcia.

Sulla destra del cortile c’era una porta di ferro mangiata dalla ruggine. La porta finiva a un palmo dal selciato e attraverso la fessura s’intuivano una serie di gradini che scendevano.

Si avvicinò, notò che non era chiusa a chiave e che dalla feritoia in alto proveniva un forte odore di umidità e muffa. Come in trance, la mano di Osvaldo Mor tirò con forza la maniglia e la porta si spalancò.

Un vento caldo e stantio lo raggiunse e capì che ci era vicino, ma qualche istante dopo una voce lo riportò alla realtà.

“Chi sta cercando lei?” intimò il custode con tono deciso.

Nel momento esatto in cui Osvaldo Mor si voltò, il giovane si sentì risucchiato da una strana forza.

Non sapeva spiegarselo, ma era come se, una volta visto in volto quello strano individuo, i suoi occhi lo avessero penetrato nel profondo e lo tenessero in scacco.

Non fu paura quella che provò, piuttosto una strana vertigine, come quando si è sull’orlo di un precipizio.

Il viso di Osvaldo Mor, però, era cordiale; l’uomo era vestito in maniera modesta ma curata. Portava un lungo soprabito grigio appena sbiadito all’altezza dei polsi,

un paio di pantaloni di velluto verde e un maglioncino di un giallo pastello.

Sotto il maglione, si intravedeva una sottile camicia senza colletto, chiusa fino all’ultimo bottone.

Nella mano destra, stringeva un ombrello nero il cui manico in osso e argento era finemente intarsiato.

Dopo qualche istante il ragazzo si riebbe e tornò alla realtà della sua vita: lo sfratto, un ultimo mese di lavoro e poi a spasso, e i soldi per gli studi sono finiti, pensò tra sé e sé.

E adesso anche questo seccatore. Non ci voleva, e intimò di nuovo: “allora, chi sta cercando lei?”

La risposta di Osvaldo Mor non si fece attendere.

“Vede gentile signore, stamattina mi sono alzato di buon’ora dalla pensione presso la quale ho una camera in affitto, in Avenue Wellington, credo che lei conosca la zona” diede alla frase l’intonazione di una domanda,

ma senza lasciare rispondere il custode, proseguì: “una zona molto modesta, ma perfetta per una persona come me che ama la solitudine e la tranquillità. Certo non è un luogo aristocratico e ricco di storia come questo che lei ha il

merito e il privilegio di tenere, ma nell’umiltà di questi quartieri si possono trovare molte buone ragioni per riflettere.”

Il custode, sopraffatto dalle parole gentili dello strano soggetto, tornò in uno stato di febbrile attesa davanti a quello sguardo ipnotico.

“Ecco, come le dicevo, questa mattina dopo colazione, sono uscito per passeggiare sulla Chaussée de Waterloo e mi sono nuovamente imbattuto in uno strano gioco del destino. Lei crede al destino, non è vero?”

Il giovane provò un leggero brivido al pronunciare di quella parola, ma, ancora una volta, senza lasciare rispondere il suo interlocutore, Osvaldo Mor proseguì il suo racconto.

“Badi bene, non è una cosa fuori dall’ordinario per me, e non è certo la prima volta che mi capita. Tuttavia, questa mattina, sfidando la pioggia e il vento, sono stato, come dire, portato qui;

ed è per questo che, se posso permettermi di rubare un poco del suo prezioso tempo, vorrei farle una domanda che non mi ha dato pace da quando ho iniziato la mia passeggiata: avete delle cantine in questo palazzo?”

Il custode, ormai in balìa di quello sguardo magnetico balbettò un flebile sì e subito il viso di Osvaldo Mor si aprì in un sorriso rassicurante che distese anche lui.

Il giovane si sentì allora come sollevato, tanto che si stupì quando anche le sue labbra pronunciarono un identico sorriso.

“Bene, allora il mistero è svelato” lo incalzò Osvaldo Mor “non ci resta che scendere a vederle” sentenziò davanti al volto sbalordito del custode.

“Suppongo che si vada per di qui” aggiunse indicando la porta arrugginita davanti alla quale stavano parlando.

Scendendo le scale sentì di nuovo quel desiderio, lo stesso che lo aveva fatto svegliare all’alba e percorrere buona parte delle strade della città, portandolo dall’uscio della sua stanza in periferia fino a quella cantina.

