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Mercoledì, 10 Settembre 2014

Kos

Non la più bella tra le isole greche finora visitate ma sempre, come tutte, per me un po' magica.

ARTICOLO DI

alberto angelici

Amo il mare da sempre e conosco le Alpi fin dai miei primi mesi di vita. Mare e montagna sono per me differenti facce di un unica realtà: da un lato una natura irrequieta e dinamica, mai silenziosa, in costante evoluzione. Dall'altro la solennità di grandi masse immote.

Della montagna cito altrove, ma tumultuose e sanguigne e immediatamente percepibili sono le emozioni che ho dal mare: il respiro intriso di salsedine, lo sguardo che corre lontano, senza barriere e se senza limiti se non la cangiante linea dell'orizzonte. Il mistero di profondità che avverti ma non vedi, la sensazione di un universo potente che non è il tuo ma che sta sotto di te. Quando la barca e tutto il tuo mondo scendono nel cavo dell'onda, al punto che l'orizzonte si chiude su di te, ti pare che non ne uscirai più. Poi infiniti attimi dopo sei sulle creste, mentre lo scafo geme come una creatura torturata, scrollandosi dall'acqua che l'opprime. Allora il cuore si apre assieme all'orizzonte che rinasce davanti agli occhi. Ascolti e godi il vento grattugiare il dacron e vibrare sulle drizze e il baglio di prua tagliare infaticabile quel liquido che sembra denso bitume e allora senti la vita in ogni tua fibra e hai l'illusione che quell'universo là sotto non ghermendoti ti abbia accettato. Sottili e profonde, perché più dentro le devo cercare, ma sono ugualmente forti e intense quelle che ricevo dalla montagna.

Forse è per questo che a me servono entrambe: insieme esse sono il tutto, il connubio ideale, la completezza. Per questo da sempre mare e monti si alternano nelle mie, nostre vacanze.

KOS. L'ovale opalescente del perspex alterna già da una ventina di minuti gli infiniti toni di un blu cangiante e il rosso e il verde e il marrone bruciato di fazzoletti informi che sono isole e scogli montati a neve da una risacca senza suoni.

Poi d'un tratto, sull'inglese scolastico di una hostess dell'Olimpic che pronuncia le frasi di rito, un baluginio di lucine colorate come di un natale anticipato, lo sfrecciare di una recinzione grigia, l'estremo limite di una pista ... ed è subito Kos.

Non la più bella tra le isole greche finora visitate ma sempre, come tutte, per me un po' magica. Non appena il vano del portello risucchia l'aria sintetica dell'impianto di condizionamento, i passeggeri italiani immancabilmente si accalcano verso l'uscita quasi che un tardivo ripensamento del pilota potesse riportarci in alto fra le nuvole. Tra l'aspro sentore di pneumatici abbrustoliti dall'attrito e il puzzo del kerosene, già le mie narici cercano il profumo di rosmarino e aneto, ibiscus e bouganvillee.

Aeroporto grande e moderno e squallido, di cristalli e ferro, poliuretano espanso ed alluminio. Una seat quasi nuova. Si va. Senza storia la solita trafila della presa di possesso delle camera, unica e grande per noi tre, Anna, Lorenzo ed io. Non si poteva fare diversamente. Calca anche al banco del concierge; un certo tipo di italiano si accalcherebbe ovunque, anche se fosse solo. Mucchi di bagagli, grumi di sacchetti del duty free. Come resistere anche se i prezzi sono gli stessi del tabacchino sotto casa?

Un tale che pare Sordi mentre fa il romano, con un gesto raccomanda al figliolone precocemente adiposo si piantonare le valigie.

"Statte lì, nun te move, maggnete er panino che babbo tuo pija la camera e ce n'annamo da 'sta cretina che nun capisce ggnente".

Costruzioni basse e bianche tra palme, oleandri e pitosfori. Un brulicare di tubi e tubetti neri per l'irrigazione corre tra l'erba ben rasata ed i cespugli in fiore. I bambini appena arrivati corrono per vedere il mare, mamme affannate e cariche di sacchettini corrono dietro ai bambini con berrettini e magliette perché il sole non è mica quello dell'adriatico e tira un gran vento che poi ti viene la tosse o la caghetta.

Cameriere in ciabatte corrono da un blocco all'altro con grandi fagotti di biancheria sporca. Un gruppo di tedeschi panzuti corre per non perdere il bus per l'aeroporto.

