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Sabato, 2 Marzo 2013

VIAGGIO-SAFARI in KENYA - ETHIOPIA

Scrivo per mantenere vivo il ricordo di questa straordinaria esperienza e dei suoi folli motivi di divertimento; come ringraziamento ai miei compagni di viaggio che hanno reso ogni momento a volte più piacevole, a volte anche solo più sopportabile; come occasione per fissare alcune riflessioni che nella maggior parte dei casi risultano dal confronto che ho avuto con voi e in cui potrete talvolta riconoscervi. Vi racconto l‘Africa con gli occhi di chi la vive per la prima volta e ne scopre, pole-pole1, gli abitanti, i modi, i pericoli e le contraddizioni. Mi scuso anticipatamente con voi, che conoscete l’Africa da lungo tempo, se i miei pensieri vi risulteranno banali e/o imperfetti, frutto, come sono, dell’esperienza di sole poche settimane. Ma viaggiare in un paese straniero reclama il tentativo, non sempre agevole, di comprenderne i modi e le ragioni. Ed io non ho potuto esimermi. Ho cercato di farlo senza preconcetti e, ammetto, rivedendo di continuo le mie posizioni. Vi ringrazio per avere messo a disposizione le vostre e esperienze e le vostre considerazioni. Mi auguro che questi miei pensieri potranno eventualmente essere motivo di ulteriori momenti di condivision

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Vagabondo0

Può essere il paradiso oppure l’inferno.Questo diario vuole essere lettura amabile anche per chi non ha avuto la possibilità di partecipare a questo viaggio, magari avrebbe voluto essere presente, o ha aspettato per 20 giorni nostre notizie (e forse non le ha mai ricevute!!) …e naturalmente per chi, vantando ben più lunga esperienza di me in fatto di diari di viaggio, mi ha lanciato lo spunto (e la provocazione) di scrivere questo, nell’attesa di un ben più atteso resoconto dallo Zimbawe (;o).

E’ una storia di incontri e fughe, di depistaggi e smarrimenti, di notti insonni e sveglie all’alba. Racconta di un viaggio tanto affascinante quanto proibitivo, ma forse è stato proprio lo sperimentare condizioni tanto estreme che lo ha reso così speciale. Mi era stata preannunciata come un’esperienza che avrebbe richiesto un certo spirito di adattamento nell’affrontare strade orribili, condizioni climatiche estreme, nuvole di polvere e sabbia, sistemazioni essenziali, distanze considerevoli e ambienti non privi di pericoli. Prima di partire, qualcuno mi ripeteva "non sai quello che ti aspetta". Qualcuno scommetteva sul fatto che me la sarei fatta sotto dalla paura. In alcuni momenti è stato proprio così. L'impatto è stato fortissimo.

1° giorno – 10 ottobre, domenica.
Sono le sette quando partiamo da Nairobi, i fuoristrada carichi di generi di prima necessità tra cui scorte di tonno John Wein, dadi Knorrox, biscotti Gran Riserva e poi acqua potabile, gasolio, noi carichi di curiosità e aspettative. In quella che è attualmente (ma ancora per poco) la casa di Lorenzo a Muthaiga, abbiamo lasciato qualche indumento che speriamo non ci servirà e tutto il superfluo che ci viene imposto dal vivere in una civiltà moderna: Annette ha lasciato il phon (ma non ha rinunaciato al pelapatate e, direttamente dalla Somalia, la š?ša); Davide il Lariam, spazzolino e dentifricio (…e forse anche qualche altra cosa); io il carica batterie della macchina fotografica… Nonostante lo spazio liberato dalle nostre dimenticanze, e ancora preoccupato del peso dei nostri bagagli, Lorenzo ci invita a lasciare qualche carica batteria dei nostri telefoni cellulari.

Per me e Federica è la prima volta in Africa e sarà una continua scoperta: luoghi straordinari, condizioni proibitive, il disagio di dover rinunciare ai comfort a cui la vita ci ha abituato e alle comodità che abbiamo imparato a dare per scontate. Per gli altri c’è il dubbio sulla nostra capacità di adattamento alle condizioni di vita che dovremo affrontare. “Ma se avessimo voluto la comodità saremmo potuti andare di lodge in lodge! La nostra filosofia di viaggio è che si deve vivere l'avventura così come la vissero quegli occidentali che, per primi, misero piede in luoghi dove la natura è sovrana di tutto...” Anche gli altri sono tranquillizzati.

Lumbaye compare all’improvviso da bordo strada, sbucando con fare lesto ed elegante da una piccola folla con un fagotto di tutto quello che gli servirà. Al nostro passaggio salta sul pick-up con l’agilità di un keniota e la tecnica affinata dall’esperienza di 38 anni di viaggi in matatu. Lo salutiamo al grido di Sciccherie!! Alla guida del pick up c’è Lorenzo, Ritz, nostro chief leader che nel corso dei 25 anni di vita passati in Kenya ha imparato a parlare a umani e animali d’Africa. Con lui sul pick up c’è Piero, suo amico di gioventù e con infanzia passata in Uganda. Attraversiamo la città affollata di gente che cammina a bordo strada in lunghe e lente processioni e dal traffico isterico e disordinato di macchine a frammentazione, matatu e carretti che superano a destra e sinistra, e passano rigorosamente a semaforo rosso.

Usciamo in direzione nord, verso il Monte Kenya, destinazione lago Turkana. Attraversiamo la valle del Tana e risaliamo verso il plateau di Laikipia. Facciamo sosta al Nakumatt di Nanyuki, dove brindiamo all’inizio del viaggio con Tusker e Biltong. Ma la sosta è breve: oggi ci aspettano circa 300 km di strada in condizioni che vi sapremo dire solo al momento e che stabiliranno dove potremo accamparci per la prima notte. Ci rimettiamo presto in marcia e attraversiamo Timau, le colline di Lolldaiga, scendiamo verso le pianure di Isiolo, in un continuo prendersi e rincorrersi con i matatu carichi di gente e cianfrusaglie che ora ti precedono immettendosi da bordo strada, ora te li trovi di fronte contromano impegnati in un azzardato sorpasso, ora superano la potenza dei due fuoristrada distribuita su otto persone e 15 kg di bagaglio a testa. Davide (Ajente, Capo Masai) alla guida della Land Cruiser e Marco (Amico di Ajente, Porporato Masai) nonché navigatore al suo fianco, sono avvisati. Gli altri già dormono.

I Matatu sono una forma di trasporto pubblico in Kenya: minibus (solo formalmente) a 1 posti, più un autista e un conduttore.

Sono molte le attese e le paure che mi accompagnano. Visiteremo terre inospitali, regioni che nella notte dei tempi hanno visto i primi passi dei nostri progenitori e che, da allora, hanno conosciuto pochissimi visitatori. Incontreremo popolazioni che vivono oggi come i propri antenati in regioni dove la nostra moderna civiltà non potrebbe adattarsi, gruppi etnici che nei prossimi anni rischiano di scomparire per l’avanzare di quella stessa civiltà. Affronteremo un viaggio che, tra quelli affrontati dai veterani del gruppo sarà il viaggio più duro sotto quasi tutti i punti di vista, per la gestione di acqua, diesel, peso delle auto, piste molto sconnesse...

Nonostante tutto, le aspettative sono alte e alimentate di continuo dai racconti e dalle emozioni di chi questa esperienza l’ha già vissuta negli anni scorsi e ne è rimasto affascinato al punto di rinnovare di anno in anno la propria presenza. L'euforia dell'arrivo... il piede che tocca il suolo africano, i colori, gli odori, il caos della megalopoli che ti accoglie, la vita così simile ed, allo stesso tempo, così diversa da coloro che abitano quel luogo arcano che è il Continente nero... lo scollinamento a nord di Nairobi e la Rift Valley che si mostra in tutta la sua magnificenza... la prima notte in tenda ed i rumori del bush che ti accompagnano nel sonno... Io aspetto di viverle… il resto sarà tutto da scoprire... Nessuna malattia è contagiosa quanto l’entusiasmo e, tra gli innumerevoli vaccini fatti quell’ormai lontano giorno di metà agosto, non ricordo mi sia stata prescritta nessuna profilassi contro il mal d’Africa. Sarà il paradiso oppure l’inferno.

Intorno a noi i freschi e rigogliosi altopiani, a sud, lasciano presto il posto alle terre aride e tormentate che accolgono nomadi e pochi esploratori e la depressione della Rift Valley di fronte a noi. Proseguiamo senza altre soste significative in un silenzio intervallato dalle previsioni di Davide sulla fine catastrofica che sconterà Mararal. Facciamo anche il nostro primo incontro con due donne della popolazione Rendille nei loro vestiti tradizionali che sbucano tra le acacie dove ci eravamo fermati per un pee-stop1.

Passato Archers’ Post e Laisamis, lasciamo la strada principale e ci inoltriamo verso le colline Ndoto. L’asfalto, efficientemente messo in posto da squadre di operai curiosi supervisionate da caparbi cinesi, termina all’improvviso lasciandoci solo polvere e sabbia. Proseguiamo tra scossoni e nella polvere fino a Ilaut, dove ci fermiamo per la notte. Ritz, abbandonata la strada, da subito prova della sua capacità di trovare il conforto del lugga 2di un torrente nell’aridità della savana: sarà li che faremo il campo per la notte, all’ombra della acacie e del Cervino delle Ndoto. Sono ormai passate le 6 p.m.. Io dividerò la tenda con Annette, Svizzera di passaporto ma Africana di adozione.
Mentre noi allestiamo le tende nel rossore del primo tramonto (non sappiamo ancora che questa sarà una fortuna destinata a poche occasioni mentre ci abitueremo presto a preparare il campo al buio) il mitico Lumbaye si adopera per farci conoscere la sua amabile cucina, in grado di soddisfare i palati capricciosi di francesi e italiani.

