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Martedì, 25 Novembre 2014

A spasso lungo 3.000 km e centinaia di visi: da Porto a Marrakech

Questo è il racconto del mio secondo viaggio in "solitaria" da Porto a Marrakech lungo 3.000 km e centinaia di visi incontrati.

ARTICOLO DI

GirovagoBlog

Una nuova cicatrice alla quale ho voluto dare una forma, un’idea fatta di inchiostro a china di colore nero riepilogo di un nuovo capitolo appena scritto. Una cicatrice sulla pelle con duplice faccia: chi vuol partire senza ritornare e chi torna ogni volta con la voglia di ripartire. Attraccato alle proprie origini e sempre ponto a mollare gli ormeggi. Marinaio di strada. Vagabondo nell’animo. Rintontito dal risveglio di soprassalto nel bel mezzo della notte cercando di mettere a fuoco immagini scolorite di un’altra stanza, corpi distesi su letti a castello e un accappatoio appeso ad asciugare. Complice delle proprie paure che ti tengono sveglio di notte e vivo di giorno. Compagno di avventura delle mille inquietudini e di un’assordante impazienza. Sguardi scaltri e maliziosi di esperienze di crisalide pronte ad abbandonare il proprio involucro per spiegare le loro gambe e macinare quelle strade fatte di ciottoli, asfalto e sabbia. Un altro viaggio, un altro percorso. Ecco! Questo è l’inizio di un altro stato d’animo. Quello stato d’animo rapito e forgiato da ripide scogliere portoghesi, roventi vicoli dorati andalusi e gremiti souk magrebini. Ci siamo! Ascolto della musica figlia di una playlist casuale per darmi carica, ante socchiuse a creare una radiosa frescura lontana dal caldo milanese e comincio a mettere in ordine sul letto, come pensieri stesi al sole nei vicoli della mia Napoli, pezzi della normalità fatta di t-shirt, pantaloncini, calze e scarponi. Tutti gli elementi che come file ordinate di soldatini di piombo, di ritorno da una battaglia tra logico e razionale e ad ogni tappa sporchi di esperienza, sono pronti a prendere posto in uno zaino. Fedele compagno di viaggio da 90 litri nelle vesti di un abile setaccio per filtrare tutto ciò di cui ho bisogno: quello che resta fuori non è meno importante, semplicemente al momento non è parte della mia vita. Per dirla alla Chris McCandless ( alias Alex Supertramp) “un uomo dovrebbe possedere solo ciò che riesce a trasportare in uno zaino a passo di corsa“. E di cose lasciate fuori, stavolta, ce ne sono. Ci risiamo! Il fatidico incontro con quello zaino è un po’ come quell’appuntamento tanto atteso con la tua donna. La tua “piccerella”. Stai attento a pesare parole, gesti e toni. Ogni volta come se fosse la prima. Poi un tonfo allo stomaco come una pallonata sui muri tra le strade del tuo quartiere.

Un colpo sordo per ricordarti di stare sveglio e attento. Per ricordarti di portare nello zaino anche le raccomandazioni di Papà fatte di parole abili, decise e “Uagliò…occhi aperti” e le preoccupazioni di Mamma tenute nascoste da una voce che vuole sembrare sicura, tradita da un leggero tremolio delle labbra al suon di “Tesò a Mamma…fai tanti video”. << Ok Mà, Ok Pà>> è l’unica cosa che so dire per rassicurare loro e dare conforto a me stesso. Mille altre mi passano per la testa. Un impulso per cominciare un altro viaggio in solitaria.

Scaccio via dalla mente, come fastidiose zanzare, visi spenti e corpi fermi di chi all’affermazione “Parto da solo” assapora con invidia un certo senso di libertà nelle mie parole o semplicemente si arrampica su luoghi comuni per poterti dare dello sfigato. <<Da solo?>> mi si chiede, <<Sì, da solo>> rispondo sorridendo con gli occhi. Un’affermazione che, come bollicine di coca-cola fredda, sale su per il naso porgendomi una buona scusa per lasciar lacrimare gli occhi.

