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Lunedì, 16 Settembre 2013

Una giornata speciale tra le comunità indigene del Chiapas

La TL Carolina e il sui gruppo decidono di passare una giornata tra le piccole comunità indigene intorno a San Cristobal...un'esperienza davvero emozionante!

ARTICOLO DI

ucisod

Siamo alla metà del nostro viaggio, cose belle ne abbiamo già viste ma non ne abbiamo abbastanza. Eravamo arrivati il giorno prima a San Cristobal de las Casas, un vero gioiellino in mezzo alle montagne del Chiapas, uno di quei posti di cui  è impossibile non innamorarsi. E quel giorno avevamo in programma una “gita fuori città”, un po’ diversa dalle altre, non saremmo andati a vedere paesaggi mozzafiato o mastodontiche rovine Maya ma la destinazione erano le piccole comunità indigene intorno a San Cristobal. Questi posti raccontano diverse storie: ci parlano di popolazioni maltrattate nel corso dei secoli che a un certo punto hanno detto basta e si sono proclamate autonome, chiudendosi in se stesse; ci parlano di religioni, credenze, culti che si sono mescolati con quelli dei conquistadores diventando poi una cosa unica; ci parlano di una vita semplice, fatta della divisione del lavoro tra uomini e donne, i primi si dedicano all’agricoltura, le donne invece ai bambini e all’artigianato. Ma andiamo con ordine. Molti di noi non avevano mai neanche sentito nominare Zapata e l’ELZN, non sapevamo delle lotte che avevano combattuto, contro chi e perché si erano sollevati. Ci raccontano che a un certo punto, nel 1994, gli indios, stanchi di essere poco considerati, trattati come cittadini di serie B, abitanti da sempre di un territorio ricchissimo di risorse ma allo stesso tempo il più povero del Messico, hanno deciso di occupare San Cristobal de las casas  e rivendicare i propri diritti. Si opponevano alla globalizzazione che lasciava loro sempre meno spazio, infatti un loro motto è Aqui estamos!, siamo ancora qui, guardateci, considerateci. Il loro portavoce era il subcomandante Marcos e si distinguevano da altri movimenti affini per la non violenza. Dopo due anni di trattative, nel 1996, vengono firmati gli accordi di San Andrés Larrainzar, secondo i quali il governo avrebbe dovuto modificare la costituzione inserendo il riconoscimento dei popoli e delle culture indigene, oltre a un'autonomia legislativa. Poco però è cambiato dalla firma degli accordi. La zona è molto controllata dai militari che spesso però si macchiano di crimini disdicevoli. La nostra visita parte proprio da San Andres Larrainzar, scendiamo dal pulmino nella piazza centrale, ci sentiamo gli occhi addosso, ci guardano come degli alieni scesi da un’astronave. Abbiamo lo stesso aspetto del nemico, veniamo da quel mondo globalizzato che li declassa, turisti non se ne vedono tanti da queste parti. Si respira aria di paese, uomini e bambini seduti in piazza in attesa del niente. Da una parte della piazza i resti di una scuola  bruciata, ci spiegano che era stata costruita dal governo ma che gli indios non l’avevano accettata, i loro bambini li istruiscono loro. Il nostro autista chiede il permesso di farci entrare nella chiesa, ci concedono il permesso, entriamo in punta di piedi: profumo di incenso, donne sedute per terra che canticchiano e accendono candele, uomini in abiti tradizionali che spolverano e puliscono le statue dei santi con dei movimenti simili a delle carezze. Siamo arrivati nel momento in cui facevano il rito della pulizia della chiesa, solo gli uomini importanti hanno l’onore di parteciparvi. E noi eravamo lì, presi da questo momento mistico. Accarezzo la macchinetta fotografica dentro la borsa, niente foto! Gli indigeni credono che gli scatti li rubino l’anima. Ho visto molte chiese in giro per il mondo ma le statue dei santi che ci sono lì sono diverse da qualsiasi altra vista in precedenza: sembrano delle caricature, i volti sembrano ricoperti di cerone, al collo hanno degli specchi per respingere il male. Quando passiamo veniamo squadrati ma già ci siamo abituati ai loro sguardi. Siamo comunque grati di aver avuto il permesso di entrare. Usciamo in silenzio religioso. Ci dirigiamo ad Aldama, una comunità Caracol, dove a dettare legge sono gli abitanti, lì il “popolo comanda e il governo obbedisce”. Ci portano in una cooperativa tessile, la prima nella zona ma è ancora un esperimento. Veniamo accolti con un sorriso dal padrone di casa e dalle artigiane: tessere è un lavoro da donne. Presto si siedono per terra e tornano al loro lavoro. Si fanno fotografare e rispondono alle nostre domande, anche se molte non parlano spagnolo. Ci invitano ad entrare nella casa di fango dove attorno al fuoco con delle  mani esperte e dei movimenti abilissimi cuociono delle tortillas. Volete assaggiarle? E perché no?  