“Vede, è come una musica” disse precedendo il custode nella discesa, “comincia come una melodia accennata. Poi si aggiungono gli altri strumenti e si trasforma in una marcia. Suppongo che lei abbia qualche nozione di musica.”

Il custode balbettò un altro flebile sì. “Composizione” aggiunse poi, “studio, o meglio studiavo, al conservatorio” riuscì a dire, e subito la sua voce si spezzò bruscamente e il giovane provò un profondo e inspiegabile imbarazzo.

“Per un orfano non deve essere semplice mantenersi” sussurrò procedendo davanti a lui Osvaldo Mor “ma mi creda e mi lasci esprimere la mia più viva ammirazione per i suoi vestiti: sono di una fattura straordinaria.”

“Mia madre” disse il custode “me ne manda uno ogni sei mesi” e nel finire la frase si rattristò così tanto che quasi non fece caso al fatto che quell’individuo sapesse così tanto della sua vita.

Quando si rese conto della stranezza era ormai troppo tardi.

“Certo, sua madre” gli fece eco Osvaldo Mor e, arrivato all’ultimo gradino della scala di pietra, procedette sicuro davanti a sé, fino al centro delle cantine.

“Eccoci qui” disse attirando l’attenzione del giovane: molte porte, simili a quella che avevano lasciato alle loro spalle, li circondavano incastonate nelle pietre dei muri, qua e là ricoperti di muschio.

Il ragazzo non sapeva più come comportarsi e le sue parole sembravano non avere nessun effetto: l’uomo sembrava perso nei propri pensieri, andava avanti e indietro con piccoli passi rapidi e,

tenendo i palmi delle mani aperti e rivolti verso il terreno, saggiava la terra battuta. D’improvviso l’aria venne scossa da una nota grave.

“Qui!” disse Osvaldo Mor con voce cavernosa.

Il timbro di quella voce aveva qualcosa di straordinariamente attraente, era umile ma allo stesso tempo molto autorevole.

Gli occhi del custode che avevano ormai conosciuto tutti gli stadi dello stupore e della paura, stavano puntati su di lui, sfiniti dalla stanchezza e dalla curiosità.

Osvaldo Mor era al centro della cantina con i piedi uniti puntati su uno spiazzo di terra e prima che l’altro potesse aprire bocca, la sua voce gentile irruppe di nuovo nel silenzio.

“Ha per caso una pala?”

Passarono venti minuti a scavare, scambiandosi la pala e sudando. Quando era il custode a scavare, Osvaldo Mor lo aiutava con le mani, accumulando ai lati della buca la terra calda e soffice.

Quando era Osvaldo Mor a sferrare i colpi, il custode, disorientato, si asciugava il collo con il fazzoletto e si guardava intorno chiedendosi se stesse capitando proprio a lui.

A ogni palata di terra che smuoveva il viso di Osvaldo Mor era un po’ più eccitato. Da sotto la fronte imperlata di sudore, il suo sorriso indecifrabile brillava nella penombra della cantina.

Con le mani e le unghie ricoperte di terra scura porse la pala al giovane che senza fare più domande riprese a scavare.

Toccò a lui l’ultimo colpo: quando il ferro della pala batté nel terreno un rumore secco riecheggiò.

Osvaldo Mor, ormai soddisfatto, lasciò al custode il privilegio di chinarsi e togliere il poco terriccio rimasto a coprire il coperchio del baule.

Quando, dopo aver forzato la serratura, gli occhi dei due uomini si posarono sull’orologio da tavola d’oro massiccio, la sorpresa del custode fu seconda soltanto alla delusione di Osvaldo Mor.

L’uomo non riusciva a spiegarsi molte cose, ma più di tutte non capiva come mai quell’individuo bizzarro fosse rimasto così poco coinvolto da un’impresa che ai suoi occhi aveva dello straordinario.

Anzi, ciondolava stancamente, le mani nelle mani, fissando il lugubre spazio intorno a sé.

Ciò che lo lasciò letteralmente a bocca aperta fu il saluto fugace di Osvaldo Mor che nel lasciargli in dono l’orologio di inestimabile valore,

lo ringraziò garbatamente con quelle parole misteriose: “un notevole oggetto, ma non è quello che cercavo”.


Trieste, 1950

 

Quella mattina l’alba arrivò dal mare e toccò per primo il molo Audace che come una lingua fredda sbeffeggiava il mare sfidando la tempesta.

La bora aveva già fatto molte vittime in città, in piazza Unità d’Italia una seggiola di paglia veniva trascinata qua e là a colpi secchi e i pochi caffè all’aperto stavano ritirando gli ultimi tavolini.

