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Mercoledì, 10 Settembre 2014

CRES, ISOLA DI PIETRA E DI SILENZI ANTICHI

Cherso, cosi’ si chiamava all’ epoca in cui il leone di San Marco dispiegava le proprie ali su questi territori del golfo del Quarnero, strategici per il controllo sull’alto Adriatico, oggi e’ Cres e appartiene alla Croazia.

ARTICOLO DI

alberto angelici

 Trecentottantotto anni di dominazione veneziana, dalla fine del X° secolo agli ultimi anni del Settecento in continuo antagonismo con l’Ungheria e la presenza italiana dal 1920 al 1947 hanno lasciato tracce incancellabili nell’architettura, nel dialetto e nelle consuetudini della sua gente. Cherso, cosi’ si chiamava all’ epoca in cui il leone di San Marco dispiegava le proprie ali su questi territori del golfo del Quarnero, strategici per il controllo sull’alto Adriatico, oggi e’ Cres e appartiene alla Croazia.
E’ una lunga striscia rocciosa, stretta, da nord a sud, tra l’ Istria e le altre isole dell’arcipelago, con Lussino appena sotto, collegata da un ponte e Krk alla sua destra.

Ci arriviamo con il traghetto da Brestova, dopo un faticoso viaggio rallentato dal traffico denso di alpini che convergono su Trieste per l’annuale raduno del corpo. E’ una fiumana di persone festose, quella che incontriamo in ogni autogrill, in ogni area di sosta. Camper, furgoni e auto traboccano di damigiane, sui finestrini campeggiano poster inneggianti al raduno, le penne nere svettano ovunque come i cipressi sulle colline toscane. E’ l’allegria di gente tenace e solida legata alle migliori tradizioni di un’Italia lavoratrice che, ahinoi, si riconosce sempre meno in quella di oggi. Immagini che mi riportano alla memoria le tante adunate cui partecipai assieme a mio padre che degli Alpini era stato ufficiale prima di transitare nella neo-nata specialita’ dei para’ della Folgore.

Sbarchiamo a Porozina, l’antica Faresina, che nel XV° secolo fu sede di un monastero di terziari francescani all’estremo nord-ovest dell’ isola. Lasciamo le auto e, dopo un rapido breafing, indossati gli zaini, imbocchiamo una carrareccia in salita che s’inoltra nei boschi. Accanto a noi, le tracce dell’antica linea telegrafica che negli anni della prima guerra mondiale collegava una batteria d’artiglieria di guardia allo stretto con il comando posto a Beli, sulla costa orientale, nostro traguardo per questa prima giornata di trekking.

Ci sfila accanto una flora estremamente ricca: querce, noccioli, sambuchi gremiti di grappoli ancora verdi, rari castagni che l’edera ha attaccato coprendolo di un fitto, soffocante reticolo di rami, lecci nelle zone piu’ elevate, e betulle.
Vedremo poi che la vegetazione subira’ notevoli cambiamenti con l’aumentare della quota e mano a mano che dalla Tramontana, cosi’ e’chiamata la zona settentrionale dell’ isola, ci sposteremo verso sud, dove la flora e’ prettamente mediterranea.
Abbandonata la costa, ci troviamo immersi in un silenzio totale, rotto solo dal verso degli uccelli. Dai rami di un vecchio olmo una coppia di gruccioni ci regala un’ immagine quasi tropicale, per via del coloratissimo piumaggio che li rende simili a pappagalli amazzonici. Costante la presenza dei gabbiani, anche in stormi molto numerosi, a ricordarci con il loro verso stridente la vicina presenza del mare.
Lungo la fila s’intrecciano, fitte, le chiacchiere; ci conosciamo da un’ora appena, 13 sconosciuti di ogni eta’, dai 25 ai 54 anni, provenienti da tutto il nord Italia, unica affinita’ nota l’amore per la natura e per il camminare lento. Tutto il resto lo scopriremo nel proseguo.
La nostra guida, Alessandro Vergari, gia’ conosciuto da una parte di noi e per me amico da alcuni anni, fara’ il resto, creando fin da subito coesione e armonia. Giochi, enigmi, la lettura in circolo, durante le pause e la sera davanti al fuoco, di poesie e brani attinenti al luogo e all’occasione contribuiranno al fiorire di una conoscenza allegra e serena che in breve assumera’ sempre piu’ i caratteri di una bella amicizia di gruppo.

Il terreno estremamente roccioso e il degrado dell’antica massicciata che rendeva lo stradello agibile ai carri mette a dura prova piedi e caviglie e ci obbliga alla massima attenzione; molto apprezzati i bastoncini che alcuni di noi usano, singoli o a coppia. Il tempo e’ instabile fin dal giorno precedente e ci aspettiamo di incontrare pioggia, proprio come durante il viaggio di avvicinamento ma la cosa non preoccupa perche’ siamo tutti ben attrezzati.
In alto, dove il cappello verde del bosco mostra dei varchi, corrono veloci le nuvole cosi’ che ombre e luci cambiano di continuo in un divenire molto suggestivo e piacevole.
Presto facciamo conoscenza con una realta’ che ci sara’ compagna in questi sette giorni, le masiere, muretti a secco alti a volte piu’ di noi. Come un mosaico dividono il territorio in tante particelle piccole e grandi, chilometri e chilometri di muretti che per secoli la gente del luogo ha innalzato ovunque allo scopo di marcare le diverse proprieta’, impedire il dilavamento del terreno, liberare il terreno per farne pascolo e anche proteggere le greggi dalla bora che spesso soffia robusta. E’ un’opera ciclopica che, pur non facendo parte dell’eredita’ naturale dell’ isola, ora ne completa le caratteristiche e andrebbe salvaguardata ma in molti punti mostra inevitabili cedimenti e frane.

Incontriamo piccoli borghi abbandonati: poche case in pietra che sembrano esistere da sempre, buie arcate che un tempo ospitavano le greggi, fazzoletti di terra rubata alla pietra in un passato non lontano furono orti e, tra le sterpaglie e rigogliose piante di malva in fiore, ancora mostrano ostinati caspi di insalata e inflorescenze di carote sopravvissute all' incuria. All’ angolo di ogni edificio, il cilindro in pietra del pozzo di raccolta per l’acqua piovana, un’importante risorsa per un territorio carsico dove l’acqua di superficie scarseggia ovunque.
Marciamo di buon passo approfittando del terreno piacevolmente ondulato, gli occhi fissi dove appoggiamo gli scarponi; altri sensi, l’ udito e l’olfatto, mi consentono un piu’ completo contatto con l’ambiente. Un sentore che ricorda l’acqua di rose Manetti & Roberts annuncia alcune macchie di Cisto, simili nel fiore alla rosa canina ma a mio parere piu’ eleganti e belli; un dolce, inconfondibile aroma rivela la presenza di qualche pianta di fico; ne incontremo una miriade ovunque e alcune sembrano nascere direttamentedalla roccia calcarea, contorte, antiche e dello stesso colore grigio, nelle fessure di un muro diroccato, perfino nel tronco crepato di una roverella defunta.

Molti indizi raccontano di una popolazione che un tempo fu piu’ numerosa, quando l’ isola visse momenti di benessere, al centro di rotte commerciali che vedevano i velieri della repubblica veneziana fare sosta nel ben riparato porto di Cres. Poi l’avvento del vapore come forza motrice del naviglio mercantile appanno’ l’importanza di queste isole la cui popolazione si vide costretta a una dolorosa emigrazione in cerca di migliori condizioni di vita.