La prima sera Africana ha ancora molto da offrirci…gli occhi al cielo, il dito di Piero puntato a riconoscere i pianeti di Giove e Venere… i primi a piantarsi luminosi nel cielo. Poi ecco comparire la costellazioni della Lira, lo Scorpione, Cassiopea …guardando con il binocolo è appena visibile come un batuffolo la galassia di Andromeda... Ritz ha facile presa sull’entusiasmo delle due nuove leve e con lo stesso Piero; con loro fa una prima escursione nel bush per vedere un gruppo di gerenuk, raccontare storie di iene e francesi imprudenti, e fare propositi per l’indomani: sveglia alle 5 e camminata mattutina per vedere l’alba dal monte che domina il campo.
Foto 01
Torniamo al campo guidati dalla luna e da lampi di luce in lontananza. La prudenza e la consapevolezza che sarebbe ben poco onorevole (nonché oggetto di infinito scherno) trovarsi lungo il percorso di una colata di fango durante la prima notte Africana, ci portano a spostare il campo in zona più riparata da possibili ondate di piena che trascinerebbero via le nostre tende picchettate nel fondo sabbioso di un letto (per ora) in secca. Lumbaye docet mentre Filippo, il nostro meteorologo di fiducia, non ci dà il conforto di una previsione per la notte. Le nostre fatiche hanno termine vs le 10:30 p.m..

Passo la mia prima notte in tenda nel bush quasi insonne, e questa sarà solo la prima di una lunga serie. Durante la notte, la mia immaginazione si figura iene e leoni, acqua e fango, piogge torrenziali e debris flows, tra versi e fragori che sono coperti solo dall’insistenza del vento che sbatte incessante per tutta la notte contro le nostre tende.

2° giorno –11 ottobre, lunedì.
Ci svegliamo asciutti e osservati: tre indigeni della tribù dei Samburu sono venuti a farci visita ed ora ci scrutano, immobili, tenendosi a breve distanza. I primi passi nel campo, la colazione, la sistemazione delle borse sulle macchine... mi ci vuole un po’ per riuscire a iniziare la prima giornata nel bush con questi sguardi curiosi e pazienti che accompagnano ogni gesto, che seguono ogni movimento. …dovrò abituarmi anche a questo: la continua presenza di occhi attenti e inamovibili fissi su di noi, fino ad essere a loro volta inghiottiti dai più numerosi occhi delle nostre fotocamere. E’ questo il nostro primo incontro con le popolazioni locali, ed ora che è il turno della nostra curiosità possiamo ammirare i loro abiti ed i loro ornamenti.

Scattate le ultime foto (e pagati i nostri modelli) ci riportiamo sulla stessa strada polverosa che avevamo abbandonato la sera precedente alla volta del lago Turkana, dove cercheremo di passare la notte. Attraversiamo le colline di Ndoto, e oltrepassiamo la valle di South Horr. Davide segue imperturbabile la nuvola di polvere sollevata da Lorenzo davanti a lui. E qui cominciamo a conoscere le strade aspre e polverose del Kenya che già minacciano l’integrità delle nostre zucche e la scorrevolezza dell’apertura dei finestrini della Isotta (la nostra Land Cruiser). E qui comincia la gran panatura dei biscotti appena aperti e ben difesi dai Monster Monster Monster della coscritta Federica. Lungo la strada avvistiamo i primi animali: dromedari, dik dik, struzzi, gerenuk, in un paesaggio che è sempre uguale a se stesso.

Facciamo una sosta ad un rinomato Campo Merda3 che è anche villaggio Samburu , dove siamo subito accolti da alcuni ragazzini. Attraversiamo il villaggio facendo numerose foto ai dromedari al riparo del sole tra le acacie e poche ardite foto agli uomini in uno scambio di occhiate e di reciproca curiosità. Un anziano, forse il capovillaggio ci porta ai margini del villaggio per assistere all’incredibile spettacolo dei singing wells. Fisici perfettamente scolpiti che, all’interno di un pozzo, si passano l’acqua di secchio in secchio. Ripetono incessanti ed armoniosi lo stesso gesto in una danza ritmata e resa proficua dai canti che risuonano e si rincorrono tra le pareti del pozzo dal centro della terra e fino a noi. Un momento indimenticabile. All’improvviso, come in un brusco risveglio, il canto cessa, interrotto dagli sguardi arcigni di alcuni anziani e dalle accuse ferme e severe che ci vengono rivolte: il mzungu ha fatto una cosa bruttissima, cercando di fotografare gli uomini nudi all’interno del pozzo. Lorenzo si oppone con calma africana all’ira dell’anziano samburu e si fa portavoce della nostra (presunta) innocenza. Ma quando i samburu si fanno più ostili ed ogni intermediazione sembra impossibile, Lorenzo, sotto la minaccia di un taglio gomme, ci invita a tornare in fretta alle macchine, ai nostri documenti ed ai nostri soldi. Ci allontaniamo e siamo già distanti. Loro hanno paura che le nostre foto possano privarli della loro anima, la cosa più preziosa che hanno; noi temiamo che per quelle stesse foto loro ci portino via documenti e soldi, le cose più preziose che abbiamo con noi. Paradossalmente, il beneficio che entrambi avremmo da un simile furto sarebbe nulla…rimaniamo ognuno con i propri valori. Troviamo le nostre macchine, e le nostre gomme intatte, qualche donna ad attenderci e pronta a contrattare per collane di perline ed altri monili.

Lasciamo il villaggio e Filippo ci mostra la foto di nudo samburu: il suo bisogno di conoscitore e documentarista soddisfatto, il suo orgoglio di fotografo abile e temerario, il suo dono all’amata Sara (viziosa!!).

Proseguiamo senza sosta nel mutare del paesaggio e dei colori, il giallo arido si sostituisce al rosso fertile della terra, le chiare rocce ignee lasciano il posto alla nera lava (…e come pseudo-geologa non ho altro da aggiungere!!!). Ci fermiamo solo in vista del lago Turkana. Lorenzo esercita la sua attività preferita invitandoci a risalire su un montarozzo nei pressi di Kiborot Pass, da dove potremo sicuramente fare delle ottime foto. L’entusiasmo cresce, insieme ai ricordi di chi, ormai da anni, fa del Turkana tappa obbligata di ogni viaggio in Africa. Noi che ammiriamo il Turkana per la prima volta lasciamo che l’attesa e le aspettative siano riempite dai loro ricordi e dalla nostra immaginazione.

Costeggiamo il lago accompagnati dai Turkana che ne abitano le rive, respiriamo l’odore della soda e lasciamo che lo sguardo si soffermi ora sulla sue isole, misteriose ed irraggiungibili, ora sulle forme perfettamente coniche dei vulcani estinti in lontananza, ora sugli sguardi fiduciosi e stanchi dei nostri compagni di viaggio. Discutiamo sul fatto che sia o meno preferibile l’acqua aromatizzata all’olio di motore oppure il vaccino del colera gusto merda (e mai questa espressione è stata più pertinente), ma senza trovare una soluzione condivisa da tutti.

Ascoltiamo la storia di un uomo fantastico che, in avventure precedenti, ha impressionato per le sue straordinarie doti e la sua abilità. Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo narra che, avvertito forse da qualche fantastico messaggero, abbia soccorso i nostri amici venendo dal nulla, abbia liberato il pick up insabbiato lungo la pista e trascorso qualche giorno nel campo pescando dell’ottima tilapia durante il giorno e difendendolo durante la notte. Nel caso in cui dovessimo rincontrarlo (come forse speri tu che stai leggendo!!), Lorenzo ci invita all’accortezza nell’utilizzare l’appellativo che l’uomo Turkana si era guadagnato in quei giorni: Black Member. Sembra infatti che il suo potere si sia accresciuto negli anni, e con esso la sua aggressività, che ora manifesta anche nei confronti dell’uomo bianco.

Scegliamo un’altura dove fare un sun downer con gin & tonic, il primo di una lunga serie che, garantisce Lorenzo, ci proteggerà dalla malaria. La prima occasione per verificare le nostre aspettative per questo viaggio e già per fare progetti per il futuro, nella splendida cornice di un tramonto Africano sul Lago di Giada.

E’ già buio quando arriviamo a Lioyangalani. Passeremo la notte all’ Palm camp, che per anni è stato il centro della vita qui, essendo la più importante fonte d’acqua nell’intorno di kilometri. Il giardino sarà il nostro campo, le nostre tende avranno il conforto dell’ombra di palme doum e della luce artificiale. Ma il campo si offrirà con generosità continua in questa calda serata Africana. Scoprire la disponibilità di acqua per lavarsi è la prima sorpresa che diventa presto una festa. Il rubinetto di acqua tiepida in mezzo al prato viene preferito alle docce di cemento all’ingresso del campo. Tutta la stanchezza si annulla di fronte alla possibilità di lavarci dopo due giorni... troppo tempo avendo affrontato un lungo viaggio e la calda polvere del deserto del Kaisut, troppo presto per essere già abituati a convivere con il nostro odore, con un aspetto non rispettoso dei canoni imposti dalla società da cui veniamo. In breve siamo intorno a quel rivoletto di acqua nei nostri costumi da bagno…

Finita la toilette raggiungiamo gli altri che, seduti al tavolo come si conviene alle persone pulite, stanno già brindando all’acqua tiepida, bene prezioso e raro, con delle fresche Tuskers. Dopo aver consumato la cena preparata dal prezioso Lumbaye, i festeggiamenti continuano con chitarra e quell’unica bottiglia di Amarula che ben presto sostituisce la birra. Valentina ha un sacco di motivi per festeggiare, e continua a cantare fino a che giunge la mezzanotte. Poi, come nelle favole, l’incantesimo si interrompe, la bottiglia di Amarula finisce lasciandoci una Valentina che torna protagonista del suo ruolo di Intrattenitrice Masai che le leggende narrano esserle stato affidato un lontano giorno da Lumbaye. E mentre noi ci appropinquiamo verso le tende, lei dispensa abbracci e… consigli.

I gestori dell’oasi accolgono con grande sollievo la fine dei nostri canti e riconsegnano il Lodge al buio della notte, temendo forse che gli ospiti wazungu ci ripensino e ricomincino a schiamazzare.

