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Mercoledì, 10 Febbraio 2010

Beirut il centro del mondo

Sono sbarcato qui con l'idea di seguire un progetto della cooperazione italiana allo sviluppo in una situazione che si definisce di emergenza o di dopoguerra, è proprio questa Beirut?

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Vagabondo0





Arrivo a Beirut.

C’è una storiella che racconta di un italiano che va negli Stati Uniti e incontra un americano che gli chiede: "ma voi in Europa avete le macchine? E l’elettricità?"

Mi sento un po’ così. Mi guardo intorno e continuo ad esclamare, ma dai! Anche loro? Proprio come da noi! Anche qui ci sono le macchine, le case, il cinema, i negozi di Valentino e di Hugo Boss, i fast food, le ragazzine con la vita di fuori, gli occhiali da sole e gli sguardi supponenti e snob, ci sono i mega hotel e passeggiando davanti ai locali e ai ristoranti del centro mi sento un mezzo poveraccio proprio come nel centro di Milano. Nelle discoteche le ragazze si strusciano alle "gambe" dei ragazzi immobilizzati e poi si baciano sulla pista. Sul lungo mare ci sono le palme e i locali, i ristorantini e le panchine colorate regalate alla cittadinanza dal Mac Donald, vecchietti che giocano a Backgammon, trentenni che fanno jogging e donne in canottiera che comprano lupini. Che c’entra questo con il Medio Oriente?

Vedo un palazzo rovinato con il muro sbrecciato dalle pallottole, ecco, ecco, doveva esserci! Vedo dei posti di blocco, finalmente! I militari mi fermano e io sono contento. Tiro fuori il passaporto ma loro degnano solo di uno sguardo distratto la mia borsa perché è troppo piccola per contenere una bomba e senza controllare mi fanno passare e mi sorridono anche. Ma come!? Una barricata tra i palazzi di vetro, un altro controllo e sono nel centro. Il centro più centro degli altri, quello chiamato Downtown. Luccicante, ancora che sa di concessionaria. Nel 1991 appena finita la guerra questa zona era tutta macerie, e allora, senza fare tante storie, i buldozzer hanno tirato giù quello che era rimasto, compreso il vecchio mercato, per rifare tutto nuovo. Hariri (il famoso capo del governo di allora) fece fondare una società semi privata. Nome: Solidere. Scopo: dimenticare tutto quello che era stato e creare una Montecarlo o meglio una nuova Dubai dalle macerie. Il primo passo fù quello di fare un bel modellino, di quelli che si vedono in tanti film americani: ricordate Robocop, o anche Vita da cani di Mel Brooks...? Un sogno in scala che sembra conquistò l’immaginario di tanti.

Eccoci qua, Downtown con un po’ di ritardo è quasi conclusa, anzi, il centro del centro è già stato scartato e ci sono negozi e ristoranti in abbondanza. Mancano le persone. I mattoni nuovi e lucidi, questa atmosfera senza memoria, il rosso rassicurante dei palazzi e le perfette imposte marroncine, non so... ma mi sembra di passeggiare tra le costruzioni del Lego. O forse a darmi questa sensazione è il fatto di essere solo. Nel centro di una delle città più incasinate del medio oriente c’è un silenzio di tomba, centinaia di tavoli deserti lungo la strada, due coppie fumano il narghilè e parlano a tono basso, non c’è nessuno. Un abbattuto ragazzo mi dice che qualche mese fa’ qui c’era gente, i locali pieni, vita e musica, ma la prima bomba, poi la seconda, poi la terza, hanno tolto la voglia e la fiducia e ora ci sono solo camerieri annoiati che girano tra i tavoli. Sono diventato una miniatura che passeggia nel modellino di Solidere, incontro solo altri omini di plastica come me, vestiti con la mimetica che pattugliano ogni angolo e mi proibiscono di fare foto.

Nella piazza più grande, piazza dei martiri, ci sono le tende dei dimostranti, ecco l’assedio al governo di cui avevo sentito parlare, i pericolosi Hezbollah che hanno bloccato il centro da mesi. Esito un po’. Sarà permesso? Sarà pericoloso? Giro intorno ad una sbarra, nessuno mi ferma o mi controlla, rallento il passo infilandomi tra le tende. Si vedono tavole apparecchiate, frigoriferi, televisori, antenne satellitari. L’unico suono che si sente sono i lavori nei palazzi intorno, per il resto c’è un silenzio sonnacchioso che ricorda la siesta estiva. Più che una dimostrazione sembra un noioso campo di sfollati e per lo più vuoto. La poca gente che vedo gioca a carte, si annoia su uno sgabello o dormicchia all’ombra. Nessuno fa neanche uno sforzo per apparire aggressivo.



