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Mercoledì, 20 Maggio 2009

Grande e' la confusione sotto il cielo: Urumqui.

Raccontare un viaggio è come farlo una seconda volta. Nonostante manchino le sensazioni immediate, i ricordi hanno l'indubbio privilegio di un percorso più intimo, che ha già scelto i segni di un passaggio fuori dalla quotidianità.

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LATO A

Raccontare un viaggio è come farlo una seconda volta. Nonostante manchino le sensazioni immediate, i ricordi hanno l'indubbio privilegio di un percorso più intimo, che ha già scelto i segni di un passaggio fuori dalla quotidianità. I due poli dell'immaginario che, a distanza di tempo, raccontano la mia idea dell'Asia Centrale sono Urumqui e Kashgar. I lati A e B del mio viaggio.


Quando sono arrivata a Pechino sapevo che per iniziare il mio viaggio sarei dovuta tornare indietro. Ripercorrere al contrario uno spazio ancora sconosciuto, cambiare di nuovo la posizione delle lancette. In quella bolla ad aria condizionata che sono gli aeroporti, un enorme timer marcava l'attesa al grande evento: mancavano due anni alle Olimpiadi e l'Impero di Mezzo pulsava di una frenesia che pareva vivificarlo.

A tremila kilometri di distanza sta Urumqui, l'illuminata. La capitale di una repubblica autonoma, islamica, frutto di un'assimilazione forzata made in China.

Durante il viaggio da Pechino, ho modo di vedere dall'alto le sterminate distese del deserto di Lop Nur. Qui, dove un tempo si snodavano le carovaniere che percorrevano la via della seta, il governo cinese ha praticato per anni esperimenti atomici. Il risultato è un paesaggio lunare, altro.

Nel 1949 lo stato Uighur è stato ufficialmente inglobato dalla repubblica cinese e ne è diventato un avamposto strategico. Autonomo, come può esserlo un suddito ospitato nella reggia di chi comanda. I cinesi lo chiamano Xinjiang, nuova frontiera, nomen omen. Se invece chiedi a un uighuro dove abita, lui ti risponde: Turkestan Orientale. Sembra solo un altro nome, e invece è uno strascico di nostalgia verso un passato in cui questo territorio era congiunto, per etnia e tradizioni, al mondo turco dell'Asia Centrale.

Urumqui è l'Asia che non vorresti vedere: un'amalgama di modernità e decadenza precoce. Qualcosa di familiare ed estraneo allo stesso tempo. La sensazione è di essere in un flipper volutamente fuori misura.

Appena entrata nell'hotel assisto a una curiosa sfilata: una giovane sposa dai tratti han, con ampio vestito bianco, coroncina e bouquet, cammina nell'hall a braccetto con la damigella. Vista l'ora, la cerimonia sarà finita e anche lei, come me, starà pensando ai passi che mancano per riposare un po'. Chiudere gli occhi e realizzare quanto appena accaduto: un matrimonio, un inizio di viaggio.

Urumqui è la città al mondo più lontana dal mare. Una fluorescenza circondata dal deserto; ogni giorno alle nove di mattina decine di uomini e donne spazzano la sabbia che si ammucchia ai lati delle strade. Anche col vento che gliela spinge di nuovo tra i piedi, li vedi nelle loro tute e mascherine bianche, impegnati in un gesto che sembra un rituale.

Accanto alle arterie asfaltate, inoltrandosi nei vicoli, si vede un'anima vecchia ammucchiata su se stessa, fatta di case in terra cruda a un piano, e pali della luce sbilenchi che scandiscono il cielo.

A cerniera di questi due modi di città ci sono dei termitai larghi e alti, lascito di un'urbanistica di stampo sovietico che qui, terra di frontiere, è penetrata per osmosi.

Girare da soli in un paese nuovo, spesso mette nelle condizioni di fare incontri interessanti.