Si racconta che nella notte losche figure si siano aggirate per il campo lavando mutande e cercando telefonini scomparsi.

3° giorno –12 ottobre, martedì.
Ci svegliamo presto e tardiamo nel gongolarci della nostra attuale sistemazione e in vista del lungo trasferimento che dovrà portarci fino al Parco del Sibiloi. Ci concediamo il lusso di una bottiglia di acqua fresca e conosciamo il Gesù Boero, che da uomo paziente ha sopportato di buon grado gli schiamazzi della sera precedente.

Facciamo sosta al mercato del villaggio dove ci riforniamo di carburante. Lumbaye ci indica orgoglioso la casa in cui è nato e ci accompagna tra i suoi amici d’infanzia e di gioventù seguiti da un gruppetto di ragazzi che ci mostrano collane e altri monili per quell’unica strada su cui si affacciano un continuo di oggetti colorati e un vociare di piccoli commercianti che ci vorrebbero ad osservare le loro mercanzie. Troviamo shukas 4e altri gingilli e facciamo la fortuna di qualche amico di Lumbaye. Ma la nostra soddisfazione raggiunge livelli altissimi quando Sara scorge, oltre la polvere che ne ricopre gli involucri, una lunga fila di spazzolini in gradite confezioni sigillate. Difficile dire se lo stupore sia stato maggiore per noi nell’avere acquistato nella sperduta Loiyangalani uno spazzolino da denti (il cui utilizzo è garantito per ben tre mesi) oppure per il nostro rivenditore che ha visto comprare per la prima volta un oggetto dalla misteriosa utilità all’incredibile prezzo di 10 scellini Kenioti. Certa è la soddisfazione di Davide, che da oggi sente Loiyangalani un po’ più vicina alla sua Bologna.

Lasciata Loiyangalani prendiamo la strada che costeggia il lago Turkana nel suo splendido colore di giada. E’ uno spettacolo incredibile di colori e sensazioni. Alla giada del lago si affianca e si mischiano screzi di verde e di azzurro lasciati dal sale, interrotte dall’ocra e dal rosso della terra ossidata dal calore del sole. Una meraviglia che per un sortilegio della fata Morgana non è possibile fotografare…il primo incantesimo di questo viaggio, ma ancora non lo potevamo sapere…

Dopo un’unica sosta per vedere delle incisioni rupestri di Kilima proseguiamo tra i villaggi Turkana sulle rive del grande lago salato e i dromedari che pascolano nel nulla. Viaggiamo nella curiosità e nella trepidazione di vedere comparire l’ormai mitico Black Member, che, avendo il controllo del lago ed informatori ovunque, crediamo sappia del nostro arrivo e dei nostri spostamenti. Ma Black Member non si materializza, neanche quando attraversiamo quello che riconosciamo essere il suo villaggio, neanche quando ci ritroviamo insabbiati, per la prima volta e appena dopo avere ritrovato un’altra vecchia conoscenza, Gennarino, trovato come carcassa sulla sabbia bruciata e piazzato come trofeo sul cofano della Isotta. Qualcuno tra noi sostiene che Gennarino sia responsabile dell’insabbiatura in cui siamo appena incorsi. Di fatto lasciamo i suoi resti a bordo pista come monito e a memoria per i posteri (anche se crediamo che nessuno prima di noi passerà nuovamente di qui) e perché il suo sacrificio sia gradito agli dei e di buon auspicio per il proseguo del viaggio.

Assaporo la sensazione e l’attrattiva unica di trovarsi nel luogo che ha dato i natali ai primi uomini e sperimento la piacevole sensazione di sentirmi qui come a casa e di riconoscerne i caratteri e le ragioni, come se appartenessero alla mia storia.

Il viaggio prosegue senza altre soste e incontri significativi (con la sola eccezione di un piccolo nugolo di mosche della famiglia delle tse-tse) fino all’ingresso del Parco del Sibiloi, che raggiungiamo verso le 5:30. L’ingresso al parco è una procedura piuttosto lunga che ci richiede una buona mezz’ora. Ci è gradito credere che i gestori del parco si siano attardati tanto per il solo piacere di parlare con Lorenzo.

Decidiamo che il posto migliore dove fare il campo per questa e la successiva notte sia Alia Bay, una baia sulle rive del lago Turkana. L’ipotesi di non dover spostare il campo è decisamente allettante. Arriviamo alla baia dopo avere visto i primi animali stagliarsi nella luce del tramonto sul lago. L’area destinata al campo è essenziale, forse anche imperfetta. Situata ad una decina di metri dal lago, uno spiazzo senza vegetazione a vista d’occhio, nessuna parvenza di letto di fiume in secca che tanto piace a Lorenzo e una concentrazione di mosquitos che sono sopraggiunte sapendo della nostra presenza ad Alia Bay. La serata è movimentata da un frusciare incessante di ali e in un dimenarsi isterico di braccia e gambe. Ognuno adotta la sua strategia: Lumbaye sostiene che sia sufficiente non pensare a loro per non sentirne il fastidio, Lorenzo posiziona la lampada alogena a qualche decina di metri di distanza, optando per il depistaggio. Ma solo il buio offerto dalla notte sarà metodo abbastanza efficace per liberarci della loro presenza.

La presenza di questi molesti esserini non ci impedisce di apprezzare l’aperitivo a base di Gin Lemon e banane fritte né di gustare la magnifica cena che Lumbaye ha preparato nella fioca luce oscurata dai mosquitos in volo. Possiamo liberare, unanimi, un’esclamazione da tempo soffocata: “mmmm, buono il pollo!”. Questa sera anche Filippo e Sara, pur non avendo goduto della bontà del pollo, sono consapevoli di avere consumato il loro pasto di carne…piccoli insetti che hanno voluto affogare i loro dispiaceri nell’alcool o trovare un po’ di conforto dal calore della zuppa… quanto i comportamenti di tutte e specie animali si rassomigliano!!!

La serata è calda e offre ancora lo spazio per prendere la chitarra. Lumbaye si unisce a noi per cantare Malaika. Ma Morfeo ci chiama, e Lorenzo ci ricorda il comportamento da tenere nel caso in cui, nottetempo, avvenga una  incursione nel campo di bestie feroci: non uscire dalla tenda rimanendo zitti ed immobili, qualunque cosa accada.

E’ la mia seconda notte insonne. Trascorsa passando le ore al centro della tenda per evitare di esporre la mia carne e i suoi movimenti (volontari e non) alla trasparenza di quel sottile telo teso che il caldo ha scoperto dal sopratelo. Trascorsa pensando alla traccia lasciata dai coccodrilli che uscendo dal lago si sono negli anni dati appuntamento proprio in questa baia, e fino alle nostre tende nude. Trascorsa prestando ascolto a certi versi terrificanti provenire, ritmati e costanti, da poco distante dove già i ragazzi stanno dormendo profondamente…
Foto 02
Ammetto che mi sia giunto quasi gradito l’impiccio, nel cuore di una notte piovosa, di piazzare il sopratelo sulle tende già bagnate. Per un attimo il campo si è popolato di figure e movimenti familiari, di luci e di voci amiche… Mi sono addormentata con lo scalpiccìo dei passi ed il bisbiglìo di chi si era attardato nel picchettare il proprio sopratelo a regola d’arte e nonostante nuove immagini e nuovi pensieri stessero cominciando a popolare la mia immaginazione: lo scorpione che avevamo scovato aggirarsi impavido tra le nostre tende e l’affidabilità di Lorenzo che, in tutto quel vociare, in tutto quel trambusto, non si era minimamente scomposto.

4° giorno –13 ottobre, mercoledì.
La sveglia suona alle 5:00 e mi coglie impreparata. Soltanto l’esigenza di approfittare delle prime luci del mattino per vedere gli animali è in grado di spingermi fuori dalla tenda. Partiamo per il primo Game drive con le luci dell’alba. Non passa molto tempo prima che scorgiamo i primi animali: topi5, antilopi, zebre, manguste e vari tipi di gazzelle. Non passa molto tempo per ricadere in uno stato di apprensione quando l’Isotta si blocca nella sabbia di un fiume in secca e su una pista che non c’è.  Lasciamo la protezione del pick-up e percorriamo quelle poche decine di metri nel bush di un parco naturale con assoluta circospezione, in un volgere continuo di sguardi e con il cuore in gola… non sono ancora in grado di valutare i pericoli (veri o presunti) di queste nuove situazioni che mi trovo ad affrontare, e la mia propensione ad accettarne il rischio è ancora nulla… il tempo, il reiterato presentarsi di queste circostanze mi gioverà. Non accade nulla, anzi, ci affanneremo a scorgere leoni nel bush invano, arrivando fino alla foresta pietrificata.

Ritorniamo al campo quando il sole è a picco. Anche Lumbaye ci accoglie con il suo solare sorriso, il pane nel forno, il caffè pronto. Fallisce il tentativo di fare il bagno nel lago, che ci permetterebbe di aggiungere quella tacca che qualche ardito ha già inciso sul proprio coltello: l’acqua è ferma, il coccodrillo potrebbe essere li, anche se invisibile ai nostri occhi, e potrebbe essere affamato…

Boccheggiamo per il caldo, il termometro supera i 40° C, che salgono a 45° C all’ombra che non c’è all’interno dei veicoli. Ognuno in cuor suo si augura di andarsene al più presto. Anche il keniota Lumbaye, reclama un po’ di frescura Sono nero, il sole sceglie me!!. Smontiamo il campo in tutta fretta, ma le forze e i numeri sono ridotti ed a turno cerchiamo la frescura all’interno dei caldi abitacoli dei fuoristrada parcheggiati nel bel mezzo del niente inondato dal sole. Ce ne andiamo. E’ la nostra prima fuga.

Ci concediamo una sosta per fare rifornimento d’acqua che avrà bisogno di tutta la nostra sete e di parecchio cordiale per essere bevuta e sfruttiamo l’inerzia termica delle casette dei gestori del parco. E partiamo, con destinazione Koobi Fora, che speriamo essere area più attrezzata per il campo della prossima notte. Ci servono un paio di ore per raggiungere Koobi Fora. Un paio d’ore trascorse a temperature superiori a 40°, evidentemente malsopportate anche dagli animali delle pianure che sono stati in qualche fresco riparo durante il tempo del nostro passaggio.