Caisole, “Caput insulae”, Beli per i Croati, e’ un villaggio preistorico che continua a vivere da piu’ di 4000 anni, stretto sulla vetta di una collina che scende a scarpata su un mare blu pervinca. Vorrei strapparmi i vestiti e tuffarmi direttamente da qui.
Ci avviciniamo al paese per una strada stretta ma asfaltata, osservati da un drappello di pecore il cui mantello sudicio sembra la capigliatura di un rasta. In basso, sulla nostra destra, scorgo l’antica strada romana e il ponte che valica uno stretto canalone dove le piogge autunnali danno vita per qualche settimana a una serie di cascatelle.
All’ ingresso dell’abitato, accanto a piccole stalle che conservano l’originale, bassa forma preistorica, si profila la veranda di una trattoria. Graditissima la sosta per rinfrescarsi, mentre la guida prende accordi per la cena; infatti il campeggio che per due notti ci ospitera’ si trova appena sotto il paese, alle spalle di una bella spiaggia a forma di luna, stretta tra alte pareti di roccia. davanti alla fresca veranda la fila si disfa, gli zaini cadono a terra. Sospiri di sollievo, commenti, qualche foto scherzosa sotto un polveroso trofeo di montone. Una bambinetta ci osserva dallo stipite di una casa che pare tolta da un presepe napoletano del settecento, dozzine di rondini ballano dentro e fuori dai nidi di un profondo cornicione, io mi sento in pace con il mondo, baciato in fronte da una Fortuna cui forse sono simpatico...

Mi sveglia il ticchettìo sommesso della pioggia sulla tela dell’igloo. Sbircio l’orologio anche se la mancanza di luce mi dice che l’alba e’ ancora lontana. Accanto a me Alessandro ronfa debolmente, poco lontano una pecora bela con tono polemico la propria solitudine e nel fondo del sacco a pelo i miei piedi pretendono uno spazio che non hanno.
Cerco sul piccolo cuscino gonfiabile una posizione migliore ma la pendenza del prato mi fa scivolare la testa dalla parte sbagliata. Penso al lungo anello che ci aspetta ma stasera dormiremo ancora qui percio' porteremo con noi lo stretto indispensabile: giacca a vento impermeabile, borraccia e poco piu’.

Alle sette il cerchio delle tende prende lentamente vita; resto immobile ad ascoltare i segni del risveglio che la tela sottile non puo’ nascondere: in realta’ e’ come se ci trovassimo tutti nella stessa stanza, anche se non ci possiamo vedere! Uno sbadiglio, un gemito, frasi mutile e assonnate, qualcuno si gratta, una cerniera lampo si apre e a quel sibilo altri uguali fanno seguito, lo scalpiccio del primo che s’avvia alle toilettes. Faccio un rapido appello di cio’ che mi serve, e intanto aspetto che Vergari esca dall’ unico varco della nostra tendina a due posti.

Il campeggio e’ piccolo, ricavato in un oliveto triangolare delimitato da due alti crinali e aperto sulla baia; una fila di casette di pescatori, ora in parte adibita a ricovero attrezzi impedisce la vista del mare ma costituisce anche un’ utile protezione contro il vento. Alcune pecore vagano libere negli spazi tra le tende e brucano la rada erba, sostituendo cosi’ il lavoro di un giardiniere ma anche disseminando di escrementi piccoli come olive il prato e obbligandoci a molta attenzione quando ci spostiamo. I servizi sono rudimentali ma puliti; nonostante l’ora, un anziano in tuta blu ramazza il pavimento e mi fa segno di attendere un momento. Ha smesso di piovere, l’aria e’ fresca per essere la meta’ di maggio e un cielo di grigie nuvole vagabonde non offre alcuna certezza per il giorno appena iniziato ma sono felice e le mie labbra fischiettano le belle note di Something dei Beattles mentre estraggo dal sacchetto le poche cose per la pulizia.

La sera precedente abbiamo avuto tutto il tempo di rilassarci prima di salire alla trattoria. L’asfalto e’ cosi’ ripido che l’orizzonte si apre davanti a noi come al decollo di un aereo, si fa piu’ netto il profilo di Krk e compaiono altre isole piu’ lontane e, dietro, lì’ entroterra roccioso della Croazia.
Nella doccia mi sono lasciato a lungo sferzare da un getto largo come un piattino da frutta; che voluttuoso piacere spiare il contatto violento dell’acqua sulle spalle arrossate! Mi concentro sulle diverse sensazioni che la cute trasmette al cervello a seconda delle aree.Si’, perche’ diverso e’ cio’ che provo nella zona del torace rispetto al contatto degli zampilli sul palmo delle mani o sulle natiche o sulla schiena. L’acqua scende in mille rivoli lungo il corpo, accarezza ogni millimetro , fruga ogni piega e si porta via polvere e stanchezza.
In alto, sul tetto rugginoso, una coppia di zanzaroni, enormi ma innocui, sfugge a balzi le nuvole di vapore e trova in un angolo lo spazio per un momento di intimita’. Sfregandomi addosso il sapone d’Aleppo le osservo sentendomi un po’ guardone e penso..penso che anche le zanzare hanno diritto alla privacy, cosi’ afferro l’asciugamano ed esco.
“Aspetta un momento, non entrare - dico a Francesco – nella doccia ci sono due zanzare che scopano! “
Francesco, che sembra il fratello di Gerard Depardieu, mi fissa sconcertato. Non capisce, e’ ovvio, ma ridacchia allegro. Poi pero’, guardandolo con la coda dell’occhio, lo sorprendo a osservarmi pensoso. Forse si sta domandando come sara’ un’intera settimana accanto a uno che non ci sta con la testa.

Guardo il cielo, quasi del tutto sereno, guardo l’ora: c’e’ ancora tutto il tempo, cosi’ m’infilo il costume, una maglietta e, mentre altri sono intenti al bucato o si godono qualche minuto di sudato relax in tenda, dirigo alla spiaggia, poche diecine di metri piu’ in la’. Una grossa pecora con le natiche tinte di rosso mi segue per un tratto, bela un paio di volte e scompare tra due vecchie roulottes. Poco piu’ in la’ un virtuoso del “fai da te” dipinge d’azzurro i pali di una veranda e non s’accorge che anche le sue scarpe stanno prendendo la stessa tinta.

Gia’ altri del gruppo mi hanno preceduto e chiacchierano animatamente sui ciottoli bianchi. Il mare e’ quasi immobile, potrei trovarmi in riva a un lago, due gabbiani guardano in basso e il primo picchia verso un’ invisibile preda. Entro in acqua fino alle caviglie pensando che ora so come ci si sente a fare il bagno nel surgelatore di casa, guardo Helène, Gianluca ed Elsa sguazzare in acqua. Penso anche che sono pazzi e la decisione di starmene ad ammirare il loro coraggio arriva da sola, cosi’ mi stendo sulla riva. Esploro il benessere che mi pervade, riempio i polmoni di un’aria virginale che sa di pulito e ignora smog e gas di scarico. Ad occhi chiusi mi abbandono al duro contatto dei sassi e con i polpastrelli ne esploro la liscia superficie, trovo piccole asperita’ e gioco con la fantasia per immaginarle l’aspetto come farebbe un cieco, trovo bastoncini e un tappo corona il cui bordo smerlato mi ricorda, chissa’ perche’, la parte inferiore di una suntuosa tenda da finestra. Lascio che la mente vagoli libera, mi sento ondeggiare, vorrei che il tempo si fermasse…apro gli occhi, li riempio di cielo e provo a indovinare se vincera’ il sereno oppure il maltempo.