Palazzi e strade perfette, grattaceli orgogliosi, cantieri sui quali spiccano gru altissime. Appena esco da Downtown il rumore ricomincia: traffico, scavatori, trapani. Attività ovunque a Beirut, migliaia di taxi che contrattano per trasportare la gente avanti e indietro in continuazione, Mussad il tassista quando arriva il tramonto parcheggia e va a lavorare per una ditta che si chiama exotica, annaffia giardini, il meccanico ha una cisterna con la quale porta disinfestante alle ville in collina, il fruttivendolo la mattina va a fare il muratore per un suo parente. È difficile trovare un abitante di Beirut che non ha almeno due lavori.

Sono sbarcato qui con l’idea di seguire un progetto della cooperazione italiana allo sviluppo in una situazione che si definisce "di emergenza" o "di dopoguerra", è proprio questa Beirut?

Sembra di sì. La Capitale di un paese del terzo mondo dove tutti lavorano, il centro di una economica molto attiva che ha la sua classe imprenditrice e i suoi cittadini più creativi quasi tutta all’estero. Un paese ricco che riceve aiuti umanitari, ovvero un paese povero che fatica a trovare stabilità e risorse sociali. È l’uno e l’altro, l’uno accanto all’altro, qui dipende tutto dalla strada in cui sei nato.

Palazzoni, palazzoni e palazzoni, questa è Beirut, palazzoni solcati da enormi viali che sembrano superstrade: delle ferite profonde che separano i quartieri. Deve essere stato facile con queste invalicabili strade in piena città identificare i quartieri e dargli dei confini; qui i maroniti, qui i sunniti, qui gli sciiti, qui gli armeni, la giù i campi palestinesi, eccetera. Per andare da un quartiere all’altro non hai bisogno di girare per la città, basta salire su un raccordo sopraelevato e viaggiando all’altezza del secondo piano riscendere quando sei sopra la comunità che ti interessa.

Durante la guerra lungo una di queste super strade passava il confine tra le due Beirut: quella ovest musulmana e quella est cristiana, ma oggi la divisione più marcata sembra quella tra nord ricco e sud povero.

Quello che in centro è stato cancellato, dimenticato e rimpiazzato, andando verso sud ricompare. Qui nessuna grande società di azioni si è occupata di cancellare la guerra, è lì, spicca all’angolo di una piazza, o lungo la strada, tra i palazzi abitati, tra le banche rifatte. Vedo un edificio torturato, un terrazzo sfondato da un razzo, la facciata crivellata. I negozi si fanno più piccoli e meno costosi, spariscono le buoutique con le firme e aumentano piccoli alimentari e artigiani, vedo il primo bar con i neon e i vecchietti che giocano a carte, aumentano i veli e diminuiscono le magliette.



Ogni volta che scavalco una super strada le icone cambiano, come i simboli, i suoni e le scritte. Se la faccia di Hariri (assassinato il 14 Febbraio 2005) è una costante in tutta Beirut, ogni quartiere ha il suo stile. In centro campeggia con un primo piano vicino alla grande moschea e a figura intera sopra una concessionaria con completo grigio molto elegante. Nel quartiere cristiano il suo sorriso arriva dalla cima di un basso edificio. Nel ricco quartiere sunnita per la prima volta vedo anche l’urlo mai sedato scritto accanto alla sua immagine: " the truth" (la verità), e la foto del figlio ora a capo del partito del padre, perché qui la democrazia si confonde con la discendenza e l’individuo con le comunità in modo armonico. Man mano che il quartiere sunnita diventa più popolare la faccia di Hariri compare ovunque, su tutti i muri, ai negozzi, sui pali della luce, appesa alle finestre come la bandiera della pace. Dopo un’altra pericolosa super strada appare un’altra faccia: turbante nero, occhiali da vista, barba regolamentare ecco Nasrallah, il temuto, e amato capo degli Hezbollah. Hariri sui muri, Nasrallah sul festone, Hariri in completo grigio e cravatta, Nashralla che va alla mecca, Hariri che posa davanti ai fotografi con membri del governo, Nashralla che mani al cielo parla alla folla. Sono arrivato nel quartiere Sciita, il muezzin canta, alcune donne (poche) portano il completo nero stile rivoluzione di Khomeyni e i palazzi colpiti lo scorso luglio si confondono con quelli colpiti negli anni 80.