Il campo di Koobi Fora ci accoglie esausti e ci conforta con l’amico cemento, offre spazi al riparo del sole, bagni e docce, acqua per lavarsi e il tempo del riposo. Mangiamo un po’ di frutta, sistemiamo le tende sotto il porticato di cemento, e per una volta ascoltiamo con il cuore sereno Lorenzo che ci consiglia di non montare il copritelo della tenda. Ci concediamo il piacere dei gesti ordinari, il lusso di qualche ora passata in pieno relax per liberarci dallo stress della vacanza.
Foto 03
Sono passati solo pochi giorni, tanti ancora ne mancano e tanti sono i motivi di credere che, andando così le cose, la fine di questi giorni sarà si accolta con rammarico ma forse, anche, con un certo sollievo.

5° giorno –14 ottobre, giovedì.

Passiamo una felice notte al riparo offerto dal campo di Koobi Fora. Sveglia alle 6:00 per il game drive. Sentendoci ancora in credito con il Parco del Sibiloi, lasciamo la pista e andiamo alla caccia di coccodrilli sulle rive del lago. Vediamo fenicotteri, pellicani, un’aquila di mare. Ci appostiamo, scendiamo dai fuoristrada, ci avviciniamo di soppiatto. Ma non sorprendiamo nessuno, le nostre fotocamere si arricchiscono di nuove figure di topi, antilopi, zebre.

Un personaggio dal ruolo incerto (guida o portiere?) ci accompagna al Museo di Koobi Fora, un locale dove sono esposti i resti dei primi ominidi, descritti da pannelli illustrativi. La nostra curiosità non è ancora soddisfatta e chiediamo di poter vedere gli scavi dei Leakeys: il custode ci fa intendere che, ricevuta la sua mancia, per oggi ha lavorato a sufficienza e ci invita a chiedere la presenza di qualche altro.

Torniamo al campo in tempo per il pranzo e per approfittare, ancora una volta, dell’acqua corrente prima di ripartire per un’altra meta: il confine con l’Etiopia. Lorenzo ci informa della necessità di fare rifornimento di acqua: durante la sola permanenza al Sibiloi abbiamo consumato ben 60 litri di acqua, di cui 40 L sono finiti nelle nostre borracce. Lumbaye ci parla del suo desiderio di vedere l’Italia, ci interroga sul nostro paese e sul gioco del calcio e, come nella storia del Re nudo chiede conferma che esistano “feste” in cui la gente si diverte gettandosi addosso pomodori o arance…

Il viaggio procede sconnesso e con la visione del Gesù Boero, coraggioso e solo. Gli si riporta la carta geografica che Lorenzo aveva trovato sull pista probabilmente volata fuori dalla sua auto per un colpo di vento, fortissimo in quei giorni. Solamente la musica somala, che Annette ci fa ascoltare dal suo MP3 FM Modulator in una profusione di motivetti improbabili e alta tecnologia, può alleviare il disagio di percorrere strade tanto dissestate e sconnesse. E per qualche minuto Yallllaaaalllllaaaaaaaaaaaaaa!!!! supera nella hit parade Monster monster monster.

Dopo qualche pee-stop e numerosi infartini 6arriviamo finalmente a Ileret, ultimo centro prima della frontiera con l’Etiopia. Attraversiamo raggruppamenti di case di stracci e rispondiamo ai saluti di centinaia di bambini che ci rincorrono scalzi e festanti nelle loro divise colorate. Trascorriamo una buona mezz’ora all’ufficio di polizia per il controllo dei nostri documenti, ci beviamo una bibita fresca (un paio di gradi in meno della temperatura circostante - niente Tuskers a Ileret) e giriamo tra quelle poche strade, indirizzati a destra e a manca nel vano intento di fare il pieno di carburante. Ma non c’è carburante per noi alla stazione di servizio e ce ne andiamo, con un pieno di ansia per la cara Isotta che… chissà se arriverà alla prossima stazione utile. Immerso (e pur non curante) nella nostra apprensione, Lorenzo pregusta quel brivido che si prova nell’usare fino l’ultimo litro di carburante, pur non sapendo quando potremo trovare la prossima stazione di benzina… dai, almeno per una volta lasciamoglielo fare!!!

Ma la giornata non è ancora finita, dobbiamo trovare dove fare il campo per la notte in quella terra di nessuno che ci separa dal confine che passeremo domani. Bambini in abiti tradizionali o non vestiti affatto sostituiscono quelli in divisa, ma le corse ed i sorrisi sono gli stessi. Appena le condizioni lo consentono lasciamo la pista. Davide, che sente forte la responsabilità di garantire la sua e la nostra incolumità, con abili mosse cerca di depistare e confondere i nostri eventuali inseguitori… e riesce nel suo intendo, perché anche noi siamo abbastanza confusi!! Il campo è perfetto: c’è tutto quello che Lorenzo potrebbe desiderare: il lugga dove picchettare le tende, l’ombra delle acacie, il lago Turkana poco distante, un cielo abbastanza scuro per lasciarci il brivido di dover spostare tutto durante la notte onda evitare di essere trascinati via dall’acqua.

Appena fermi sopraggiungono alcuni bambini e poi molti altri. Appartengono alle etnie Turkana e Dasenech quasi simili a vedersi, ma non proprio amici. E’ Lumbaye che prende in mano la situazione e allontana con decisione i bambini dalla sua cucina. “Solo l'innocenza dei bambini ha potuto scoprire lo schema che avevo ordito per seminarli...” dirà poi il nostro Capo Masai in merito al fallimento del suo depistaggio.

E mentre Lumbaye ci prepara i chapati (che saranno la nostra colazione di domani), Lorenzo ci prepara al prossimo ingresso in Etiopia. Spiega come il popolo Etiope mostri una certa ostilità nei confronti dell’uomo bianco e descrive i modi molto restrittivi del paese. Spiega come i bambini siano soliti urlare “ferenji” o “you, you, you ” all’uomo bianco mentre i più grandi possano arrivare a colpire persone e cose con i sassi. Sarà assolutamente vietato fare fotografie nei luoghi sensibili, ai posti di frontiera, nei pressi di forze dell’ordine. Dovremo fare attenzione a quello che diremo perché, memori della colonizzazione Italiana, qualche anziano potrebbe conoscere la nostra lingua. Dovremo accampare con discrezione, perché proibito. Siamo avvertiti.

In previsione di quello che verrà, dormo un sonno profondissimo.

6° giorno –15 ottobre, venerdì.
Ci svegliamo circondati da una frotta di Turkana e Dasenech, mangiamo i chapati di Lumbaye in mezzo a loro. Carichiamo i fuoristrada dei chilogrammi di tutto il nostro indispensabile attorniati da gente appena vestita.
Partiamo alla volta dell’Etiopia… e a onor del vero facciamo un po’ di fatica a ritrovare la strada tra le tracce ingannevoli della sera precedente!!! Partiamo con il sole alle spalle e i sorrisi dei bimbi a bordo strada. Partiamo con la consapevolezza che ci aspettano giorni impegnativi, sia per le condizioni che incontreremo, sia perché sarà vietato sbagliare. Ma, nonostante tutto, il morale è alto e tanta la voglia di scoprire questo nuovo pezzo d’Africa. Sarà l’esperienza del Sibiloi, che ci ha temprati, sarà la forza di un gruppo che pian piano prende forma, sarà l’istinto incosciente dell’esploratore che c’è in noi, ci prende e trascina verso nuove terre, verso nuove avventure. Sarà Davide, che spera di trovare presto del carburante per la sua bella Isotta. Ma prima dobbiamo superare la frontiera e l’ufficio immigrazione. E non sarà cosa scontata, dal momento che prima di noi altri sono stati ricacciati indietro. I modi Africani sono piuttosto imprevedibili, e gli Etiopi non sentono ragioni per farsi convincere. Da qui in poi nulla è scontato. Forza ragazzi, partiamo… con decisione e con prudenza.

La frontiera è una casupola nel mezzo del niente. Ci accolgono vecchi dall’età indefinibile, donne con i loro piccoli aggrappati al seno, bambine incinte e uomini armati. Il nostro arrivo segna per loro l’inizio di una nuova attività, mentre noi viviamo l’imbarazzo di essere l’oggetto delle loro attenzioni e dei loro sguardi, circondati dalla loro curiosità e nell’attesa che qualc’un altro decida per noi. Dopo una buon’ora di contrattazione si stabilisce che un ascari ci accompagnerà fino all’ufficio immigrazione. Lasciare la frontiera ci libera di un peso e di troppi sguardi… Etiopia, stiamo arrivando!!!

Davide: ricordati di tenere la destra quando guidi!!

Il confine politico è anche confine geografico: nel giro di poche decine di km ci troviamo ad osservare un paesaggio totalmente nuovo, l’orizzonte si colora del rosso della terra lateritica e del verde della vegetazione di acacie e palme. Troviamo ad Omorate una cittadina ben diversa da quelle cui eravamo abituati nel vicino Kenya. L’ufficio immigrazione ha la dignità e la foggia del luogo di rappresentanza, le capanne lasciano spazio a casupole, la gente è vestita e calzata. Dentro all’ufficio vengono trascritte in bella calligrafia le nostre generalità e si discute sulla possibilità che un Keniota, Lumbaye, possa essere ospitato nell’Etiope terra. Fuori un militare armato ci fa cambiare istericamente di posizione ad ogni cambio di direzione del suo kalashnikov e si discute sul tipo di occupazione che forniremo. Dopo una lunga consultazione Filippo e Marco decidono di non lasciare il loro biglietto da visita, Annette si interroga sull’esistenza di gentleman italiani. Due etiopi giocano a dama con i tappi delle bottiglie.