Ha vinto il secondo, c’e’ odore di pioggia; superato l’abitato, marciamo sul lastrico romano vecchio di venti secoli; sotto le vibram sento i solchi di generazioni di carri e nella frescura silente del nuovo giorno cerco di immaginare cosa dev’essere stata la vita da queste parti quando in Galilea cresceva un giovanetto che avrebbe fatto parecchio parlare di se’. Il ponte e’ breve perche’ e’ stretto il canalone che deve superare. Seguo chi nella fila mi precede e lancio uno sguardo in basso alle rocce che in autunno d’acqua. Ora una stentata vegetazione le ricopre, qualche cespuglio di ginestre cui le ombre dei crinali non consentono di fiorire, vedo euforbie dalle foglie lunghe e sottili in regolari file di due.
Un ripido sentiero ha sostituito la carrareccia; la fila sale sbuffando, la conversazione si fa ardua e lascia il posto al gioco dei muscoli. Procediamo per la massima pendenza, tagliando i tornanti asfaltati della camionabile. Incrociamo una coppia di ciclo-turisti tedeschi: le biciclette sono inverosimilmente cariche ed ogni punto di sostegno e’ stato sfruttato ma i due, donna in testa, procedono decisi, i muscoli del collo irrigiditi come corde tese. I polpacci si gonfiano ad ogni pressione sul pedale e ho l’impressione che i pneumatici spariscano sotto il gravare di un doppio carico.
Una piccola orchidea violetta ondeggia accanto al mio scarpone. La vedo all’ ultimo istante e rischio di calpestarla. E’ piccola, e’ vero, ma non per questo meno preziosa, il portamento elegante, giustamente orgogliosa della propria bellezza e della tenacia che l’ha fatta crescere in un’arida pietraia. E’ proprio vero che l’armonia puo’ nascondersi ovunque: basta guardare bene, cercare…

Qui la roccia e’ marrone bruciato, traforata come emmenthal, corrosa e scabra. Evitiamo una serie di alberi irti di lunghi spini detti Spini di Cristo perche’ si favoleggia che con essi sia stata fatto il cerchio di spine con cui fu per dileggio incoronato Gesu’ sulla croce. Oltre un muretto a secco straripa un giallo macchione di euforbia fiorita che pare il lavoro di un abile giardiniere.
In alto continuano ad accavallarsi nuvole sempre piu’ scure ma forse per la violenza del vento che le trascina nessuna riesce a scaricarsi. Dopo un fitto boschetto di quercioli sbuchiamo in una vasta radura erbosa, un pascolo che ha al centro uno dei tanti stagni artificiali creati secoli fa per abbeverare il bestiame in mancanza di corsi d’acqua naturali. Ai bordi crescono alcune varieta’ di piante acquatiche tra cui una varieta’ che al sommo termina con un ricco sbuffo color panna. Il primo della fila dice qualcosa ad alta voce e subito esplode il disordinato gracidare delle rane che abitano lo specchio d’acqua. Ci sistemiamo per il pranzo al sacco e scatta frenetica la solita giostra delle foto: mai visto fare tante fotografie in vita mia! Quasi tutti, esclusi il sottoscritto e forse ancora un paio, hanno portato la fotocamera, cosi’ il gruppo deve restare fermo a lungo ogni volta, in attesa che tutti si siano alternati allo scatto.
C’e’ chi si misura con un panino al prosciutto, chi come me rosicchia carote e mele o un tocco di formaggio. Alessandro estrae dal tascapane di tessuto jeans il quaderno delle citazioni e, come spesso succede, ci legge qualcosa in carattere con il posto in cui ci troviamo e con il nostro camminare lento. Il tono della voce, semplice e gentile, completa la magia del luogo, e’ come il giusto condimento per una pietanza gia’ saporita e gustosa. Gianfranco fa un gesto, alza il braccio al cielo: i nostri primi due grifoni volteggiano alti, sembrano aquiloni, tanto le lunghe ali stanno immobili. Si librano sulle correnti, perche’ il peso delle ali e’ tale da non consentir loro di agitarle tanto spesso, quindi se vogliono restare in volo a lungo devono diventare esperti di termiche e sfruttarle per rimanere alti. Distesi sull’ erba umida ne ammiriamo le eleganti evoluzioni che a tratti li portano cosi’ in basso da consentirci di studiarne i particolari che li rendono davvero molto simili ai cugini avvoltoi.

Da un po’ di tempo il cielo e’ terso e il sole picchia al punto che alcuni di noi si sono spogliati per migliorare la tintarella. D’un tratto dai margini seghettati del bosco compare un nuvolone nero, tondo e piatto come l‘immensa astronave di “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. Quasi sicuramente per noi significhera’ un incontro mooolto ravvicinato con na bella quantita’ di pioggia. Infatti abbiamo appena il tempo di infilare le mantelle e coprire gli zaini che il bosco risuona del fragore dei tuoni, schioccano alcuni fulmini ed Helène grida che ha paura e corre a rannicchiarsi tra Gianluca e Sabrina, bruna poliziotta sammarinese ma anche ottima ballerina di sansa e merengue. E’ grandine la pria cosa che ci arriva addosso, grandine secca che frusta le spalle e la testa. I chicci grandi come fagioli rimbalzano ovunque e il vento li trascina in turbini ad ogni istanti diversi. Il fogliame sopra le nostre teste geme per la violenza delle raffiche di ghiaccio ma noi proseguiamo, i pantaloni gia' zuppi dal ginocchio in giu’, attenti a non scivolare sul terreno che si sta rapidamente trasformando in una palude.

Venti minuti e la nuvola, cosi’ come era comparsa se ne va, ritorna l’azzurro e il sole. Bellissimo questo scatenarsi degli elementi! Restiamo a guardarci e commentiamo, i sorrisi gocciolanti ma pieni, come bambini che hanno avuto il permesso di sguazzare nella pozzanghera. La vegetazione fuma, il vapore s’innalza dall’erba e per qualche minuto mi pare di essere in una foresta tropicale; riprendono a cantare gli uccelli e noi riprendiamo il cammino mentre gia’ qualcuno si libera dei poncho.

Mi sveglia il ticchettìo sommesso della pioggia sulla tela dell’igloo. Sbircio l’orologio anche se la mancanza di luce mi dice che l’alba e’ ancora lontana. Accanto a me Alessandro ronfa debolmente, poco lontano una pecora bela con tono polemico la propria solitudine e nel fondo del sacco a pelo i miei piedi pretendono uno spazio che non hanno.
Cerco sul piccolo cuscino gonfiabile una posizione migliore ma la pendenza del prato mi fa scivolare la testa dalla parte sbagliata. Penso al lungo anello che ci aspetta ma stasera dormiremo ancora qui percio' porteremo con noi lo stretto indispensabile: giacca a vento impermeabile, borraccia e poco piu’.

Alle sette il cerchio delle tende prende lentamente vita; resto immobile ad ascoltare i segni del risveglio che la tela sottile non puo’ nascondere: in realta’ e’ come se ci trovassimo tutti nella stessa stanza, anche se non ci possiamo vedere! Uno sbadiglio, un gemito, frasi mutile e assonnate, qualcuno si gratta, una cerniera lampo si apre e a quel sibilo altri uguali fanno seguito, lo scalpiccio del primo che s’avvia alle toilettes. Faccio un rapido appello di cio’ che mi serve, e intanto aspetto che Vergari esca dall’ unico varco della nostra tendina a due posti.