Insomma tutti corrono e pure noi, per cambiarci e correre, appunto, via da quel casino. L'hotel non è proprio come me l'han venduto ma là fuori c'è tanto da vedere, da sentire, da far nostro. Dunque andiamo.

L'isola è lunga e sottile, circa undici chilometri nel punto più stretto. La guida che ho in borsa e il meltemi che spira teso da nord ci suggeriscono di visitare le spiagge della costa meridionale. Venti minuti sono sufficienti ma già a metà percorso le basse colline che formano l'ossatura centrale di Kos smorzano il vigore del vento. Gruppetti di vecchi operai muniti di secchi e pennelloni tingono di bianco con stanche mosse il logoro cordolo che corre al limitar dell'asfalto. Come un'anziana signora cerca di mascherare col belletto i guasti del tempo, cosi' qui si vorrebbe migliorare l'immagine dell'isola cominciando dal bordo delle strade.

Una capra arruffata e ossuta sosta immobile all'ombra di una pensilina: pare una compunta massaia che aspetti il bus dopo la spesa al supermarket. Il traffico è scarso, fatto di piccole moto, auto a noleggio come la nostra e automezzi militari. Impareremo presto che la presenza dell'esercito è una costante su quest'isola, per la vicinanza con la costa turca che si intravede laggiù a oriente. La gente, nelle aie come nei campi assolati, intenta ai gesti antichi di un'agricoltura tradizionale, poco sembra aver a che fare col terzo millennio. Lo sguardo di quei visi cotti dal sole e scavati da una vita spesso scomoda e faticosa mostra di non capire il perché di tutto quel via-vai di aerei e turisti, auto a noleggio e macchine fotografiche.

I giovani sì, quelli hanno già capito che il benessere, i dollari, possono venire solo da li' e non certo da pecore e ulivi che garantiscono solo fatiche quotidiane. Si sono oramai integrati, loro, ma nei piccoli centri, dove per fortuna non sono ancora comparsi pub irlandesi e discoteche, la gente trascorre il tempo libero nei vasti caffè in penombra, dietro ad un bicchiere di ouzo kai nero, anice a acqua fresca.

Kardamaina, un tempo villaggio di pescatori, appare all'improvviso, al termine di una ripida discesa tra alti eucalipti e campicielli di ulivi. Basse costruzioni, bianche e azzurre, solcate dai rampicanti, striate dal fuoco delle buganvillee, nascoste dai cannericci di una quantità di tettoie e verande. Piccoli alberghi, pubs e discoteche e affittacamere. Dozzine di negozietti ammassati insieme, un aria vetusta e trasandata che le tante mani di calce non riescono a coprire. Dalle grucce pendono le stesse felpe naic, i banchi mostrano gli stessi cappellini Adidas o fila o Marlboro, tutti provenienti da Cina e Formosa. Poi dolcetti al miele, pesche, meloni e polverose cartoline che mostrano modelle procaci, il pellicano di Mikonos e gli asinelli di Santorini.

Questo costante appiattimento da mercato globale ha fatto e fa molte vittime. Da anni non vedo più, ad esempio, i bei maglioni di lana grezza che un tempo trovavo ovunque. Quelli che pungevano un po' sulla pelle ma sapevano di vero. Quelli che mia madre lavò sette volte per tentare di eliminarne il forte odore di selvatico.

Giriamo a destra voltando le spalle all'abitato. Questa è solo una ricognizione e, prima di tutto, ci preme trovare le spiagge giuste. La strada corre a pochi passi dall'acqua, alla nostra sinistra. Ombrelloni, lettini e una parvenza di organizzazione; una donnona dall'aria nordica impasta di olio solare le luccicanti pieghe della pancia mentre il roseo marito legge nel grigio disco dell'ombrellone. La spiaggia si fa selvaggia ma non tanto ampia e cosparsa dei soliti detriti che l'alta marea e la mala educazione portano con sé. Un pneumatico da camion sorge solitario e obliquo dalla sabbia, surreale scultura moderna tra grovigli di alghe e cespugli secchi. Un cagnetto con la coda a ricciolo si agita festoso dietro a un paio di gabbiani che con silenziosa eleganza gli sfilano sopra librandosi come aquiloni senza fili.