Tutti questi discorsi ci hanno lasciato una gran sete. Lasciato l’ufficio immigrazione, entriamo nel bar del centro dove speriamo di trovare qualcuno che sappia dove dissetare anche Isotta. Nonostante le lunghe ricerche la speranza di Davide viene delusa… Isotta dovrà aspettare ancora un poco. Sempre alla ricerca di carburante attraversiamo la via principale su cui si affacciano tutte le attività commerciali del paesello che sono percorse da migliaia di bambini.

Ci fermiamo. Ed è subito assalto. Ed è interminabile. Lorenzo trova il carburante per il pick up. Filippo va in suo aiuto. Lumbaye comincia a sperimentare l’ostilità Etiope nei suoi confronti. Sara, Valentina, Piero, Annette scendono e si disperdono. Gli altri restano sulla Isotta, i bambini addosso ai finestrini a chiedere un nome, una penna, un birr7 birr birr … Il loro interesse è tanto e toglie l’aria. Hanno visi incantevoli, gli occhi brillano di stupore e le manine ti sfiorano, incredule, poi si allontanano, con un sorriso compiaciuto e di sfida. Condividiamo il loro stupore quando, a pochi passi, vediamo Sara insegnare il girotondo ai più piccoli. Ed è un successo. I bambini che si buttano per terra aumentano di numero e un nuovo coro si alza SaraSaraSara a coprire e imitare il canto di Sara e le richieste dei più grandicelli. Nel frattempo Annette, con svizzero pragmatismo si stà vendendo un braccio per farci avere le birre, mentre Piero, con italiana galanteria l’accompagna. Senza avere dissetato Isotta, ripartiamo con il sollievo di tutti e con il ricordo di ciascuno.

Chi, negli anni successivi, è stato ad Omorate racconta di avere visto bambini cantare, girando in circolo in mezzo alla strada…

Cerchiamo il diesel disperatamente, con Lorenzo che disdegna il carburante ogni qual’volta questo profuma di imbroglio. Chiediamo, contrattiamo, verifichiamo, ce ne andiamo, il rombo del motore a sottolineare la nostra disapprovazione. Poi torniamo sui nostri passi (consapevoli che Isotta non potrà rombare il nostro biasimo ancora per molto) e ricominciamo a contrattare, facciamo il pieno, e ce ne andiamo, ancora rombanti in risposta ad un’ulteriore richiesta di mancia.

La morfologia si fa presto ondulata e la strada comincia a salire in un paesaggio verde e rigoglioso in una delle regioni più selvagge dell’Africa e dove le popolazioni non sono ancora molto abituate ai turisti. Attraversiamo villaggi e superiamo etiopi in cammino, tra sguardi stupiti dei bimbi e manine sempre alzate per un saluto, non trovando nessuna parvenza dell’ostilità a cui eravamo preparati …certe volte anche Lorenzo... si sbaglia…

Mangiamo con lo sguardo puntato di due etiopi armati di Kalashnikov a breve distanza e con il conforto di numerosi termitai che si ergono come sentinelle… Ripartiamo in poco tempo. Dissetata Isotta, Davide è finalmente sereno, e da uomo prudente e misurato qual’è, cerca fin da subito di ridurre al minimo i consumi di carburante tenendo la quinta marcia fissa, nonostante Isotta sia appesantita dal pieno appena fatto e dagli otto passeggeri appena rifocillati.

La ricerca della zona che ospiterà il campo per la notte è delicata: in Etiopia è vietato campeggiare in aree non attrezzate… dovremo farlo nel modo più discreto possibile. Imbocchiamo quell’unica strada che nell’intrico della foresta equatoriale ci allontana dalla principale... per portarci verso un villaggio, come possiamo presto intuire dalle tracce sul terreno e dai rumori in lontananza. Montiamo il campo con la minaccia incombente della pioggia che sta già cominciando a cadere e con quella prossima del solito alluvionamento notturno. Scegliamo dove picchettare le tende con grande perizia.

Il gin & tonic sapientemente preparato dalla mia coscritta scaccia la tensione della giornata e riporta subito nel campo un’allegria ora felpata, ora concitata, alimentata da discorsi che non ricordo e dissetata da qualche altra tazza di gin & tonic dal contenuto sempre più povero di acqua tonica… Marco si allontana, discreto, dall’allegria della serata e dalla sua tazza ancora mezza piena. Lo ritroveremo addormentato e stremato nella sua tenda. Lumbaye osserva divertito il comportamento di questi strampalati uomini bianchi… Nell’allegria ubriacata dal nostro entusiasmo rinnovato si consuma quello che negli anni ha assunto la valenza di un vero e proprio rituale: il falò delle calze di Valentina illumina la prima notte etiope.

La stanchezza della giornata ed il torpore dell’alcool non bastano a farmi prendere sonno. Durante la mia terza notte insonne mi fanno visita uomini armati e cattivissimi…

7° giorno –16 ottobre, sabato.                                
Durante la notte qualcuno ha fatto visita al nostro campo, aggirandosi silenzioso tra le tende. Probabilmente vengono dal villaggio vicino, forse sono gli stessi che si stanno avvicinando ora, nella luce dell’alba. Sono un gruppo di sei giovani Hamar, tra cui un ragazzo, ed hanno dei lineamenti bellissimi. Come altri prima di loro, i giovani Hamar ci osservano da qualche metro di distanza mentre noi ci riuniamo intorno al tavolo per la colazione.
Foto 04

E’ Goita, una delle ragazze, che contratta con Lorenzo per le foto che faremo loro. In un attimo siamo tutti li, nella luce rossa del mattino, a immortalare quelle figure esili con sguardi ora spauriti, ora decisi, ora di sfida… le ragazze hanno i capelli acconciati con il fango, i vestiti fatti di pelli di animali e adornati di conchiglie, il corpo coperto solo da pochi ornamenti. Difficile dire quanti anni possano avere. Difficile saperlo da loro, nonostante i tentativi d Lorenzo. Ma questi tentativi di comunicazione scacciano la diffidenza e portano qualche sorriso, in un attimo si alza il solito richiamo SaraSaraSara, in un attimo ripetono le nostre parole, in un attimo il loro numero cresce fino ad arrivare alla quindicina, in un attimo imparano ti sbagli, sollevando il compiacimento di Ajente e il divertimento di tutti noi… Come al solito è Lumbaye che li allontana quando per noi si fa ora di andare e loro chiamano per attirare la nostra attenzione: SaraSara… Chissà quante bambine verranno chiamate Sara nei prossimi anni!!

Ma presto arriva il tempo di radunare le nostre cose. E mentre Marco è intento a bruciare della carta, Filippo lo riprende perchè la combustione rilascerà diossina nell’atmosfera, Marco gli fa notare che il termovalorizzatore più vicino si trova a circa 5260 km di distanza e nella fattispecie a Napoli, e conviene quindi bruciare qui vista la quantità di ossido di carbonio prodotta per riportare la carta a casa.

Ripartiamo alla volta del Parco del Mago, che la guida indica come meta non consigliata per chi va in africa per la prima volta. Il paesaggio è lussureggiante, la strada un taglio netto nel verde della vegetazione che riempie lo sguardo arrivando fino all’orizzonte, un taglio nero che esaspera la morfologia dell’altopiano. Il cielo grigio non riesce a stemperare il verde brillantissimo che ricopre ogni cosa; le praterie, le colline ondose e le alte montagne si intrecciano l'una nell'altra conferendo al paesaggio una sinuosità piena di fascino. Lungo la strada attraversiamo diversi villaggi che ci appaiono come grandi pozzanghere fangose. C'è un gran via vai di macchine, camion stracolmi di cose, persone e animali, capanne, baracche, lamiere, sporcizia e precarietà. Il resto sono i tanti chilometri da percorrere, una sosta a Turmi per fare altro gasolio e per comprare un nuovo spazzolino a Davide, le domande di alcuni giovanotti Etiopi su Milito ed Eto’o (nessuno che abbia chiesto di Asamoah!!), Lorenzo che si guadagna l’appellativo di Rom e Jerry, grazie al suo abbigliamento…casual, e la divertente scenetta di due bimbi che, messi in fuga da Lorenzo e Davide andati loro incontro imitandone la corsa, si sono riavvicinati ai nostri scortati da adulti armati…

La strada è veloce e agevole. Quando arriviamo al Parco del Mago sono circa le 4 PM. Dopo la foto di rito all’ingresso del parco, dopo aver conosciuto la difficoltà nel far di conto dei responsabili del parco, dopo aver cambiato qualche dollaro per i correnti birr, ci inoltriamo nel parco con l’intenzione di fare il primo game drive alla ricerca di elefanti e bufali. Ma la caccia non si può dire fortunata: vediamo solo qualche dik-dik e qualche mosca tse-tse. Non ci resta che cercare il campo per la notte. Lo troviamo, in una radura delimitata dalla fitta vegetazione, e già segnata dal passaggio di animali, elefanti con ogni probabilità. Piazziamo le tende sotto la direzione di Lumbaye che ci consiglia la disposizione migliore per evitare che le nostre umili tende possano ostacolare il maestoso avanzare dei pachidermi e ci prepariamo per la cena. Silenziosi come solo gli Africani possono essere, arrivano alcuni ascari che ci supporteranno al campo. Raccolgono la legna… ma ci difenderanno dagli attacchi degli elefanti durante la notte?
Foto 05

Quali sono le impressioni dopo questa prima settimana?  Mi sento un po’ travolta dal vortice di eventi che abbiamo vissuto. Nonostante siamo solo ad un terzo della vacanza questo viaggio ha già tante storie da raccontare e ci ha già messi alla prova in qualche circostanza. Non posso negare una certa difficoltà di adattamento e in buona misura anche di comprensione dei modi Africani. Mi rincresce ammettere che la prospettiva di avere davanti altre due settimane un poco mi spaventa lasciandomi qualche dubbio sulla mia tenuta e la mia capacità di affrontare quello che sarà, con uno spirito sempre propositivo. E non parlo della rinuncia agli agi del mondo da cui provengo. Sono venuta qui ben sapendo che L’Africa non vuole per amanti persone schizzinose o svenevoli: qui occorre il disprezzo dei beni terreni e amore per la vita primitiva e un forte disgusto per tutto quanto c’è di artificiale in una civiltà toppo complicata. No, mi riferisco invece all’insicurezza che deriva dal vivere in un ambiente che non conosco e che sento tuttora ostile; il fatto di dover stare sempre in guardia e sentirmi sempre minacciata. Poi osservo gli altri e vedo in loro una tranquillità che, mi rendo conto, non può venire dall’incoscienza, ma forse proprio da una maggiore consapevolezza… E si Lorenzo, non sbagli quando dici che si ha paura delle cose che non si conoscono. Ed io quest’Africa ancora non la conosco.
Il pensiero degli elefanti che attraversano il nostro campo e le urla scomposte e intermittenti dei babbuini mi fanno compagnia durante la notte. E’ la mia quarta notte insonne.