Il campeggio e’ piccolo, ricavato in un oliveto triangolare delimitato da due alti crinali e aperto sulla baia; una fila di casette di pescatori, ora in parte adibita a ricovero attrezzi impedisce la vista del mare ma costituisce anche un’ utile protezione contro il vento. Alcune pecore vagano libere negli spazi tra le tende e brucano la rada erba, sostituendo cosi’ il lavoro di un giardiniere ma anche disseminando di escrementi piccoli come olive il prato e obbligandoci a molta attenzione quando ci spostiamo. I servizi sono rudimentali ma puliti; nonostante l’ora, un anziano in tuta blu ramazza il pavimento e mi fa segno di attendere un momento. Ha smesso di piovere, l’aria e’ fresca per essere la meta’ di maggio e un cielo di grigie nuvole vagabonde non offre alcuna certezza per il giorno appena iniziato ma sono felice e le mie labbra fischiettano le belle note di Something dei Beattles mentre estraggo dal sacchetto le poche cose per la pulizia.

La sera precedente abbiamo avuto tutto il tempo di rilassarci prima di salire alla trattoria. L’asfalto e’ cosi’ ripido che l’orizzonte si apre davanti a noi come al decollo di un aereo, si fa piu’ netto il profilo di Krk e compaiono altre isole piu’ lontane e, dietro, lì’ entroterra roccioso della Croazia.
Nella doccia mi sono lasciato a lungo sferzare da un getto largo come un piattino da frutta; che voluttuoso piacere spiare il contatto violento dell’acqua sulle spalle arrossate! Mi concentro sulle diverse sensazioni che la cute trasmette al cervello a seconda delle aree.Si’, perche’ diverso e’ cio’ che provo nella zona del torace rispetto al contatto degli zampilli sul palmo delle mani o sulle natiche o sulla schiena. L’acqua scende in mille rivoli lungo il corpo, accarezza ogni millimetro , fruga ogni piega e si porta via polvere e stanchezza.
In alto, sul tetto rugginoso, una coppia di zanzaroni, enormi ma innocui, sfugge a balzi le nuvole di vapore e trova in un angolo lo spazio per un momento di intimita’. Sfregandomi addosso il sapone d’Aleppo le osservo sentendomi un po’ guardone e penso..penso che anche le zanzare hanno diritto alla privacy, cosi’ afferro l’asciugamano ed esco.
“Aspetta un momento, non entrare - dico a Francesco – nella doccia ci sono due zanzare che scopano! “
Francesco, che sembra il fratello di Gerard Depardieu, mi fissa sconcertato. Non capisce, e’ ovvio, ma ridacchia allegro. Poi pero’, guardandolo con la coda dell’occhio, lo sorprendo a osservarmi pensoso. Forse si sta domandando come sara’ un’intera settimana accanto a uno che non ci sta con la testa.

Guardo il cielo, quasi del tutto sereno, guardo l’ora: c’e’ ancora tutto il tempo, cosi’ m’infilo il costume, una maglietta e, mentre altri sono intenti al bucato o si godono qualche minuto di sudato relax in tenda, dirigo alla spiaggia, poche diecine di metri piu’ in la’. Una grossa pecora con le natiche tinte di rosso mi segue per un tratto, bela un paio di volte e scompare tra due vecchie roulottes. Poco piu’ in la’ un virtuoso del “fai da te” dipinge d’azzurro i pali di una veranda e non s’accorge che anche le sue scarpe stanno prendendo la stessa tinta.

Gia’ altri del gruppo mi hanno preceduto e chiacchierano animatamente sui ciottoli bianchi. Il mare e’ quasi immobile, potrei trovarmi in riva a un lago, due gabbiani guardano in basso e il primo picchia verso un’ invisibile preda. Entro in acqua fino alle caviglie pensando che ora so come ci si sente a fare il bagno nel surgelatore di casa, guardo Helène, Gianluca ed Elsa sguazzare in acqua. Penso anche che sono pazzi e la decisione di starmene ad ammirare il loro coraggio arriva da sola, cosi’ mi stendo sulla riva. Esploro il benessere che mi pervade, riempio i polmoni di un’aria virginale che sa di pulito e ignora smog e gas di scarico. Ad occhi chiusi mi abbandono al duro contatto dei sassi e con i polpastrelli ne esploro la liscia superficie, trovo piccole asperita’ e gioco con la fantasia per immaginarle l’aspetto come farebbe un cieco, trovo bastoncini e un tappo corona il cui bordo smerlato mi ricorda, chissa’ perche’, la parte inferiore di una suntuosa tenda da finestra. Lascio che la mente vagoli libera, mi sento ondeggiare, vorrei che il tempo si fermasse…apro gli occhi, li riempio di cielo e provo a indovinare se vincera’ il sereno oppure il maltempo.

Ha vinto il secondo, c’e’ odore di pioggia; superato l’abitato, marciamo sul lastrico romano vecchio di venti secoli; sotto le vibram sento i solchi di generazioni di carri e nella frescura silente del nuovo giorno cerco di immaginare cosa dev’essere stata la vita da queste parti quando in Galilea cresceva un giovanetto che avrebbe fatto parecchio parlare di se’. Il ponte e’ breve perche’ e’ stretto il canalone che deve superare. Seguo chi nella fila mi precede e lancio uno sguardo in basso alle rocce che in autunno d’acqua. Ora una stentata vegetazione le ricopre, qualche cespuglio di ginestre cui le ombre dei crinali non consentono di fiorire, vedo euforbie dalle foglie lunghe e sottili in regolari file di due.
Un ripido sentiero ha sostituito la carrareccia; la fila sale sbuffando, la conversazione si fa ardua e lascia il posto al gioco dei muscoli. Procediamo per la massima pendenza, tagliando i tornanti asfaltati della camionabile. Incrociamo una coppia di ciclo-turisti tedeschi: le biciclette sono inverosimilmente cariche ed ogni punto di sostegno e’ stato sfruttato ma i due, donna in testa, procedono decisi, i muscoli del collo irrigiditi come corde tese. I polpacci si gonfiano ad ogni pressione sul pedale e ho l’impressione che i pneumatici spariscano sotto il gravare di un doppio carico.
Una piccola orchidea violetta ondeggia accanto al mio scarpone. La vedo all’ ultimo istante e rischio di calpestarla. E’ piccola, e’ vero, ma non per questo meno preziosa, il portamento elegante, giustamente orgogliosa della propria bellezza e della tenacia che l’ha fatta crescere in un’arida pietraia. E’ proprio vero che l’armonia puo’ nascondersi ovunque: basta guardare bene, cercare…