Sono ad Haret Hreik, il quartiere bombardato nel luglio 2006 da Israele, il quartiere Hezbollah, il quartiere che si sta ricostruendo a grande velocità con i soldi di...chi? Iran? Siria? Arabia? Chi lo sa con precisione? L’unico posto dove i bombardati hanno ricevuto in contanti 10mila dollari dagli Hezbollah per poter vivere senza casa mentre la ricostruzione va avanti. Il quartiere che confina con Sabra e Chatila dove ci sono i campi palestinesi che hanno subito le stragi del 1982 e con l’altro campo palestinese di Burj El Barajne.

Il centro, lasciato pochi chilometri più a nord sembra da qui un altro paese, sembra essere nato da una storia e una cultura diversa, mentre è sempre figlio dello stesso dopoguerra, ma sono due fratelli che si parlano a mala pena: chi sa quanti di questi sciiti sono mai stati a Downtown, o quanti maroniti si saranno fatti un giro nella periferia sud.

La foto che ha vinto il primo posto all’importante premio annuale world press photo of the year è stata scattata in questa zona: una macchina decappotabile con quattro ragazzi libanesi vestiti come modelli di Calvin Klein, con ray-ban a goccia e cellulare all’orecchio, passano guardandosi intorno davanti alle macerie di un palazzo. Questa foto ha creato molte polemiche, i ragazzi immortalati sono stati accusati di insensibilità, addirittura di vouaierismo, ma le accuse sono arrivate tutte dall’estero. Chi vive a Beirut sa che quegli stessi ragazzi qualche giorno prima portavano medicine, soccorrevano feriti e si sporcavano le mani di sangue. Chi è di Beirut legge in quello scatto solo il semplice ritratto di questa città. Niente di cui scandalizzarsi. Il fatto è che quando le due anime della città entrano in un unico sguardo il contrasto diventa così stridente da riunire tragedia e ironia in modo esemplare e far vincere il primo premio alla foto che lo cattura. Beirut.


Nei suoi contrasti esasperati Beirut traccia la mappa dei rapporti che si trovano anche fuori dalla capitale e allo stesso tempo, in positivo, dona un esempio di convivenza. Beirut è il palcoscenico dei contrasti del Libano e allo stesso tempo il terreno dal quale viene la più forte richiesta di pace, verità e armonia, è la città più cosciente della tragedia della guerra e nel suo accentramento, la maggior responsabile.


Achrafiyeh corrisponde alla zona cristiana nelle montagne della catena Libano, Hamra si identifica con la ricca collina sunnita di Saufar o con i cottage di Faraya, e Haret Hreik insieme a gran parte della periferia è l’altra casa degli sciiti del sud. Ogni estate per sfuggire all’afa Beirut si svuota e ogni comunità ritorna ai luoghi cha abitava nell’ottocento, riprendendo posizioni mai abbandonate.



Nei quartieri fuori downtown la vita sembra scorrere normale, negozi, traffico, lavori in corso, ma la paura è come un dispiacere intimo che si tiene per se.

Ci fermiamo lungo la strada a mangiare un falafel con Pepsi, menu classico. I clacson dipingono la frenesia della città, non si sente nient’altro. Un ragazzo sporco d’olio che ha voglia di mettere alla prova il suo inglese mi dice: "che fai qui? Non è un buon momento. Beirut era la città più bella del mondo. La più bella del mondo. Guarda come l’hanno ridotta. Speriamo bene. Speriamo bene."

Ogni parola, ogni libro che vedo in vetrina o giornale che leggo mi restituisce trasformate le parole che pensavo di conoscere. È come se qui acquisissero un aspetto più pregnante, come se la realtà trovasse una vita così concreta da perdere ogni banalità.

Nel campo palestinese di Burj El Barajne mi sono trovato a pensare che ero al centro del mondo. Esattamente. In un campo palestinese. Qual’è il centro del mondo? New York, Parigi, Londra? Il centro del mondo è dove si decidono le cose o dove avviene l’azione? È dove si risolvono i problemi o dove si generano? È dove si disegna il gioco o dove se ne vivono le conseguenze? Anche essendo circondato da gente semplice, pare impossibile parlare di banalità, ogni cosa piccola o grande porta con se storia, pericoli, politica, riflessioni. Quando muore un parente lontano, nelle lacrime oltre alla tristezza, si piange la dispora, quando esce l’acqua troppo salata dal rubinetto non si parla di tubature ma del rapporto tra palestinesi e Libanesi, della legge elettorale, del colonialismo; se mancano i soldi per mandare la figlia all’università si parla della morte di Hariri che ha fatto perdere il lavoro al padre e degli interessi geopolitici di questo attentato, al mercato discutere del prezzo della frutta che viene dal sud vuol dire affrontare il difficile discorso Iran-Stati Uniti. Non c’è un’aspetto del vita di questa gente che non sia immensamente più grande di loro. Così piccoli e così centro del mondo.


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