8° giorno –17 ottobre, domenica.                            
Il programma della giornata è impegnativo: oltre al game drive è prevista la visita ai Mursi. Filippo sta già preparando la macchina fotografica…

Partiamo. Lorenzo ci guida, con lui salgono sul pick up Sara, Filippo, Piero ed io. Gli altri, scortati da un ascari seguono sull’Isotta. Appena in marcia veniamo accolti dalle mosche tse-tse, che svolazzano festose ed aggressive sapendo della nostra presenza al parco del Mago. Illusoriamente rassicurati dal fatto di essere coperti nei nostri vestiti lunghi, che si dimostreranno presto inutili, ci divincoliamo in modo isterico ora guardando le nostre gambe, ora le spalle del vicino, ora allontanando la tse-tse che ci si è appena posata sul braccio, ora imprecando per il morso andato a segno sulla caviglia… Io osservo piena di invidia Sara, seduta davanti con Lorenzo, non scomporsi minimamente… è proprio una donna da sposare. L’attacco delle tse-tse perdura per qualche ora, e per tutto questo lasso di tempo abbiamo occhi solo per loro ed energie solo per sfuggire al loro attacchi. Contiamo i nostri morsi e contiamo i loro morti: la mia battaglia personale termina 4 a 12. Da buona ipocondriaca sento già la nausea …ma forse questi sintomi sono un po’ troppo tempestivi per essere stati causati dalla malaria o da qualche altra malattia equatoriale.

Il sole ci libera dalle nostre assalitrici che pian piano si dileguano, così come erano comparse. La nostra fuga ha il suo epilogo, e noi cominciamo a guardarci intorno. E’ così che possiamo finalmente osservare la distesa verde che si apre a perdita d’occhio sotto di noi, notiamo le strane forme di alterazione ed erosione degli affioramenti rocciosi a bordo strada, ci fermiamo per fare qualche foto ai primi Mursi che incrociamo lungo la strada ed individuiamo alcuni villaggi a bordo strada che ci proponiamo di visitare al ritorno del game drive.
Foto 06

Il game drive non ci da molte soddisfazioni e sulla macchina fotografica di Filippo è già montato l’85 mm. Tornando indietro ci fermiamo nel primo villaggio Mursi che incontriamo. Appena scesi siamo subito circondati da giovani e bambini che solo saltuariamente vengono allontanati dagli anziani. Con uno di loro Lorenzo comincia la contrattazione per poter fare le foto. Noi siamo schiacciati dalla loro insistenza, loro si esibiscono in strabilianti esternazioni orali di fluidi. L’ascari è lontano. Causa qualche difficoltà di comunicazione (loro parlano amarico) e le richieste un po’ pretensive del capo villaggio che vorrebbe 100 bir da ognuno di noi per il entrare nel loro villaggio, Lorenzo, non confidando di poter trovare un accordo, ci invita ad allontanarci. Noi accogliamo con un certo sollievo questa decisione mentre loro cercano di opporsi alla nostra dipartita. L’insistenza dei Mursi sconfina nell’aggressività, che viene alimentata dagli anziani che tradiscono gli effetti della loro conoscenza dell’alcol. Trattengono Sara che, di villaggio in villaggio, continua ad essere la più richiesta tra noi. L’ascari è lontano e indifferente. Ci allontaniamo rapidamente per fermarci in quello che, ci auguriamo, sarà un villaggio più amichevole.

In questo nuovo villaggio avevamo già visto sostare un gruppo di visitatori. Si ripetono gli stessi rituali: noi ci fermiamo, i Mursi ci vengono incontro. Prima i bambini, poi i giovani e infine gli anziani. Con loro comincia la contrattazione, sotto gli occhi vigili di alcuni giovani Mursi armati. Bambini di pochi anni e vestiti solo di corde attirano la nostra attenzione chiedendoci di essere fotografati. A gesti cerchiamo di spiegare agli anziani che faremo le foto in sette, e non tutte agli stessi soggetti. Gli facciamo vedere le macchine fotografiche, che contiamo davanti a loro. L’accordo viene raggiunto solo dopo lunghe discussioni: 5 birr per ogni foto, che potremo fare a chiunque.

Richiamate dalla nostra chiassosa presenza, le donne stanno uscendo in ordinato silenzio dalle loro capanne e si dispongono in fila a qualche decina di metri di fronte a noi. Siamo impressionati dal loro numero e dal loro aspetto. E’ un’immagine fuori dal tempo, e lontana dalla nostra immaginazione (sicuramente dalla mia). I pesanti piattelli circolari di argilla nelle labbra  e portati (talvolta sostenuti) dalle donne come reminescenza della antica tentativo di sottrarsi alla tratta degli schiavi. Le scarificazioni sulla pelle degli uomini che indicano l’aver ucciso almeno un nemico in battaglia.

Noi ci dividiamo i soldi scambiati all’ingresso del parco, loro non hanno difficoltà a cambiare i nostri pezzi da 10 birr in tagli più piccoli che, come già avevano fatto loro, sbucano fuori da ogni parte. Ci avviciniamo alle donne schierate, ai loro occhi impassibili, ai loro corpi aberrati. I loro uomini hanno appena deciso il prezzo di quelle immagini, delle sofferenze di anni, di generazioni, del peso di un passato di cui non si sono ancora liberati e che ora ci offrono come merce di scambio… per pochi birr. I bambini ci seguono ripetendo la solita domanda. Mi avvicino con gli altri, ma le mie intenzioni perdono di convinzione ad ogni passo, e alla fine desisto. Non ci riesco.

Terminati i birr (e le foto) ci ritroviamo per tornare al campo: si è fatto tardi e immaginiamo Lumbaye in attesa. Facendoci largo tra i Mursi che già si sono accalcati intorno a noi raggiungiamo il pick-up. Serve tutta la decisione di Lorenzo per innestare la marcia e trovare la direzione del campo: i due mezzi sono parcheggiati in direzione del villaggio e necessitano di qualche manovra per tornare sulla strada. I Mursi ci circondano, vorrebbero trattenerci, ci afferrano attraverso le aperture del pick up, vorrebbero… ma cosa vogliono?? Lorenzo urla qualcosa, raggiunge le strada, rallenta alla vista di quelle giovani mani ancorate agli appigli della carrozzeria, si ferma, fa salire uno dei più esagitati per portarlo al centro direzionale del parco, incoraggia Davide a seguirlo, poi parte, incurante dei corpi e delle mani, ormai al limite della sopportazione…rallenta ancora ”Forza Davide, vieni…venite!! Cosa cazzo…”…gli altri sono ancora li, fermi, circondati. Bisogna decidere cosa fare, e bisogna farlo in fretta. L’ascari è tra loro e indifferente. Aspettare non serve a niente, come anche cercare di prestare loro aiuto… meglio andare al centro e prelevare qualcuno che possa risolvere la situazione senza che ci siano scontri tra noi, bianchi e loro, Mursi.

Partiamo a tutta velocità, è la nostra terza fuga, la seconda di giornata. Il Mursi, seduto dietro, si gode la corsa, ha un sorrisone stampato sulle labbra, mostra gli animali che non avevamo visto in tutto il giorno, se la ride della mia insofferenza alla guida spericolata. Il pensiero va ai nostri amici che nel frattempo se la stanno vedendo con i Mursi. Davide è alla guida, il volante bloccato dai Mursi che gli impediscono anche di chiudere la portiera della macchina. Fuori la minaccia di uomini armati di kalashnikov, dentro cinque persone venute in Africa per evadere dai pensieri della vita moderna. Vogliono altri soldi. 100 birr a testa. Annette si oppone. L’ascari è seduto sul sedile posteriore, tranquillo, osserva la scena. Noi nel frattempo raggiungiamo il centro (fortunatamente siamo ancora tutti vivi) carichiamo uno dei responsabili e ritorniamo indietro in aiuto dei nostri amici.

Quanto è strano pensare a quanto è accaduto solo poco fa’, e come è difficile mettere ordine in quanto è successo, trovarne la ragione o il difetto… gli interrogativi giocano a rincorrersi, e rimangono perlopiù senza risposta. Cosa richiama la nostra presenza qui? E’ curiosità? E’ voglia di conoscere? Il desiderio di tenere in vita il ricordo di una civiltà forse prossima all’estinzione? Sono forse queste motivazioni legittime? Fino a che punto è opportuno il contatto di due mondi tanto diversi? E quale sarebbe il giusto modo di porsi, dall’una e dall’altra parte? Siamo nel giusto noi, nell’affermare il nostro diritto di comprare ogni loro cosa, anche quel niente con cui vivono, finanche la loro immagine…ma per cosa? Per il bisogno di conoscere? Di comprendere la loro cultura? O solo per desiderio di possesso? …di conquista? …che differenza c’è tra noi e chi, prima di noi, è venuto in queste terre per appropriarsi di tutto? Sono nel giusto loro, disposti a vendere ogni loro bene per dei soldi che useranno per bere ed ubriacarsi? Io di risposte non ne ho.

E’ possibile che mondi tanto diseguali vengano in contatto senza che le disparità fin troppo evidenti degenerino fino a danneggiare una delle due parti? Probabilmente no, fino a che l’una e l’altra parte saranno mosse dal solo desiderio di approfittare della propria condizione per trarne un vantaggio. Perché se questo è l’intento, allora l’unico esito naturale che si può avere dal contatto è il tentativo di prevaricazione reciproca. Che differenza tra i pretestuosi Mursi ed i fieri borana!!