Qui la roccia e’ marrone bruciato, traforata come emmenthal, corrosa e scabra. Evitiamo una serie di alberi irti di lunghi spini detti Spini di Cristo perche’ si favoleggia che con essi sia stata fatto il cerchio di spine con cui fu per dileggio incoronato Gesu’ sulla croce. Oltre un muretto a secco straripa un giallo macchione di euforbia fiorita che pare il lavoro di un abile giardiniere.
In alto continuano ad accavallarsi nuvole sempre piu’ scure ma forse per la violenza del vento che le trascina nessuna riesce a scaricarsi. Dopo un fitto boschetto di quercioli sbuchiamo in una vasta radura erbosa, un pascolo che ha al centro uno dei tanti stagni artificiali creati secoli fa per abbeverare il bestiame in mancanza di corsi d’acqua naturali. Ai bordi crescono alcune varieta’ di piante acquatiche tra cui una varieta’ che al sommo termina con un ricco sbuffo color panna. Il primo della fila dice qualcosa ad alta voce e subito esplode il disordinato gracidare delle rane che abitano lo specchio d’acqua. Ci sistemiamo per il pranzo al sacco e scatta frenetica la solita giostra delle foto: mai visto fare tante fotografie in vita mia! Quasi tutti, esclusi il sottoscritto e forse ancora un paio, hanno portato la fotocamera, cosi’ il gruppo deve restare fermo a lungo ogni volta, in attesa che tutti si siano alternati allo scatto.
C’e’ chi si misura con un panino al prosciutto, chi come me rosicchia carote e mele o un tocco di formaggio. Alessandro estrae dal tascapane di tessuto jeans il quaderno delle citazioni e, come spesso succede, ci legge qualcosa in carattere con il posto in cui ci troviamo e con il nostro camminare lento. Il tono della voce, semplice e gentile, completa la magia del luogo, e’ come il giusto condimento per una pietanza gia’ saporita e gustosa. Gianfranco fa un gesto, alza il braccio al cielo: i nostri primi due grifoni volteggiano alti, sembrano aquiloni, tanto le lunghe ali stanno immobili. Si librano sulle correnti, perche’ il peso delle ali e’ tale da non consentir loro di agitarle tanto spesso, quindi se vogliono restare in volo a lungo devono diventare esperti di termiche e sfruttarle per rimanere alti. Distesi sull’ erba umida ne ammiriamo le eleganti evoluzioni che a tratti li portano cosi’ in basso da consentirci di studiarne i particolari che li rendono davvero molto simili ai cugini avvoltoi.

Da un po’ di tempo il cielo e’ terso e il sole picchia al punto che alcuni di noi si sono spogliati per migliorare la tintarella. D’un tratto dai margini seghettati del bosco compare un nuvolone nero, tondo e piatto come l‘immensa astronave di “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. Quasi sicuramente per noi significhera’ un incontro mooolto ravvicinato con na bella quantita’ di pioggia. Infatti abbiamo appena il tempo di infilare le mantelle e coprire gli zaini che il bosco risuona del fragore dei tuoni, schioccano alcuni fulmini ed Helène grida che ha paura e corre a rannicchiarsi tra Gianluca e Sabrina, bruna poliziotta sammarinese ma anche ottima ballerina di sansa e merengue. E’ grandine la pria cosa che ci arriva addosso, grandine secca che frusta le spalle e la testa. I chicci grandi come fagioli rimbalzano ovunque e il vento li trascina in turbini ad ogni istanti diversi. Il fogliame sopra le nostre teste geme per la violenza delle raffiche di ghiaccio ma noi proseguiamo, i pantaloni gia' zuppi dal ginocchio in giu’, attenti a non scivolare sul terreno che si sta rapidamente trasformando in una palude.

Venti minuti e la nuvola, cosi’ come era comparsa se ne va, ritorna l’azzurro e il sole. Bellissimo questo scatenarsi degli elementi! Restiamo a guardarci e commentiamo, i sorrisi gocciolanti ma pieni, come bambini che hanno avuto il permesso di sguazzare nella pozzanghera. La vegetazione fuma, il vapore s’innalza dall’erba e per qualche minuto mi pare di essere in una foresta tropicale; riprendono a cantare gli uccelli e noi riprendiamo il cammino mentre gia’ qualcuno si libera dei poncho.

4° parte
E’ quasi mezzanotte e credo che gli abitanti di Valun, attualmente sessantotto, siano tutti a dormire; sul piccolo porticciolo la pace e’ qualcosa di corporeo, tanto la posso percepire attorno a me, densa e avvolgente come un plaid di cachemire. Seduto sul bordo freddo della banchina, avverto a malapena lo sciabordìo dell’acqua, ridotto a un sussurro cadenzato. Non c’e’ luna ma il cielo senza colore gremito all’ inverosimile di stelle mi ricorda il planetarium di scolastica memoria. A pochi metri dondola un grande catamarano con bandiera svizzera. Piu’ in la’, come fratellini in cerca di protezione, una manciata di minuscoli pescherecci dai colori vivaci.
I miei compagni di camminata sono fermi davanti al ristorante, chiacchierano animatamente e ora le loro voci mi arrivano a frammenti incomprensibili. Passo tra le dita una pallina trovata fra i ciotoli, alzo il naso al Carro Minore, distrattamente cerco la Stella Polare ma in realta’ penso, cullandomi in un senso di benessere che sento scorrere nelle vene come valium. Penso che il caso a volte lavora davvero bene. Mettendo insieme un gruppo di persone assai assortito ma che ben si sta amalgamando. Leggo negli occhi di tutti un genuino piacere per cio’ che stiamo condividendo. Eravamo 13 sconosciuti sparsi in angoli diversi del Paese e ora viviamo un’intera settimana della nostra vita senza quasi allontanarci mai l’ uno dall’altro. Una bella opportunita’ di condivisione, mi dico, mettendo alla prova la nostra capacita’ di adattamento, dormendo insieme, pranzando insieme, anche faticando insieme. In una societa’dove l’ individualismo la fa sempre piu’ da padrone, questa esperienza puo’ essere un bagno salutare, un modo per conoscere, nella misura in cui lo desideriamo, la persona che ci cammina accanto. Patrizia, per esempio. Lei mi ha colpito, devo dire non da subito. Si’ in un primo momento ho fatto fatica a metterla a fuoco poi, osservandola, ascoltandola parlare, ho colto cose interessanti, la caparbieta’, la grinta di un passo misurato ma deciso, lo sguardo fermo ma limpido, uno sguardo che non sfugge ma che anzi dice cio’ che magari le labbra tacciono.
Penso…penso che quando ho occasione di transitare da luoghi molto affollati, stazioni o aeroporti per esempio, mi capita di osservare, sono abituato da sempre a osservare molto, le persone che mi scorrono accanto. Guardo l’espressione dei loro volti, la postura, come camminano, cio’ che indossano, le loro scarpe. Si’, le scarpe, perche’ dalle scarpe si puo’ imparare molto di una persona. Faccio attenzione agli sguardi e se succede che incrocino il mio, allora a volte capita che per un istante mi si apra una finestra sulla loro vita. Capita, si’, e quando cio’ che intuisco mi piace provo talvolta un’irrazionale punta di rammarico, consapevole di aver per un istante lambito l’esistenza di qualcuno che mi sarebbe piaciuto conoscere e che invece non rivedro' mai piu'.