A tratti il lieve pendio della collina sale crudo in costoni di roccia nuda e antichi sedimenti sabbiosi. Le rare costruzioni, seppur abitate, appaiono incompiute e irte di riccioli metallici su scabre colonne di cemento armato. Sui tetti brilla l'inox degli impianti solari per l'acqua.

Più avanti una stradina appena visibile ci suggerisce una deviazione e in un attimo siamo accanto a grandi piante che sembrano ginepri. Contorti e sciancati, sorgono al limitare della sabbia, su un erto ciglione, invaso da cespugli di timo in fiore, che scende brusco verso la spiaggia. Il mare è splendido, appena increspato da una brezza sufficiente a rendere sopportabile un caldo già robusto.

Colori vividi, dal verde-celeste all'azzurro, al cobalto a un blu intenso quasi viola macchiato del nero delle rocce. Sono formazioni di uno strano agglomerato di piccoli frammenti ancor più antichi, differenti tra loro per qualità e colori. Mosaici della natura che non avevo mai visto prima.  

Poco oltre, unica presenza umana, un gruppetto silenzioso si rosola al sole. Niente costume, la pelle come cuoio antico, quasi tutti biondi, panzuti, alcuni bianchi. Dev'essere una colonia di tedeschi, di quelli che stanno perennemente al sole e non danno alcun fastidio. Nei giorni successivi saremmo tornati li' spesso, attirati dalla pace di quell'angolo di paradiso e dalla possibilità di goderne in totale libertà. Anche Lorenzo, dopo un momento di perplesso imbarazzo si libera degli slip.

Ogni tanto qualcuno arriva lungo il bagnasciuga dalla spiaggia dei "normali", ma come s'accorge delle nostre condizioni, prontamente gira e, sbirciando senza parere, se ne va col naso a terra. Altri invece tirano avanti, l'andatura rigida, lo sguardo teso a cercare orizzonti lontani. Ci godiamo la pace e il senso di libertà assoluta che quei luoghi ci trasmettono. Ogni tanto un tuffo, ogni tanto una passeggiatina, lambendo l'acqua fino e oltre la silenziosa comunità germanica che non degna di uno sguardo le nostre nudità. Dopo le prime volte abbandono anche sandali, cappello ed occhiali. Non voglio ostacoli tra me e questa natura splendida e piena di armonia.

Nei tanti incavi di quelle strane rocce l'incessante ritmo delle maree ha depositato spessi strati di sale che sembra ghiaccio, mentre la sabbia è disseminata di ovali frammenti di pietra pomice leggera come polistirolo e quasi del medesimo colore.

Ogni mattina, passiamo dal market dove ci riforniamo di pesche, meloni e pomodori dolcissimi e polposi che mangeremo a grugno in riva al mare.

Una mattina sono sul bagnasciuga a pulire un grosso melone, coll'inseparabile multilama svizzero; arriva uno dei tedeschi sciacquettando in un metro d'acqua con il pancione che pare un'enorme boa. Agitando un dito ci redarguisce con misteriosi suoni gutturali. Abbiamo capito solo il dito.

Una diecina di chilometri oltre, si apre il vasto golfo di Kefalos. È una zona molto bella e semidesertica; purtroppo però il tratto più suggestivo è occupato da un poligono dell'esercito. Più avanti è Kamari, un'insenatura molto carina che ospita un club Med. Al centro della piccola baia un isolotto roccioso con un unica costruzione vecchiotta. L'inclinazione del tetto unita a quella degli scuri alle finestre le conferiscono un'aria imbronciata e triste. Piccole trattorie offrono l'onnipresente greek salad, mussakà, una specie di lasagna, e suvlachi, che poi non sono altro che spiedini di agnello, pollo, maiale o vitello, alternati a quadratini di peperone.

La sera le viuzze di Kardamaina, l'abitato più grande (si fa per dire) e vicino a noi che stiamo a Mastichari, si popolano di villeggianti chiassosi, soprattutto inglesi e tedeschi. Il passeggio ha luogo principalmente lungo la via principale. Bar e pubs si susseguono senza soluzione di continuità, intercalati da negozi e botteghe e ognuno sfoggia potenti impianti stereo e belle ragazze in minigonna e tette di fuori, pagate per attirare i clienti. La cacofonia è assordante e tutto mi appare artificioso e finto come scenografie teatrali, tanto che ho l'impulso di correre dietro alle facciate per vedere se sono rette da un semplice palo.