In mano un biglietto di sola andata per Lisbona. Quel biglietto che, nel mentre mi dirigo al gate, guardo e rigiro. Quel pezzo di carta che riporta a caratteri cubitali e codici a barre l’inizio di un’altra avventura. Quel foglietto che mi tiene compagnia nella sala di attesa riposto in un passaporto insieme a visti e timbri di nazioni e paesi sparsi nel globo.

Qualche ora di volo e sono all’estremità sudoccidentale dell’Europa. Con una penna e untaccuino, fidati cronisti di vita in viaggio, appunto note, fermate metro e orari del bus. Come note musicali su un pentagramma, si posano tra le righe gocce di inchiostro fatti di nomi e visi di questo nuovo atto. Nei discorsi sulla filosofia, scelte di vita e cambi di rotta con il barman Elliot e il professore di matematica Ryan seduti nella lounge room del Lisbon Poets Hostel con i gomiti poggiati su un tavolo di noce scuro. Scuro come il vetro degli shot di Ginjinha che teniamo tra le dita cercando di trovare riposte e incoraggiamento nell’aroma a base di amarena. Nelle spensierate ore passate a Porto tra i vicoli in pendenza, ponti in acciaio e parchi all’ombra con i due innamorati e attori di teatro Sepan e Margaux sorseggiando una blanca. Nella complicità del calciatore Naz per realizzare, di nascosto, riprese video nella libreria che ha ispirato il bestseller Harry Potter. Nella voglia e nel gusto di pasta al pomodoro al sapore di casa cucinata allo Sky Hostel di Porto e condivisa con tutte le nazioni del Globo. Nella goliardia del grafico Daniel e la professoressa Yolanda a spasso tra le tascas del quartiere Bairro Alto. Nella malinconiche e solitarie lacrime di pioggia sul Parque Nacional da Paneda-Geres. Nelle note strimpellate di una vecchia chitarra che l’artista Lew mi cede per accompagnarlo in un duetto con fisarmonica nel vecchio quartiere arabo di Alfama. Nella rimpatriata al sapore di vodka, tequila, rhum e ghiaccio con le vagabonde Mara, Mela e Simo. Negli aromi e nei gusti delle Pasteis de Belem assaporate a suon di musica di strada e lezioni di italiano-portoghese con il controllore di volo Tiago e la curatrice dell’ostello Ines. Nel fragore delle onde che si scagliano sulle ripide pareti della Boca do Inferno di Cascais. Nello schiamazzo dei gabbiani che si librano in volo sulle scogliere di Estoril. Nelle gocce di sudore che, come cocci di vetro sull’asfalto, diffondono di luce il mio viso abbrustolito dal Sole. Nella fatica e nel senso di completezza dei 25 Km percorsi a piedi fino Cabo da Roca e con un soffio di voce leggere su una targa in marmo: Aqui…onde a Terra se acaba e o Mar comeca. Nella soddisfazione di aver raggiunto con la sola energia delle gambe e della testa il punto più a ovest dell’Europa contro i consigli di passanti ed autisti di bus che quasi mi ridevano in faccia e mi imploravano di lasciar perdere l’idea di andarci a piedi. Nella realizzazione che se non ci credi prima tu nelle cose che abbracci e nelle passioni di cui ti vesti, perché dovrebbero farlo gli altri?