Qui, ora, davanti a un mare color del petrolio ma ugualmente attraente, mi compiaccio che il contatto non sia cosi’ fuggevole, Cres, le nostre tende, il nostro campo, non sono un aeroporto e per qualche giorno ancora saremo tutti qui, insieme.
Sabrina, poliziotta con funzioni di maestra d’asilo. Me lo dice con una buffa espressione nei begli occhi lunghi, quasi schernendosi, con lieve, piacevole accento romagnolo che tanti ricordi riporta alla mente.
“Avevo voglia di stare con dei bambini – spiega - il mio oramai e’ gia’ grande e stare con quei pupattoli mi fa bene…”
Terminato l’anno, rientrera’ nella sua divisa, negli stivaletti da motociclista, tornera’ a preparare i rapporti sugli incidenti. Ha un bel passo anche lei, leggera la falcata e spontanea, in armonia con la figura alta e slanciata. Si capisce che camminare, anche a lungo, per lei e’ naturale. E infatti tiene sempre il ritmo del gruppo e anche dopo molte ore non mostra affaticamento alcuno anche se, magari, stanca lo e', come noi. Quando puo’, ama camminare in testa a tutti. Per non avere ostacoli davanti ai piedi e agli occhi. Cosi’ si sente piu’ libera. Lo so, perche’ capita lo stesso anche a me

Lubenice, coevo a Beli, e’ un villaggio davvero singolare per la posizione in cui e’situato, alto su di una rupe di 378 metri a strapiombo sul mare. Posizione strategica, la sua, perche’ da qui si poteva controllare l’altipiano fino al lago di Vrana e le vie marittime del Quarnero. Tracce di mura, un tozzo e massiccio campanile che quasi fa scomparire l’adiacente chiesetta, poche case dall'aria acciaccata, vicoli stretti, lo scorcio fresco di qualche micro orto sottratto alla pietra, la piazzetta assolata in parte colonizzata dai tavolini di un bar al quale ci precipitiamo, al termine di una salita tutta sotto il sole e in gran parte attraverso una ripida stradina in cemento.
Il panorama e’ splendido seppur velato da una foschia leggera che stempera i contorni e dona all’immagine un che di fantastico, quasi una visione onirica.

“Ecco, laggiu’ e’ la spiaggetta dove sosteremo per il pranzo. Si potra’, volendo, fare anche il bagno”
La voce di Alessandro mi scuote dai miei vagheggiamenti. Seguo il suo dito. E’ una lunetta bianchissima al termine di un ripido dirupo scuro di macchia mediterranea. Racchiude un mare incredibilmente blu e cosi’ trasparente che ogni particolare del fondo e’ visibile. L’effetto e’ quasi ipnotico, ho la sensazione di poter allungare una mano e immergerla in quella frescura liquida. La discesa e’ rapida, perche’ ciascuno di noi vuole spogliarsi in fretta dello zaino e degli abiti cosi’ come della polvere e del sudore. Come cavalli che hanno sentito il profumo della stalla ci gettiamo per il sentiero, prima attraverso una vegetazione alta e ombrosa poi per un ghiaione che richiede molta attenzione. Lo spesso materasso di breccia e’ abbacinante, sotto il sole a picco, e risulta a tratti molto instabile. E’ uno zig zag che sembra senza fine; come l’orizzonte s’allontana man mano che ci navighi incontro, cosi’ la “nostra” spiaggia mi sembra irraggiungibile, una sorta di miraggio. Ad un certo punto perdo il sentiero e mi chiedo come abbia fatto, perche’ stavo attento ai segnalini rossi e bianchi. La ripida discesa grava sui legamenti e caviglie e ginocchia protestano. Sosto all’ombra di un ginepro che pare una scultura per una sorsata dalla borraccia e osservo il volo di due grifoni; anche da questa distanza se ne intuisce l’immensa apertura alare. Mi pare che il piu’ basso stia guardando in giu’: forse scruta proprio noi chiedendosi chi siano quelle goffe creature che arrancano nel suo territorio.

I primi sono gia’ in costume e cautamente saggiano con il piede l’acqua. Helène e’ come sempre in posizione per carpire immagini con la sua onnipresente, nuovissima fotocamera Canon. E’ molto bella, Helène, e in lei sono i colori di Van Gogh, pieni di luce e di armonia. Lo sguardo si mostra inquieto, mai fermo, anche se a volte sembra remoto e malinconico, anche quando scatta foto. Patrizia ha subito catturato l’ unico coriandolo d’ombra, a tutela di un’epidermide delicatissima che non le consente alcuna disattenzione. Gianluca, atletico giovanottone com’asco, scende impavido in acqua, altri lo seguono. La voglia e’ troppa e il caldo pure, cosi’ mi libero anch’io dei vestiti e mi fiondo in acqua. Sul primo momento la sensazione e’ quella del ghiaccio liquido poi …benessere…
Nuoto rapido per qualche minuto fin dove i piedi non toccano il fondo, sentendomi nuovo e in gran forma. Lassu’ in alto il paesino di Lubenizze appena si vede, nascosto dalla cresta rocciosa verticale come un muro. Spunta appena l' estremita' del campanile e pare una matita puntata contro il cielo: se penso che fra un paio d’ore dovremo tornare lassu’, mi vien male.
 Spesso, durante i nostri anelli giornalieri, Alessandro ci invita a un momento di silenzio. Per ascoltare noi stessi, la natura e metterci in sintonia con essa.
Questa volta, inaspettatamente, propone di …FARE MUSICA!
“Ognuno s’inventi uno strumento musicale – spiega - un bastoncino sulla lattina della coca, un vasetto di vetro pieno di sassi a mo’ di maracas, un filo d’ erba in cui soffiare, qualunque cosa insomma, poi scegliamo una canzone e la eseguiamo. Fra poco, appena ce ne saremo andati da qui”.

Da quasi un’ora ci stiamo godendo l’ombra di una larga tettoia che poi e’ la “sala da pranzo” di un bar-trattoria trovato lungo la strada. La salita su asfalto e’ stata lunga e ci serve riprendere fiato. Corrono le caraffe d’acqua sui lunghi tavoli mentre ce le passiamo l’un l’altro. Sulla superficie appannata del vetro scendono piccole gocce di condensa; prima esitanti poi sempre piu' decise rotolano sulla pancia trasparente della brocca e marcano il tavolo in umidi cerchi.
A pochi metri da noi, nel mezzo di un’aia troneggia un grosso distillatore artigianale. E’ arrugginito e privo della serpentina di raffreddamento ma la costruzione solida fa pensare a una locomotiva a vapore cosi’ me lo studio attentamente assieme a Francesco. L’ interno del locale e’ spoglio e neppure assomiglia ai nostri bar, sembra piuttosto una normale camera, il frigo nell’angolo, due tavolini, un paio di vecchie vetrine con qualche merendina in croato che ha l’aria di stare li’ dal giorno dell’inaugurazione.

“UNO...DUE…TRE !! “
Disposti in fila per tre, sommariamente allineati, dobbiamo sembrare la caricatura di una banda cittadina che si e’ imbattuta in una damigiana di grappa. Il nastro asfaltato si snoda davanti a noi, diritto che pare di essere in Colorado. In cielo qualche rara nuvoletta e noi, incuranti del caldaccio, attacchiamo con la musica.

E’ una cosa terrificante, una cacofonia di suoni strani che lascia increduli anche quattro paciosi gabbiani in transito sulle nostre teste. Non riesco a immaginare un’accozzaglia di musici peggio assortita di questa che alle tre del pomeriggio sfila per le strade deserte (per fortuna) dell’ isola. Sognando di essere alla testa della banda del 1° Scottish Guards Regiment di Edimburgo, marcio impettito al centro della carreggiata, impugno e agito il bastoncino da trekking a guisa di mazza. Cercando di seguire il ritmo (ma quale ritmo??) della musica (ma quale musica??), ad ogni passo sollevo in alto il mio strumento, mentre Gianfranco, Frank, marca il tempo con un fischietto, Fabiana gratta un barattolo con la forchetta, ciascuno fa rumore come puo'.
E’ un’arruffato ma felice branco umano quello che alfine sbuca sulla camionabile principale dell’ isola. Qui, a pochi metri dall’incrocio ci aspetta l’autobus. No, non abbiamo una prenotazione, l’organizzazione del trekking non e’ onnipotente, ma Vergari dice che passera’tra circa 30 minuti. Come si fa a non credere alla propria guida? Dunque scarichiamo gli zaini accanto al palo della fermata e fiduciosi restiamo ad arrostirci al sole, mentre tre ardimentosi, Patrizia, Fabio Z e Gianluca decidono di farsi a piedi i chilometri che ci separano dal campeggio di Osor: circa un’ora e mezza di cammino.
Alla fermata non siamo soli, c’e’ anche un indigeno che con aria afflitta e poco motivata tenta invano di ottenere un passaggio. Ad ogni opportunita’ mancata mastica fra i denti parole incomprensibili. Passano dozzine di auto semivuote ma nessuna fa neppure la mossa di rallentare, pero’, ditemi voi, ma lo tirereste su uno cosi’ scarmigliato, tutto color grigio, pelle e stracci, e con una rara faccia da tagliagola?