Sulla riva, i pescatori erano fuggiti con il piccolo bottino sottobraccio e il porto era ormai deserto.

Il sole era già un punto pallido all’orizzonte, ma l’intera città si era rinchiusa dentro bar e palazzi come fosse calata la notte.

Osvaldo Mor, stretto nell’impermeabile grigio, attraversò la piazza con il busto proteso in avanti per controbilanciare la spinta del vento.

Trieste a quell’ora della mattina era ammantata di una strana luce, i palazzi del Lloyd Triestino e quello della Borsa sembravano giganti arcigni ed erano tra le poche costruzioni in grado di deviare il corso del vento.

Osvaldo Mor proseguì sicuro e si mise in cerca della stretta Via del Seminario, quando la individuò cominciò ad arrampicarsi per la ripida mattonata.

Una volta giunto sotto la basilica di San Silvestro, trovò la torre campanaria ad attenderlo, immobile dal momento in cui era stata costruita, nove secoli prima.

Salì ancora le due rampe della scalinata e una volta arrivato in cima attese sul sagrato. Il suono arrivò puntuale, le campane batterono otto colpi che si persero nei vicoli intorno alla chiesa.

Sulla collina deserta, il vento tornò a sibilare aumentando di intensità.

Tenendo la mano sul bavero dell’impermeabile e stringendo nell’altra l’ombrello, spinse il portone di legno ed entrò.

Il parroco era un uomo slanciato, chiuso in una lunga tunica scura. I capelli nerissimi formavano un semicerchio che abbracciava una fronte sporgente simile a una piazza e segnata da decine di piccole rughe parallele.

Gli occhi vispi e d’un azzurro profondo rimasero incantati alla vista di quel pellegrino che aveva sfidato la bora per presenziare alla funzione.

Osvaldo Mor era l’unico individuo in chiesa eccetto che per una vecchia che non gli prestò alcuna attenzione, intenta a sgranare il rosario nell’ultima fila della navata.

Rimase in silenzio per tutta la messa e, sotto lo sguardo vigile del parroco, osservava con grande interesse la donna recitare a memoria ogni singola parola dei canti.

Accarezzava le lettere, sussurrandole appena come se le pronunciasse per un interlocutore invisibile vicino a lei.

La seguì con lo sguardo quando lasciò le panche per andare a prendere l’eucarestia e non le tolse gli occhi di dosso fino a quando non tornò a inginocchiarsi per raccogliersi in preghiera.

Alla fine della funzione la vecchia lasciò cadere qualche spicciolo nella cassetta delle offerte, si fece il segno della croce e uscì.

Osvaldo Mor prontamente la seguì.

Non fu facile e l’inseguimento durò parecchi minuti, la vecchia si trascinava per i vicoli in salita intorno alla chiesa e, una volta arrivata davanti all’uscio, si voltò di scatto con uno sguardo di rimprovero.

La sua tensione però si sciolse all’istante nel vedere quegli occhi fissi e indecifrabili.

Quando l’uomo, poi, estrasse dalla tasca il rosario della vecchia, i tratti del suo viso rugoso si distesero e, per un breve momento che non sfuggì a Osvaldo Mor, ritornò ragazza.

Grata a quell’individuo così gentile e premuroso, ruppe ogni indugio e lo invitò in casa per una tazza di caffè caldo.

“Perdonatemi l’ardire” disse l’ospite tenendo la tazzina in mano “ma molto tempo fa, mi fu raccontato di una donna le cui mani avevano il dono divino di trasformare stoffe e pelli di ogni tipo in capi di straordinaria bellezza.”

La vecchia, non senza una punta di orgoglio, scrutò il viso di Osvaldo Mor con sospetto, per esserne poi catturata ancora una volta da quegli occhi profondi.

“Io vengo da molto lontano e ho ancora un lungo viaggio davanti” proseguì “ma non credo che sia stato un caso che all’alba, il vento di questa città mi abbia portato fino a qui.”

Posata la tazzina, la donna ritrovò il suo sguardo indagatore e si rivolse all’estraneo.

“Chi è lei, e cosa vuole?”

“Vedete, voi siete una persona devota e molto prudente, per questo non vi mentirò e vi confesserò ciò che mi ha mosso” Osvaldo Mor usò la pausa dopo quelle parole per prendere un ultimo sorso di caffè e socchiudere gli occhi.