Noleggio una bici da cross alla bottega dei surfisti dove anche il bulldog francese che mi fissa alla porta sembra indossare un costume billabong, un paio di vans alle zampe e occhiali blu tassativamente specchiati. La bike ha un telaio aggressivo, ruote grosse da enduro e un nome tosto come Saracen. Come deluderla? Il marchio è quello di una mtb ad uso discesistico ragion per cui vado dritto sulle ripide scogliere di Lagos nell’Algarve (costa Sud del Portogallo) per testarla a dovere mentre turisti e surfisti si godono le spiagge che si tuffano nell’Atlantico. Avrò tempo per rilassarmi cinque minuti con i piedi a mollo nell’acqua gelida. Gelo che ti arriva fin dentro le tempie come i mojito sorseggiati nel tardo pomeriggio tra le tortuose stradine del bianco centro storico con Benedetta e Silvia, che hanno mollato tutto in Italia e sono a spasso per l’Europa.

Adoro lo stato d’animo che mi tiene compagnia lungo questo viaggio, tra le infinite segnaletiche. Ti fermi ad un bar, ordini una blanca, prendi la tua fedele biro e sulla mappa tracci il prossimo posto. Decido così, tra una sferzata di vento dall’Atlantico e il sapore di iodio che si poggia sul boccale di birra, ti salutare il Portogallo e indirizzare le vele verso Sevilla, la capitale andalusa.

<<Ma sei pazzo? A Siviglia ad Agosto?>>. Eh sì! Sono le domande che mi rimbombano 

nella testa e mi si materializzano davanti agli occhi su un display pubblicitario che riporta 48° alle 18:30 di un Venerdì 15 Agosto. I miei due backpack sembrano quasi aggrapparsi a me sfiniti dal caldo, mentre le gambe e le braccia implorano di trovare una qualsiasi scusa pur di sostare in un bar per godersi la frescura di un gazebo o la nuvola d’acqua di un nebulizzatore. Nel mentre i miei pensieri trovano posto all’ombra e fanno a botte con le informazioni stradali che cerco tra i passanti, giungo al Sevilla Hostel One Centro. Una poltrona sembra quasi invitarmi a provarla, una coca gelida salta fuori dal frigo e le pale di un ventilatore volteggiano come ammalianti danzatrici quasi ad ipnotizzarmi. Il tempo rallenta, i pensieri tornano sui loro passi e la ragazza della reception che mi parla e compila un registro capisce che in realtà fisicamente sono lì ma la testa è rimasta ancora all’ombra di qualche gazebo.

In uno schiocco di dita, sono protagonista del vivere al ritmo di lenti passi nei vicoletti dorati della più grande città dell’Andalusia. Tapas, vino e birra in compagnia del sognatore Diego che da anni desiderava nella sua piccola città della Patagonia un viaggio in giro per l’Europa. E ora è qui. Condivide con me quello che per anni è stato il suo regalo mai scartato sotto un albero di Natale. Fino ad ora. Ed io ne sono testimone. Un tinto de verano, un fritto misto di pesce e lunghi discorsi sulla vita di coppia, della sua donna e l’importanza dell’assecondare le proprie sensazioni. Comunicazione fatta di gesti e schemi disegnati in aria…lui non parla inglese né io spagnolo…ma neanche ho esperienza in merito alla vita di coppia. Allora giù un altro tinto de verano cercando di filtrare la realtà dai cubetti di ghiaccio anneriti dal vino per poi seguire a passo morbido un gruppo di ragazzi da ogni dove del Mondo. Ci si ritrova a girare per le stradine che costeggiano il fiume Guadalquivir e pranzare assieme, come vecchi amici, seduti ai tavoli vestiti di seta a scacchi nel quartiere dal viso popolare come Triana. Chiacchiero con la #sempreinviaggio Loreley la quale se mettesse per ogni nazione toccata una spilletta sul suo zaino, così come faccio io, non avrebbe neanche più spazio per le fibbie.