Nessuna tacca sul coltello, per oggi… solo, da entrambe le parti, il tentativo più o meno riuscito di prevalere, in un gioco delle parti in cui ognuno ha la massima consapevolezza delle armi a cui si affida, siano esse la minaccia, la benevolenza, il denaro.

Lumbaye ci aspetta. Anche lui ha una storia da raccontare. In mattinata dei babbuini gli hanno sottratto parte della farina, gli ascari lo hanno aiutato a sventare l’attacco. Siamo tutti esausti. Solo Annette e Marco hanno le energie per qualche altra scaramuccia che, se da una parte risolve la necessità di doccia di entrambi, dall’altra lascia il bisogno di lavare dei vestiti ormai completamente infangati. Dalle tende, dove cerchiamo riparo e riposo, osserviamo Annette, che, con Svizzera ostinazione, lava i propri vestiti sotto la pioggia equatoriale del pomeriggio.

Il pomeriggio offre ancora lo spazio per un altro game drive. Le mosche tse tse del tramonto sono più stanche di quelle del mattino. In quel paio d’ore vediamo tantissimi dik dik, che fanno la gioia di Davide, e vorrebbe fermarsi ad ammirarli tutti. Probabilmente poco lontano c’era anche qualche elefante… ma nessuno di noi è stato abbastanza attento da poterne testimoniarne l’incontro.

Il momento del riposo arriva come un sollievo. Pensavamo di avere toccato il fondo nei 40 e più gradi del Sibiloi, ma avevamo sottovalutato il Parco del Mago e le parole della guida. Di questa giornata rimane una sensazione diffusa di precarietà e un certo che di amarezza. Rimane la fotografia dei Mursi schierati davanti al nostro plotone di esecuzione e l’immagine dei bianchi trattenuti dalle loro armi. Rimane la storia in cui l’incontro tra due civiltà si è risolta in un sopruso. Per me resta il ricordo di un compleanno piuttosto impegnativo. Per l’ormai prossimo compleanno di Annette le aspettative sono altissime…si accettano scommesse.

Sono arrivata in Africa impreparata su molte cose. L’incontro con i Mursi è una di queste.
Foto 07

Ci abbandoniamo al buio della sera, il vociare dei babbuini concilia il nostro sonno… ma quanto è lungo il periodo di incubazione della malaria?

9° giorno –18 ottobre, lunedì.

Il risveglio è sereno. Ci saluta il faccione bonario del Mursi che il giorno prima avevamo portato al centro del Parco ed è arrivato al nostro campo nottetempo. E’ li seduto, vicino al pozzo dell’acqua, e osserva un fermento di attività. Ascolta le nostre risa all’ultima trovata di Davide e Federica, che nella notte hanno concepito una nuova disciplina olimpica: “Il tiro al piattello labiale”. Ci segue nei nostri movimenti, mentre da ogni parte ci raduniamo per la colazione, mentre ritiriamo i panni ancora bagnati stesi su corde di fortuna durante questa notte piovosa, mentre ci adoperiamo per smontare le tende e ci sfidiamo nel riporre i materassini. Osserva le procedure di carico del pick up e le sollecitazioni di Federica: “Rizzini, spingi!!”

…A cosa pensi, giovanotto, mentre ci osservi seduto per ore nel nostro villaggio? Sei nel fiore dei tuoi anni, sei forte… Non vivi l’imbarazzo dell’aspettarti di ricevere sempre qualcosa, di posare per le foto di bianchi capricciosi? Non vivi la monotonia dell’indugio? Il disagio del trascorrere i tuoi anni migliori nell’attesa…ma nell’attesa di cosa? Non vivi l’esigenza di garantire per te e per i tuoi figli un futuro che sia migliore del presente, o forse anche solo la possibilità di un futuro?

Partiamo. Oggi lasceremo il Parco del Mago per andare verso nord ed arrivare ad Arba Minch entro sera. Partiamo sigillati dietro i finestrini chiusi. Dentro, noi sopportiamo a fatica il caldo equatoriale. Fuori, le mosche tse tse bussano al vetro: Scusi, buon uomo…posso entrare?… Il freddo diventa addirittura insopportabile quando accendiamo l’aria condizionata. Se ne accorge Lorenzo, che superiamo su una salita al 25% non riuscendo a dissimulare i brividi. Se ne accorge Federica che dopo questa esperienza comincerà una terapia antibiotica. Se ne accorgeranno gli etiopi, quando si renderanno conto della razzia di fazzoletti (a un velo) in tutto il sud del paese ad opera della stessa Federica. …Ma la potenza è nulla con l’aria condizionata, che spegniamo subito.

Arriviamo a Jinka. Lasciamo la strada sterrata per una larga striscia di asfalto avvolta nel verde brillante. Un susseguirsi continuo di gente a piedi ne disegna la cornice. Uno sguardo, una mano, Birrbirrbirr urlano i bambini, youyouyou… Sono pochissimi i mezzi che incrociamo. I cuori di Davide e Marco si rallegrano nel vederli, tanto che ogni volta si prendono un infartino, tra le nostre risate incuranti e lo stupore degli altri. Il ritmo del viaggio è dettato dalle mandrie che ora attraversano la strada guidate da pastori indolenti, ora la percorrono stancamente disposte in ampi ventagli. Le guardiamo con invidia quando siamo costretti, noi soli, a lasciare la carreggiata asfaltata per percorrere improbabili tornanti sullo sterrato… anche Davide è confuso da tanti cambi di direzione e fatica a seguire Lorenzo che lo precede… ma in fondo in fondo è orgoglioso che questi Etiopi abbiano imparato tanto bene la tecnica del depistaggio.
I paesaggi sono magnifici: le collinette verde smeraldo, i gruppi ordinati di capanne di paglia… sembra di fare parte del disegno di un libro di favole. In questo disegno pieno di colori e bambini che camminano a bordo strada, esibendo oggetti e monili, manca solo una piccola radura libera per il nostro pranzo. Alla prima sosta a bordo strada ci si fa intorno una piccola folla di bimbi… Lumbaye ci lascia attoniti tirando di fionda contro una di loro. Ci allontaniamo dalla strada lungo un ardito saliscendi di prati e superando pericoli indicibili…finalmente mangiamo, circondati dai nostri panni ancora bagnati e stesi sugli arbusti da una parte, una ventina di figure che ci osservano con insistenza dall’altra.

Risaliamo il rift.

Arriviamo ad Arba Minch verso le 5:30 PM e ci dirigiamo decisi verso quello che le guide turistiche descrivono come il più lussuoso albergo della città. Veniamo accolti nel Bekele Molla,  una struttura anni ’50, che ci offre il confort di una vecchia televisione (che non degniamo di uno sguardo), della luce intermittente, dell’acqua corrente che ci viene gentilmente offerta dalle 10 di sera alle 8 del mattino e di un lurido secchio colmo di acqua che invece usiamo per ogni genere di attività dalle 8 del mattino alle 10 di sera. Conveniamo sul fatto che la terrazza vista lago giustifichi interamente il giudizio tanto positivo che la Lonely Planet (nella versione 2001 di Annette) fa dell’albergo. Arba Minch si trova sul fianco di una collina da cui sgorgano 40 fonti d'acqua (in amarico Arba Minch significa quaranta sorgenti). Dalla terrazza si possono vedere i due laghi Chamo e Abaya incorniciati dal verde brillante di una rigogliosa foresta.

Ci gustiamo delle birre fresche dopo tanto tempo. Marco, sollecitato da Sara, finge di far sapere a casa che è ancora vivo (Filippo, questo è il tuo momento: chi sarà stato il destinatario del messaggio dell’Amico di Ajente?8).  Noi scegliamo il menù per la sera. Wot? Asa Wot, salsa Berberè9? Cerchiamo lungamente di figurarci i piatti proposti nelle carte che abbiamo in mano, e solo quando finalmente troviamo un qualche convincimento, Annette che ha intervistato tutti gli chef della cucina ci fa sapere che l’unico piatto fisso consiste in pesce fritto, riso e verdure. Conveniamo sul fatto che il piatto fisso sia la migliore cosa per tutti. Ordiniamo per 11 persone. Paghiamo la nostra cena e andiamo a dormire.

Le stanzette sono accettabili, ma ormai siamo abituati al confort dei materassini di Lorenzo sulla nuda terra, mentre questi letti sono davvero scomodi. “E’ la mia quinta notte insonne” diranno i miei (2)5 lettori…ma si sbagliano.

10° giorno –19 ottobre, martedì.                             
Oggi passeremo l’intera giornata ad Arba Minch. Dobbiamo cambiare i dollari in Birrbirrbirr, l’ammortizzatore della Isotta, dobbiamo chiedere informazioni riguardo al Parco delle Bale Mountains dove siamo diretti, dobbiamo fare rifornimento di viveri e …Davide già si sente sollevato… di carburante. Ma prima c’è il dolce piacere della colazione. Decidiamo di rimanere al Bekele Molla, dove ci apparecchiano il tavolo sulla terrazza vista lago. Come la sera precedente troviamo un coperto in più. “Uno due tre…tanti” li schernisce Lorenzo. Come la sera precedente ci troviamo nell’imbarazzo di scegliere tra cibi di cui potremmo pentirci. Wot? Asa Wot, Continental breakfast? Come la sera precedente ci leva dall’imbarazzo sapere di non avere alcuna scelta, anzi si, te o caffè? E’ Sara che, in via precauzionale, prende gli ordini al posto della cameriera. Ci portano, pole-pole, uova strapazzate, alcuni cucchiai di marmellata, un poco di pane, del burro. Prima che arrivi altro abbiamo finito tutto. La cameriera tentenna alla nostra richiesta di altro pane e marmellata: “siamo sicuri di pagare gli extra?” La rassicuriamo e chiediamo anche i nostri caffè. Arriva tutto, pole pole.