Ogni volta che in cima al rettilineo si profila qualcosa di piu’ grosso di una bici, guardiamo ansiosi ma il tempo passa e del nostro bus nessuna traccia, finche' un richiamo di Vergari ci fa schizzare su come molle.
Afferro lo zaino, branco il bastoncino, rapido mi guardo intorno per non dimenticare nulla
e solo allora alzo la testa ... giusto in tempo per vedere l’autobus che ci passa davanti come una scheggia e scompare all’ orizzonte. Bel colpo!
Per un istante restiamo li’ come bibliche statue di sale poi, passato lo shok, arriva il momento delle parolacce, e il campionario che
mettiamo insieme, credetemi, si rivela completo, vario e colorito.
Il grigio croato conferma che quella era l’ultima corsa della giornata, cosi’ tentiamo l’autostop, forti anche della presenza di due attraenti pulzelle. Detto e fatto, Helène libera la bionda chioma , stringe a nodo la camicetta sopra l’ombelico, gonfia i pettorali e alza le braccia alla prima auto che subito inchioda rischiando un tamponamento con le successive. Tre salgono e via. Ma ci teniamo Helène, altrimenti gli ultimi maschietti che fine farebbero?
Pochi minuti e un’altra macchina si ferma, anch’essa convinta dai solidi argomenti della nostra compagna. Restiamo in 4, quando due automobiliste ci avvertono che il bus passato mezz’ora prima stava facendo scuola guida.
“Quello in servizio arrivera’ a minuti, state tranquilli!”.
Sollevati anche se dubbiosi, attendiamo. Pochi istanti e infatti eccolo qui.
Durante la breve corsa superiamo i nostri tre amici ancora in marcia. Chiediamo ma l’autista neppure ci sente.
Arriveranno dopo una mezz’ora, con Alessandro ad accoglierli all’ ingresso e il gruppo gia’ alle prese con le tende, in un campeggio semideserto immerso nel fresco di una grande pineta prospiciente il mare.
Tutti in liberta’. Chi si precipita alle docce, chi preferisce tentare un bagno in mare. Helène, come sempre scatta foto.
Alle 20 cena in paese: pare ci sia un ristorantino di pesce davvero fantastico. Domani, ultimo giorno di camminata e salita del monte Ossero, 588 mt s.l.m, dopo aver superato il ponte girevole che collega Cres con Lussino.
Poi sabato mattina si tolgono le tende.
Letteralmente.
Purtroppo.

Arriviamo al ristorante Bonifacic seguendo piccole frecce affisse sui muri scrostati di Osor. L’ingresso non impressiona, stretto com’e’ tra due case grigie ed anonime, ma l’interno, arioso e fresco, trasmette subito un senso di benessere. Colori chiari nell’arredo e un lussureggiante giardino che “entra” dalle vetrate di fronte a noi. In realta’ l’accesso principale si trova proprio li’, dalla parte del giardino, a un metro dal mare. E’ un giardino pieno di atmosfera, privo di limiti geometrici, una quantita’ di cespugli fioriti, di macchie colorate grandi e piccole, valorizzate da lampade nascoste, che si rincorre alla base delle piante piu’ alte, incornicia il passaggio e conduce gli ospiti ai tavoli.

Ci accoglie la proprietaria, Stellamaris, Stella Marina in latino, una signora che sembra arrivata ieri da Trieste, perche’ il dialetto e la cadenza sono proprio gli stessi. Il sorriso e’ pieno e in un attimo ci sentiamo come a casa nostra.
Molto invitante il menu, un misto di carni alla griglia e numerose specialita’ di pesce. Gli agnelli di Cres sono rinomati per la delicatezza delle carni, aromatizzate dalle erbe che gli animali trovano nei pascoli percio’ un gran numero di noi lo scelgono. Dopo il buffet di verdure e un assaggio di pate’ di scorfano da spalmare sui crostini, arrivano risotti con scampi e asparagi selvatici e tagliolini al pesce. Le porzioni sono esagerate, sufficienti per due. Lo stesso vale per l’agnello arrosto, stupendo e tenero come burro.
Ai tavoli accanto siedono in maggioranza tedeschi sicuramente arrivati molto presto perche’ gli ultimi due spariscono prima delle nove
“Ben, adesso semo soltanto noartri” dichiara soddisfatta la padrona di casa, continuando ad affaccendarsi rapida attorno a noi. Il vino e’ gradevole, sia bianco che rosso, e le caraffe non fanno in tempo ad arrivare che gia’ restano vuote. Arrivano fiamminghe di pesce pescato stamattina, con patate e verdure del loro orto.
Al termine Stellamaris ci offre un liquore casalingo di ciliegie dal bel colore bordeaux.
Visto il trattamento impeccabile e caloroso, prenotiamo per domani sera, l’ultima su questa bell’isola.
Problema: uno del gruppo, Fabio C. compie gli anni. Chiediamo se ci potrebbe preparare una torta per festeggiarlo.
Un gesto sbrigativo, poche parole in dialetto e sappiamo di essere in buone mani.

L’aria e’ tiepida, ricca di sentori che vorrei portare via con me. Rientriamo al campeggio lungo un viottolo che si snoda tra muretti a secco; nel buio intuisco orti e piccole corti fiorite. I dischi di luce delle nostre torce illuminano il selciato sconnesso e le oscillazioni fanno danzare le nostre ombre come pipistrelli. Costeggiamo una piccola insenatura, vaghe luci provengono da una barca a vela ormeggiata nei pressi della riva. Un gruppo di persone parla sommesso nell’ovale del pozzetto e le candele conferiscono ai volti un pallore lunare e a tutta la scena un’
atmosfera ultraterrena.

Due cerimonie, al campo, prima di ritirarci. Al centro del cerchio di una candelina Alessandro consegna gli attestati di partecipazione al trekking e forse siamo tutti troppo stanchi per apprezzare appieno il significato simbolico di quel rettangolo di papier mais.
Resta ora da concludere un gioco di cui non ho finora parlato, quello degli Angeli. Nel corso della prima giornata ciascuno di noi aveva estratto il nome di un partecipante, divenendone cosi’ l’Angelo personale ma con l’obbligo di tenere per se’ il nome del “protetto”. Su appositi foglietti ognuno elenca tre desideri (umanamente possibili, e’ chiaro). Ogni Angelo avrebbe dovuto cercare di realizzarne il maggior numero possibile, senza pero’ rivelarsi.
“Vorrei un massaggio ai piedi dopo la camminata” oppure “Mi piacerebbe trovare la mattina fuori dalla tenda una tazza di tisana fumante” o ancora “ Gradirei che qualcuno recitasse per me una poesia in croato” e via cosi’. La cosa era stata presa molto sul serio, e nei giorni successivi si e’ assistito alle piu’ varie e buffe manovre per riuscire nell’ intento, contribuendo cosi’ a farci ridere tutti come matti e a rinsaldare ulteriormente lo spirito di gruppo, che e’ poi lo scopo ultimo del gioco.
Stasera, dopo giorni di trame e intrallazzi strani, si scoprono le carte, ogni Angelo si dichiara nel cerchio di luce, chiama il protetto e lo abbraccia. L’atmosfera e’ piacevolissima, un misto di spensierata allegria e di furbizie infantili. Gia’ s’avverte, pero’, l’imminenza del distacco, la consapevolezza che anche questa avventura volge al termine.