“Per lunghe ore la notte scorsa ho immaginato di incontrarvi e di chiedervi ragione del dubbio che si è insinuato in me da quando arrivai in questa città.”

La donna, sconcertata, sentì un tuffo al cuore, ma né in quel momento, né durante tutto il corso di quella strana conversazione, fu in grado di stabilire con certezza se ciò che provava era paura o liberazione.

“Sono molti anni che siete vedova ormai, non è vero?”

Proseguì guardandola dritta nelle pupille. Questa annuì. “E correggetemi se sbaglio, ma vostro marito non fece più ritorno da Belgrado.”

Al suono di quelle parole, la vecchia impallidì e si dovette tenere al bordo del tavolo.

Le sembrò di provare una vertigine infinita e si sentì sprofondare sempre più giù in chissà quale luogo, quando Osvaldo Mor pronunciò le parole che la fecero definitivamente trasalire.

“Posso assicurarvi che i capi che avete creato per lui sono certamente di straordinaria bellezza, ma uno mi interessa, più di ogni altro. Avete ancora gli ultimi vestiti di vostro marito, non è vero?”

La vecchia, tremante, rispose che non aveva più nulla e che l’unico ricordo era fuggito dalla sua mente molti anni prima.

Balbettava e, nonostante fosse impaurita dall’uomo, provava per quella presenza estranea un’attrazione inspiegabile.

“Io credo che nella cassapanca ci possa essere la risposta alle domande comuni che da tempo ci portiamo dietro”

La donna, come in trance, si voltò di scatto verso la camera; ai piedi del letto una massiccia cassapanca di mogano era coperta da un centrino ricamato a mano.

Tornò ad affidare i suoi occhi a quelli di Osvaldo Mor che, dolcemente, fece cenno di sì con la testa.

La vecchia allora si alzò e lentamente si avvicinò alla cassapanca.

Fu questione di un attimo e lunghe lacrime calde le percorsero il viso al vedere i vestiti del marito riposti con cura all’interno della cassapanca.

Li tirò fuori con delicatezza e uno dopo l’altro li stese sul letto, lisciandone la stoffa con le mani.

Osvaldo Mor, in piedi sull’uscio della stanza osservava con attenzione ogni singolo capo fino a che la cassapanca non fu vuota e il suo viso si velò di un leggero disappunto.

La donna, con occhi sognanti alzò lo sguardo verso Osvaldo Mor, la sua sagoma sembrava adesso imperiosa. Era una figura imponente ma in qualche modo rassicurante.

“La sofferenza ci sembra estranea solo fino a quando non la comprendiamo” disse infine Osvaldo Mor.

Si allacciò l’ultimo bottone dell’impermeabile, mise l’ombrello sotto braccio e uscì.

 

Belgrado, 1935

 

Questa volta, la passeggiata di Osvaldo Mor fu lunga e pensierosa. Sotto un cielo color lavanda spingeva le suole logore delle scarpe per le vie del parco Kalemegdan,

alla sua destra il Danubio cullava il muschio attaccato ai grandi blocchi di granito dei moli.

Arrivato in centro attraversò Trg Republike d’un fiato e s’infilò nella prima via che portava verso sud.

Camminò a lungo per le vie del quartiere di Skadarska, le braci dei ristoranti erano già rosse, pronte per cuocere la carne.

L’acciottolato era così consumato che quasi ci si poteva specchiare e il profumo che veniva dalle cucine lo convinse che era ora di pranzo.

Fece ancora qualche passo come in attesa, e di colpo si fermò a metà della discesa, sotto all’insegna dell’osteria Šešir Moj.

Il cameriere spianò la tovaglia davanti a lui e sistemò il piccolo cestino con i fiori freschi al centro del tavolo. Ritornò poco dopo con l’olio, il sale e l’aceto, e un menu.

Osvaldo Mor mise il palmo della mano sul menu chiuso e disse al cameriere “Avete un’ottima carne di agnello, non è vero?”

Il cameriere, impettito, gli rispose che era una delle specialità che rendevano noto il ristorante in tutta Belgrado.

“Immaginavo, aggiunga un quarto di vino rosso e mi farà felice.”

Durante quella breve conversazione lo sguardo di Osvaldo Mor non aveva lasciato il piccolo orologio circolare che portava al polso. Quando le lancette arrivarono a segnare l’una si distese sulla sedia, allungò le gambe e attese.

Poco dopo un altro cameriere tolse il cartellino con la scritta reserve sul tavolo davanti a lui e fece accomodare un signore trafelato.