"Sprechen Sie Deutsch?" A chiedermelo è un ragazzo uighuro, di fronte all'università. Ha i tratti marcati, nettamente centroasiatici e veste con uno stile che imparerò presto a riconoscere come locale: dei pantaloni scuri tenuti alti in vita, una camicia chiara e dei mocassini. Un'eleganza discreta, condivisa da tutte le fasce d'età, comune a qualunque lavoro o ruolo si abbia. "Do you speak English?" insiste. Mi chiede se voglio che sia la mia guida. Accetto. Ha studiato all'Università di Urumqui, tedesco e inglese, e sogna di poter partire per andarsene da quella che definisce una dittatura silenziosa. Mi chiede se ho mai sentito parlare del Fronte di Liberazione Nazionale Uighuro, delle loro rivendicazioni, dei loro attentati. Rispondo che ne so poco, ed è una mezza bugia. Voglio sia lui a raccontare. Da quando il Turkestan è entrato nell'orbita politica cinese molte cose sono cambiate per gli uighuri: all'inizio erano la quasi totalità della popolazione, poi il governo centrale ha deciso di incentivare la penetrazione cinese nella regione, con il programma "Go West". Pechino stabilì che se un cittadino cinese si fosse stabilizzato nel Xinjiang avrebbe avuto la garanzia di una casa e di un lavoro. La teoria dei vasi comunicanti funzionò e, come una bustina di tè lasciata in infusione, la popolazione cinese iniziò a espandersi sul territorio. La mia guida mi racconta che quando era bambino qualunque cartello per strada era bilingue, ma l'uighuro era scritto sempre per primo e solo sotto c'era la traduzione in cinese, una formalità linguistica. Ora è il contrario. Ovunque si guardi le diciture in cinese sono ipertrofiche e la scritta in uighuro se ne sta, minuscola, ai margini.

La popolazione cinese a Urumqui, infatti, è passata in meno di un ventennio dal tre al novanta per cento.

Camminando, nel frattempo, siamo arrivati di fronte alla moschea. Se non me l'avesse detto, avrei pensato si trattasse di una pagoda, perché è così che appare dall'esterno. L'Islam, che qui da secoli aveva una fisionomia meno dogmatica e rigida, sta mantenendo a fatica i propri luoghi di culto. Da qualche anno la vecchia pagoda è diventata una moschea; il richiamo del muezzin esce dalle travi di legno laccate di rosso, con piccole statue di draghi in equilibrio sul tetto.

Arriviamo al bazar e, a lato dell'entrata principale, tre uomini stanno seduti dietro un banchetto striminzito, sovrastato da un pesante scampolo di stoffa. Vendono succo di melograno e lo servono in stretti bicchieri di vetro, decorati con lettere cufiche. Lettere dell'alfabeto arabo che cedono all'arte e si fanno decorazione.



In un angolo, accanto a un venditore di meloni, c'è una donna che vende stoffe di seta, lavorate al telaio. Ha dei capelli lunghissimi, raccolti in due trecce, che pendono ai lati del viso. Sulla testa, un cappello di velluto scuro, ricolmo di ricami e specchietti incastonati. Le stoffe hanno i motivi tipici della tradizione uighura. I colori si rincorrono in infinite sfumature, con delle geometrie scure che li sovrastano. Dietro il suo banco si intravede un'uscita: una pietraia fervente di attività, nonostante il sole non lasci scampo. Barbecue rudimentali cuociono spiedini di agnello, il piatto tipico uighuro, l'odore del grasso che sfrigola riempie l'aria. Ceste stracolme di pani tondi e sottili, albicocche e uva. L'uva dell'oasi di Turfan, a sud est rispetto a Urumqui. La migliore della regione.


Il caldo sembra rubare tempo e energie, così capita spesso di vedere, fuori dalle case in terra battuta, uomini stesi su un fianco sopra un letto-panca. Una sequenza più o meno consistente di tappeti fa da materasso. Sonnecchiano, chiacchierano, mangiano frutta e bevono tè. Dalle porte, lasciate socchiuse, si intravedono i cortili interni su cui si affacciano le varie stanze delle case. Il verde delle viti e l'ocra della terra battuta, sono i colori che mi vengono in mente quando saluto la guida. Di fronte a noi c'è un'edicola, stipata all'inverosimile. Un uomo, tratti han, riposa nel suo negozio e, supino, lo occupa per intero. A fargli da sentinella delle pentole, un fornelletto e un thermos.


(se volete continuare il viaggio, inserire il lato B.)


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