Davanti alle poche abitazioni della strada, sostano sparuti gruppi di vecchietti, ognuno con la sua sedia impagliata. Le donne portano il fazzoletto, gli uomini una striminzita coppola. Potrei essere in Sicilia. Si guardano attorno curiosi. Ci fissano con occhi attenti e stanchi a un tempo e forse pensano che il mondo è proprio impazzito .Una bimbetta scappa vivace tra i banchi ogni volta che la mamma, appesantita da una gravidanza quasi a termine, azzarda un momento di relax e chiude gli occhi.

In un piccolo slargo chiocchiola leggero il getto di una fontanella; un grosso gabbiano e un pollo ne condividono gli spruzzi, incuranti delle persone che camminano li' accanto. Una sera ci fermiamo a cena in uno dei tanti ristorantini che lambiscono il porticciolo. Scegliamo un tavolino sotto alla tettoia. Davanti a noi è attraccato un vecchio caicco che offre gite giornaliere a spasso per le isole vicine. Grigliata di pesce e sirtachi sono comprese nel prezzo. Proprio come a Viserbella o Misano...anche se il contesto è un pò diverso.

Ci serve una ragazza inglese dai chiari occhi ridenti. Parliamo un po'. Mia moglie dice che potrei chiacchierare con un muro e farmi rispondere. Viene da Manchester, come la sua amica che serve un pò più in là e con il lavoro di due mesi si pagheranno una vacanza della stessa durata. La barca dev'essere del proprietario del locale, perché due bambini, forse i figli, vanno di continuo avanti e indietro giocando. Con loro è un gattino giovanissimo. Un buffo mucchietto di pelo bianco e grigio dal musino furbo e birichino. Un po' ingobbito, la coda a punto di domanda, corre a passettini e balzi dietro ai bambini che ridono e felici battono le mani e lo guardano infilare come una saetta la passerella oppure scendere svelto tra i nostri piedi e sotto i tavoli. Qualcuno si china ad accarezzarlo, altri commentano e ridono.

Non manca neppure un'inglese rosea e paffutella, che dalla macchinetta spara raffiche di flash. Sobbalza felice nel leggiadro abitino rosa pallido mentre dal rossetto a cuoriccino escono senza sosta sublimi gridolini di piacere.

Grazie a quel gattino e all'ingenua purezza che esprime, tra noi si crea ben presto un'intesa fatta di sorrisi e ammiccamenti, come un gruppo di parenti che si compiace della bellezza dell'ultimo nato.

All'estremità orientale dell'isola è il capoluogo, Kos. Molto somigliante a Rodi nello stile dei palazzi quattrocenteschi, ricostruiti dopo il rovinoso terremoto del '33 e nelle alte mura che abbracciano il porto, è la metà più turistica dell'isola. A poca distanza era la sede della più importante scuola ippocratica il cui fondatore era appunto nativo di quest'isola.

Nafklirou, la via dei bar, è già molto affollata: mi immagino che carnaio deve essere in agosto. Da vedere il castello dei cavalieri e, se interessano, le vestigie romane e greche, venute alla luce durante il sisma, tra cui il teatro. Una curiosità: le gradinate erano di marmo per gli ospiti illustri, di semplice calcare quelle per la plebe. Mi da però l'idea che la differente origine rocciosa poco importasse per i sederi che ne facevan uso.

Che dire ancora di Kos? I colori sono quelli: vividi, smaltati e così caldi che danno fitte al cuore tanto sono belli. I profumi intensi che sanno di mare e di terra insieme e i voli delle api e il timo e i rosmarini sempre in fiore e lo iogurt denso come gesso e il miele amaro e lo sterrato a tratti rosso come campi da tennis delle stradine che vanno al mare, QUEL mare che ha saputo reinventare l'azzurro e il verde e il blu.

È Grecia. Altro non serve dire.

Ragazzini che guardano con occhi colmi di divertita curiosità e non cercano di trascinarci in un ristorante o di ottenere qualche moneta, come fanno invece nelle isole più turistiche. È lì, nell'aria greve di profumi straordinari, nelle insenature nascoste, in quella campagna asciutta, che poco ha da offrire a un turismo chiassoso e frettoloso, che cerco l'umanità cordiale e semplice di una terra che mi è entrata nel cuore e nella pelle. Una terra che ogni volta mi accoglie in un abbraccio che non vorrei mai sciogliere.

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