06.00 di venerdi 21 maggio.
Zaini leggeri, borraccia, colazione e pranzo al sacco. Per non perdere tempo, per anticipare il caldo che da alcuni giorni sta offrendo temperature estive, perche’ l’anello di oggi e’ piuttosto lungo.
Facce assonnate, movimenti legnosi da zombies, rapido andirivieni con le toilettes poi via.
Sfiliamo per i vicoli deserti di Osor. In epoca veneziana fu forse il piu importante centro commerciale dell’isola, trovandosi alla congiunzione tra Cherso e Lussino, sul canale realizzato si pensa, nel primo secolo dopo Cristo. Per il transito delle navi da un lato all’altro si pagava un pedaggio, prima in merci poi in denaro, e questo contribui’ al sorgere di botteghe e magazzini.
In seguito, causa anche la malaria che in piu’occasioni ne falcidio’ pesantemente la popolazione, Ossero decadde al punto che il principe e il capitano, sempre nobili veneziani, si trasferirono a Cherso. Risalgono a quelle tristi circostanze le nuove mura che racchiudono una parte piu’ piccola della citta’ che oggi conta appena ottanta residenti.
Vie e palazzi ancora raccontano di quella lontana epoca di fiorente attivita’ e benessere a cominciare dall’ex palazzo comunale, all’angolo con la piazza su cui s’affaccia la splendida cattedrale del 1463. Semplicissima nella sua veste di marmo bianco ma ricca di preziose lesene e statue, presenta un magnifico rosone centrale e un’ inusuale facciata a botte ornata dalle statue di Cristo, San Nicolò e San Gaudenzio, patrono di Ossero.
All’ interno, altari e quadri del periodo tra il 16° e il 18° secolo, preziosi paramenti e accessori liturgici in oro e argento.
Fuori, disseminati lungo il bordo della strada e negli slarghi, gli sguardi muti, a volte allucinati e strani, c’imbattiamo in alcune grandi sculture moderne in bronzo, opera forse di qualche artista locale.

Superato il ponte girevole che alle 9 e alle 17 di ogni giorno viene aperto per consentire il passaggio al naviglio, seguiamo l’asfalto per circa un chilometro poi prendiamo per un sentiero sassoso, tra euforbie simili a palme nane. Compaiono anche timo e salvia che salendo incontreremo con sempre maggior frequenza. Il percorso s’inerpica per il fianco della montagna con frequenti curve. Dopo circa 90 minuti sostiamo ad un piccolo rifugio gestito da un buffo personaggio che con flemma olimpica ci serve tazze di te’ caldo e bibite. Chi lo desidera puo’ marcare un’apposita cartolina usando il timbro contenuto in una scatoletta murata all’esterno. Dal piccolo terrazzo la vista e’ incantevole, su Lussinpiccolo e Sansego (Susak) e sulla lunga sagoma di Cres che somiglia al dorso di un pachiderma immerso in una pozza blu.

Proseguiamo lungo il crinale di Monte Ossero verso cima San Nicolò, 557 mt, dove c’e’ una chiesetta. L’orizzonte, ancora piu’ vasto mostra le isole di Rab, Pag e e Olib, Silba, Ilovik e Premuda, tutto l’arcipelago, insomma, se si esclude Krk, persa nella foschia del nord-est.
Il sentiero ora e’ piu’ ripido e superiamo un tratto leggermente esposto dove le mie vertigini consigliano di non guardare in basso.
Quattro ore e mezzo dopo aver imboccato il sentiero arriviamo al cippo in pietra che segna la vetta Teledrin a 588 metri; 50 metri piu’ in basso e’ la grotta dove si dice abbia soggiornato San Gaudenzio, fuggito da Ossero, di cui era vescovo, cacciato dagli abitanti per averne piu’ volte denunciato la dissolutezza. Il sant’uomo si rifugio’ quassu’ da dove, si dice, maledi’ tutte le serpi velenose. Si racconta che per questa ragione ancora oggi in tutto l’arcipelago non esistono rettili velenosi. Ragionandoci sopra, ancora mi sfugge il nesso tra gli abitanti dissoluti e la maledizione ai rettili ma non e’ detto che le leggende siano sempre esempi di logica stringente, no?

Anche qui, come in mille altre occasioni, raffiche di fotografie: di gruppo, ripetute tante volte quante sono le fotocamere disponibili, poi di questo con quella, di quell’ altro davanti al panorama, degli altri due che-vogliono-la-foto-ricordo-insieme…insomma una valanga di pose, dalle piu’ serie alle piu’ matte!

Prima di iniziare la discesa al mare, la nostra guida propone 30 minuti di silenzio, durante i quali ognuno potra’ dedicarsi a se’ stesso e/o alla contemplazione di cio’ che lo circonda.
E’ un momento che per me vola lontano in pochi istanti assieme alla mia mente mentre mi godo il liscio calore di un lastrone di pietra; un battere di ciglia, cosi’ mi e’ sembrato, che solo l’orologio puo’ smentire.

L’autobus, per una volta puntuale, ci riporta in pochi minuti alle soglie del campeggio, comprimendo ancora una volta il tempo e lasciando in me un fuggevole senso d’infastidito stupore.
Da un varco tra due pini marittimi fisso il nostro campo, un anello di piccole case di tela colorata, i compagni intenti alle ultime incombenze, la biancheria stesa ad asciugare, il mio zaino, che per sette giorni mi ha accompagnato in giro per l’isola. Ancora poche ore, l’ultimo appuntamento a tavola, poi domani mattina smonteremo ogni cosa, ritorneremo a casa.

La cena, ancora da Stellamaris, e’ un tripudio di pesce e carne, verdure e leccornìe varie, sempre in quantita’ davvero trionfali. La torta, delle dimensioni di una ruota da 500, fa da chiosa a un’incontro, quello con i proprietari del locale, che, come in un’ideale serie di matrioska, e’ a sua volta chiosa di una vacanza davvero intensa e gradevole.

Oltre le ultime file di alberi la natura ha deciso di regalarci un tramonto di prima classe, all’altezza di un vecchio filmone alla David Lean o alla John Ford.
L’orizzonte si colora di una sinfonìa di rossi, di ocra e di viola in ogni possibile gradazione. Un mare liscio come vetro brunito ne replica l’immagine capovolta, solcata da.
Mi aspetto un adeguato sottofondo musicale, magari un crescendo di violini che portino in primo piano la scritta “FINE” e invece arriva soltanto una zanzara che mi volteggia attorno pungendomi all’orecchio.
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Ristoranti:
A Valun: Bistro-Pizzeria MA.MA.LU. tel. 051-525008
A Osor: Bonifacic. Tel.051-237413,
e-mail:[email protected]

 

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