 
Calde e profumate: deliziose! Un po’ di café de olla per accompagnare. Con orgoglio il padrone di casa ci dice che il caffè lo coltivano loro, in maniera naturale, come si fa da generazioni, e si sente: un caffè leggero e speziato. Ci racconta anche come vengono costruite le loro case: fango e resina. All’apparenza sono fragili ma in realtà sono molto robuste e durano decenni, isolano dal caldo e dall’umidità, resistono perfettamente alla pioggia. Ormai li stiamo simpatici e ci offre del Pulque fatto da lui. E’ una bevanda alcolica antica e molto forte, sono le dieci del mattino e siamo già brilli. Alcune ragazze ridono indicando il fiocco in mezzo ai capelli ricci di una di noi. Curiosiamo tra i prodotti che vendono. Ogni prodotto ha un’etichettina col nome di chi lo ha fatto, così quando viene comprato i soldini vanno direttamente a lei. Io compro dei borsellini e astucci da portare in regalo, i miei li ha fatti Apolonia, la conosco, le chiedo quanto tempo ha impiegato per fare un borsellino: 1 settimana, e io lo stavo pagando 50 pesos, poco più di 3 Euro.


 
Andiamo a visitare la chiesetta di Aldama ma nel tragitto ci imbattiamo in un campo da basket, sport preferito dalle comunità indigene. Dei ragazzi si allenavano e i nostri maschioni non perdono tempo, li sfidano a un Mexico- Italia. Noi tifiamo dagli spalti, spalla a spalla con uomini, donne e bambini che guardano divertiti quella strana partita. Tanti sorrisi. Momento indimenticabile per tutti. Inutile dire che hanno vinto gli allenatissimi ragazzi di Aldama.

 

Saliamo sul pullman e ci dirigiamo verso Oventik. Il paesaggio che vediamo scorrere dal finestrino è affascinante: montagne ricoperte da un verdo intenso, altre comunità e ancora montagne. Ci fermiamo a Santiago al Pinar, una comunità auto sostenibile costruita dal governo per i più indigenti, peccato che l’abbiano costruita e poi se ne siano dimenticati. Lì ci prendiamo una coca cola a 4 pesos, 30 centesimi di Euro circa, costa meno dell’acqua perché gli Indios ne sono ghiotti. Arriviamo finalmente davanti al coloratissimo cancello di Oventik, veniamo accolti da dei simpaticissimi uomini in passamontagna. “todo para todos” (tutto per tutti) è la scritta su uno dei cartelli. Ci dicono di non scendere, ci chiedono chi siamo, perché vogliamo visitarli. La nebbia che è scesa rende tutto più misterioso. Siamo intimiditi e un po’ emozionati. Anche la nostra guida non ci è mai entrata, nessuno chiede di vedere Oventik perché è difficile entrarci.
Ci fanno lasciare una lista con nome, cognome, professione, azienda per la quale lavoriamo. Ci fanno aspettare senza dirci niente. Passa mezz’ora e finalmente ci danno il permesso, possiamo entrare! Ci avvertono che questo non è un posto turistico, di fare foto solo ai murales e di non fare troppe domande. Ci diranno loro dove possiamo andare, ci accompagnano due di loro, rigorosamente in passamontagna.    


Murales bellissimi e coloratissimi dipinti su case di legno appaiono davanti ai nostri occhi. Siamo ancora intimiditi dalla situazione e rimaniamo in silenzio. Ci inoltriamo nel viale centrale di fango. A un certo punto il nostro Cicerone col passamontagna si gira verso di me e comincia a parlare, mi dice che i suoi paperi stanno crescendo bene e sono buonissimi da mangiare, ci parla di cosa coltivano, io non faccio domande ma annuisco interessata. Ci fa vedere da lontano la grande scuola tutta dipinta da murales, ci dice che il giorno prima c’era stata una festa nel Caracol, mi chiede da dove veniamo e perché siamo venuti a visitarli. Iniziamo inaspettatamente a chiacchierare.


 
 Visitiamo una delle case che ospita una sorta di negozietto in cui vendono dell’artigiano fatto da loro e magliette di sostegno alla loro causa. Una frase stampata su una di loro mi colpisce:  “Un mundo donde quepan varios mundos”, in italiano suona così: un mondo dove abbiano spazio vari mondi. La giornata lancia spunti per diverse riflessioni e la sera ci confrontiamo su quello che ognuno di noi ha provato e ha capito. Abbiamo tante domande, poche certezze. Incontrare altri popoli ci aiuta a incontrarci. Impariamo il rispetto per gli altri e ci interroghiamo su noi stessi. Viaggiare ci permette di conoscere. Conoscere ci avvicina e ci fa pensare “que otro mundo es posible”.

            

Foto: Alessandra del Grande e Paolo Mattia.

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