L’uomo era ben vestito ma aveva un aspetto poco curato, indossava un completo marrone scuro, portava la cravatta allentata e la camicia che fuoriusciva dai pantaloni.

In mano stringeva una valigia di pelle all’apparenza piuttosto pesante.

Si sedette, infilò i pollici dietro alle bretelle e riprese fiato.

Il ristorante si stava riempiendo, ma l’uomo noncurante del viavai si mise a studiare l’anello d’oro che si era sfilato dal dito, tirò fuori un taccuino e scarabocchiò qualcosa.

Alla fine tirò una riga e stette molto tempo a ragionare tenendosi la testa tra le mani. Poi, con aria di sconfitta ripose tutto nella borsa e chiamò il cameriere.

Ordinò ćevapčići alla piastra e un bicchiere di vino. Ingoiò le piccole salsicce una dopo l’altra senza quasi respirare e alla fine trangugiò il vino d’un fiato.

Osvaldo Mor era estasiato e, seppur con discrezione, guardava quell’uomo insistentemente.

Finito il pranzo l’individuo si sistemò la camicia e si ravviò i capelli con le mani, frugò nella borsa e ne estrasse del tabacco.

Rimase a fumare due sigarette lasciando il tempo scorrere con noncuranza fino a quando spento l’ultimo mozzicone fece un cenno al cameriere per chiedere il conto.

Osvaldo Mor, prontamente, fece lo stesso.

Lasciati gli spiccioli sul tavolo, l’uomo ripose il tabacco nella borsa e ne fece uscire un cappello nero, lo posò sul tavolo e si alzò.

Il viso di Osvaldo Mor si distese e, alla vista del cappello, un largo e profondo sorriso apparve sul suo volto compiaciuto.

Fece appena in tempo a vederlo chiudere i bottoni della giacca e avviarsi per la discesa.

Per come camminava pareva in preda al delirio e assomigliava a un animale in trappola. Sembrava imboccare le vie più per mancanza di alternative che per vera decisione.

La sua persona, piccola e sperduta emanava un senso di solitudine e disperazione che colpì Osvaldo Mor.

Camminava veloce, ma i suoi piedi non parevano capaci di guidarlo in nessun luogo, sembrava immobile e lontano da tutto.

Osvaldo Mor lo seguì fino al limitare del quartiere, quando quest’ultimo s’incamminò verso la periferia e il lungo fiume, ebbe un attimo di esitazione.

L’oggetto del suo desiderio era a un passo, poco davanti a lui, eppure, egli si fermò, stanco.

Sotto i tigli in fiore, nella calda luce del pomeriggio, un pensiero potente giunse a risolvere la sua indecisione. Non si può sapere tutto e ogni uomo deve conoscere la propria strada, da solo.

Ogni anno, da quando ne aveva memoria, intorno alla fine del mese di settembre, Osvaldo Mor veniva preso da una forte febbre.

Durava in genere non più di due o tre giorni e ogni volta portava con sé sogni molto cupi e talvolta visioni.

Erano notti faticose ma purificatrici e spesso usciva da quelle febbri con una comprensione più profonda della realtà che lo circondava.

Per tutto il pomeriggio un senso d’inquietudine pervase le gambe di Osvaldo Mor. Vagò per la città fino a sfinirsi, perdendo di vista ogni cosa e quando, ormai al tramonto, ritornò tra la gente, si ritrovò al punto di partenza.

Il fiume correva, sempre nella stessa direzione, increspandosi qua e là contagiato dal passare dei battelli lontani.

I lampioni accesi, in fila sulla riva, punteggiavano il molo come fioche stelle. Osvaldo Mor si sedette vicino all’approdo e rimase a contemplare lo spettacolo.

Stette a lungo a studiare l’imponderabile movimento dell’acqua che rifletteva quello altrettanto oscuro delle nuvole in cielo, fino a che un’onda più lunga delle altre non sospinse fino a lui un cappello di feltro nero.

Osvaldo Mor non fece altro che allungare la mano e trarre in salvo il naufrago tanto atteso. Lo sbatté un paio di volte contro il ginocchio e finalmente lo indossò.

“È bizzarro come quando perdiamo qualcosa, che sia un pensiero o un oggetto, quello se ne vada in giro per il mondo quasi divertendosi a giocare a nascondino con noi.

Per poi, d’improvviso, trovarci lui, ormai stanchi e rassegnati, sulla via di casa.”

 


 

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