Il filo logico di un viaggio fatto di animi vaganti che quasi si riconoscono al primo sguardo, si sorridono con un cenno di smorfia e trovano complicità all’ennesimo stazionamento dei bus al tonfo di uno zaino lasciato cadere a terra per la stanchezza. Coinquilini del Mondo per i quali la convivenza in camerate miste e la lettura di una guida seduti nella lounge room sono coraggiosi soldati di fanteria per aprire un varco nella comunicazione. Intese che non conoscono differenze nei colori della pelle, nei tagli dei vestiti e nelle copertine dei passaporti. Intese che trovano facili accordi davanti ad un panino al tonno grigliato seduti al bancone di un piccolo bar francese nella punta più a Sud dell’Europa. Un sottobicchiere sudato di birra ed una matita per tracciare e raccontare un nuovo percorso come si fa per una pista di biglie sulla spiaggia di Tarifa. Dove, tra granelli di sabbia che il vento non smette di scagliarti addosso, ci finisce a gran voce un <<Hey, Cor>> e il suono di calici di vetro di vino bianco sulla terrazza del Pink House Hostel. Ci si trova seduti tra Oceano Atlantico e Mar Mediterraneo a fissare l’Africa di fronte a noi allo spegnersi del Sole mentre Lorely, Samantha e Stefan raccontano di cammini e viaggi portati a termine e di altri che ancora li aspettano. In uno di questi ci finisco io su un traghetto verso Tangier, nell’Africa Occidentale. Una donna anziana di nome Fatima cerca nei miei sguardi e nei miei sorrisi le mie origini. Sono il lasciapassare per un passaggio a Chefchaouen a bordo di una Mercedes dell’80 color cioccolato dai sedili in pelle al sapore di nicotina e con ammaccature che raccontano tra le più belle storie a spasso tra le tortuose strade che affrontano l’Atlas.

Catapultati in vicoletti gremiti di bazar, spezie colorate e una città completamente dipinta di blu. Inizio di un altro atto dove i miei protagonisti hanno tutti il loro biglietto da visita stampato su zaini logorati, barbe incolte e polpacci in fiamme come la pelle al Sole. Si aggiungono a noi Chris e Holly in un racconto lungo tre giorni tra Tajine di carne e verdure, trekking improvvisati, interminabili ore di jeep, un salto nel deserto e una notte sotto le stelle in un accampamento berbero. Una chiacchierata al sapore di thè alla menta con Stefania, una volontaria in libera uscita dalla sua missione al confine con l’Algeria. Quanto è fresca e soffice la sabbia del Sahara alle 5:30 del mattino? Mi chiedo mentre ci sono seduto sopra e gli altri ancora dormono. Non posso non assecondare la mia curiosità, tipica di un bambino. Curiosità che, combinata con un pizzico di goliardia e un gruppo di ragazzi del posto, trascina me, James, Harry e Rory a tuffarci nelle cascate di Ouzoud.

Mi sento parte di questo luogo. Mi pare di esserci già stato o di averci sempre vissuto. Incoraggiato anche dai saluti dei venditori di spremute di arance, incantatori di serpenti e cuochi nei chioschi del souk di Marrakech. E forte della mia barba, accessorio da girovago che mi proclama, a detta dei locali, Ali-barba mi siedo ai tavoli di Djema El Fna per arricchire un altro capitolo di viaggio con le storie di Davide, un “ragazzino” in bici in giro per il Marocco.

Marinaio di strada. Vagabondo nell’animo. Rintontito dal risveglio di soprassalto nel bel 

mezzo della notte per saltare a bordo di un vecchio Mercedes color panna con sedili in pelle sapor tabacco tra le strade di Casablanca per versare su un taccuino gli ultimi versi di inchiostro. Inchiostro a china di colore nero testimone di intensi capitoli appena vissuti che, indelebili, si abbracciano alla tua pelle solcata dalle cinghie di uno zaino con i panni sporchi di fantastiche esperienze e centinaia di visi. Visi di uomini e donne che mi sorridono con post e messaggi a ricordarmi che sono partito da solo ma non ho mai viaggiato da solo.

Una sensazione che, come bollicine di coca-cola fredda, sale su per il naso porgendomi una buona scusa per lasciar lacrimare gli occhi all’affermazione un po’ beffarda <<Sì, da solo>>.

 


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