L’intraprendenza che mancava nell’intero Bekele Molla la troviamo tutta in Pablo, che già sa della nostra presenza ad Arba Minch e ci aspetta fuori dall’albergo, pronto per organizzarci la giornata. E’ insieme tour operator e accompagnatore, dispone di mezzi e di uomini, ha tutte le conoscenze e gli agganci…un vero intrallazzone. Ci diamo appuntamento alle 11: un suo amico si accompagnerà al Crocodile Market.

Entro quell’ora noi dovremo aver concluso tutte le nostre commissioni. Raggiungiamo il centro città dopo aver navigato per strade fiume piene di buche e di mezzi bloccati, osserviamo increduli e divertiti le innumerevoli coppie di ragazzi che camminano mano nella mano… la frocia!!... e gli improbabili cartelli e insegne lungo la strada. Lì ci dividiamo. Ritz e Davide si occupano delle macchine, Annette e Piero vanno in banca, Sara ed io alla ricerca dell’ufficio informazioni. Per prime torniamo noi, appena scopriamo che l’ufficio informazioni è nelle vicinanze del Bekele Molla. Quindi Davide e Ritz. Piero e Annette sono ancora in banca, dove il bancario sta ripetendo per l’ennesima volta la conta dei soldi: i tre tentativi precedenti non erano stati soddisfacenti. Nell’attesa che le delicate procedure di cambio vengano concluse, io e Filippo si teniamo informati leggendo l’Ethiopian Observer del 11 gennaio 2003, messo a disposizione dei clienti della banca. Valentina ci spiega tutte le tecniche di verifica della autenticità dei soldi …e mi viene il sospetto che sia intuendo di questi discorsi che il bancario chiede ad Annette i suoi documenti, che peraltro verifica lungamente, forse credendo di trovare nella Svizzera una falsaria…

Dalla porta aperta che dà sulla strada entra un sottofondo di musica Etiope, un vociare scomposto e il rombo di qualche motore a frammentazione di passaggio. L’aria è piena di odori nauseabondi di cardamono, al quale siamo ormai abituati, la città è avvicendata tra la frenesia della strada e l’indolenza di chi vagheggia senza una meta precisa e ti osserva, con sguardo ora accigliato,ora supplichevole …hai qualcosa da darmi, c’è qualcosa che posso fare per te? chiedono quegli occhi… Dopo circa un’ora usciamo dalla banca con un plicazzo di carta fetida in mano.

Nel frattempo, in questo guazzabuglio del genere umano, Sara ha cominciato ufficialmente le sue compere facendo la scorta di 3 kg di caffè. Davide, che ormai ha fatto della pulizia dentale una questione di principio, prima ancora che di igiene, ha trovato il suo spazzolino da denti che gli è stato comprato con la cassa comune per le emergenze… Annette e Piero hanno urgenza di evadere da tanta stramberia e si fiondano in un internet point. Noi torniamo all’albergo, Pablo ci porta all’ufficio informazioni, un locale aperto su una piazzolina sporca e poco raccomandabile, dove non troviamo nessuno che possa rispondere alle nostre domande. Ce ne andiamo pensando di tornare nel pomeriggio. Ma l’Intrallazzone ha molti conigli nel suo cilindro e uno di questi balza fuori come un personaggio in giacca e cravatta che scende or-ora dall’autobus: è il direttore dell’ufficio informazioni che interroghiamo in mezzo alla strada fangosa.
E’ orma quasi mezzogiorno quando, sulla Isotta, partiamo dal Bekele Molla per andare al Crocodile Market….già ci figuriamo il ritorno con i nostri due coccodrilli portati di peso intorno al collo e pregustiamo il sapore della loro carne che mangeremo per cena…’Qualcuno di voi la ha già mangiata?’ chiede Ros alla allegra comitiva. Lorenzo descrive una carne che, per il fatto di essere molto grassa, viene cotta preferibilmente grigliata, il cui sapore è paragonabile a quello dell’anguilla.

Carichiamo Pablo e andiamo a recuperare i biglietti di ingresso e i due cibernauti. Due imprese. La strada che porta al centro del parco è un pericolo continuo: la pioggia scesa nella notte ha fatto festa con il fondo limaccioso lasciando una strada saponata… qualcuno si diverte, qualcuno un po’ meno …io non ricordo. Cerchiamo lungamente Annette e Piero lungo le strade colme di persone e di colori. Carichiamo loro e lasciamo Pablo che dal suo cappello tira fuori anche una moto con la quale ci guida dal suo compare che ci porterà a vedere i coccodrilli.

Saliamo su una barca a remi e percorriamo le coste del lago Chamo. Troviamo innumerevoli tra pellicani, fenicotteri, cicogne, ibis, cormorani buceri. E poi i coccodrilli. Tutte queste specie convivono nello stesso ecosistema, in una calma almeno apparente. Gli uccelli si levano, eleganti, sulle sponde fangose del lago, per poi alzarsi in voli superbi che innescano i sordi rumori degli otturatori delle nostre macchine fotografiche. I coccodrilli si crogiolano al sole, le fauci spalancate, qualche uccellino a liberarli dai parassiti, si muovono mansueti fin sotto la nostra barca, nell’attesa di sferrare il loro attacco mortale. Sono bestie enormi, e sono a pochi metri da noi… Lasciamo i sornioni coccodrilli per i timidi ippopotami, i prediletti di Filippo, che ne esalta l’eleganza, la rapidità di movimento e -ci spiega- ne apprezza la bellezza e la cattiveria …il buon Filippo!!!. Spende parole vane per convincere Ros che i cavalli di fiume anche fuori dall’acqua siano altrettanto aggraziati e rapidi, arrivando a correre anche i 50 km/h…per nulla goffi o impacciati. Guardiamo da lontano i loro musi emergere appena dall’acqua, per poi sparire di nuovo. Filippo spiega che, i suoi preferiti primeggiano, oltre che nel suo cuore (ma tra Batteria, Cd, bici, didjeridoo10, Cecilia, verranno prima o dopo Sara, nella sua classifica di gradimento?) anche nel provocare incidenti mortali per l’uomo, che determinano ribaltando le barche con le quali questi, impudentemente, si avvicinano. Torniamo indietro e pian piano realizziamo che non siamo diretti a nessun mercato dove comprare i coccodrilli, nè mangeremo coccodrillo per cena… Il livello di gradimento è stato comunque molto alto…e ci fa dire almeno una volta nella vita bisogna passare da Arba Mich perché merita!!
Foto 08

Torniamo all’albergo. Lumbaye è ancora fuori a procurarsi scorte di cibo. Mangiamo nel giardino dove, poco dopo, ci raggiungono i nostri vicini. Sono turisti connazionali di Annette, i quali ci allietano con della musica nostrana e ci informando di avere percorso ad una media di 28 km/h i 300 km che separano le Bale Mountains da qui. Solo le note di “Azzurro” ci possono confortare all’idea di quello che ci aspetta l’indomani e sapendo che solo la musica somala potrà coprire il rumore della strada.

Lumbaye scende dall’ape-taxi come un divo con tutte le provviste comperate al mercato locale della frutta e della verdura, dove lo avevamo inviato la mattina.

Dopo esserci rifocillati decidiamo di andare a fare un giretto al mercato della città. Sara non vede l’ora. La zona del mercato non è esattamente un posto sicuro dove lasciare una macchina che porta sul tetto ogni genere di mercanzia…in parecchi stanno già rivolgendo la loro attenzione nella nostra direzione. Marco e Davide rimangono sulla Isotta, mentre noi faremo un giro al mercato con un duplice obbiettivo: trovare dei biscotti in supporto alla Gran Riserva di cui ormai è rimasta solo la scatola e della musica etiope in alternativa a quella Somala. Il mercato si sviluppa in stretti vicoli che solo a tratti si aprono. Sulle bancarelle, o più spesso per terra, troviamo vecchi abiti all’occidentale, scarpe fatte con i copertoni delle auto… neanche Sara riesce a trovare qualcosa che faccia al caso suo. Piero compra del sapone.

Intorno a noi si è formata una scia di bambini che ora ci segue, ora ci affianca. I più grandicelli chiedono la nostra amicizia, abbozzano qualche domanda in un inglese non sempre comprensibile: “I’m Mahemud, what’s your name?” i più piccolini ci tendono la mano, ma poi scappano via, tra il sorpreso e l’incerto. Qualcuno, più coraggioso, tiene la nostra mano con l’orgoglio della sfida vinta, dell’obbiettivo raggiunto, ma i loro occhietti continuano a guardarsi intorno ora cercando di riconoscere la familiarità ed il conforto dei propri luoghi, della propria gente, ora domandando ai noi lo stesso conforto e la stessa familiarità.

Ci rassegniamo all’idea di trovare qualcosa che assomigli alla Gran Riserva cui eravamo abituati e compriamo qualche biscotto. Ormai si sta facendo buio. Pensiamo ai ragazzi che ci stanno aspettando, quando Annette (solo lei poteva farlo) scova delle cassette di musica tra mille altre cose buttate alla rinfusa su di un telo. Anche noi abbiamo la nostra Intrallazzona. Siamo felicemente sorpresi quando troviamo Davide e Marco intenti in simpatiche chiacchiere con i bambini che nel frattempo si sono fatti loro intorno.

Questa sera, per cena, assaggeremo la njera, piatto tipico etiope. Il Tourist Hotel sembra essere l’unico ristorante a misura di turista. Lo dicono le guide, lo hanno confermato i due elvetici, ne danno prova le macchine parcheggiate all’ingresso. La njera è una specie di pane fatto con latte acido e un cereale indigeno che è la base di ogni pasto. Spessa e spugnosa, di colore incerto fra il grigio e il rosa pallido, è adagiata su un grande piatto di latta e accompagna una serie di salse e pappette tutte molto colorate e altrettanto saporite. Accompagniamo il piatto con della memorabile birra Saint George. Chiediamo un dessert, ma non ci sono cakes, ne chocolate musse, no pastries per Annette, solo breakfast pastries …eppure le guide decantavano la qualità delle bakeries di Arba Minch!!!  Annette si informa sulla possibilità di fare colazione l’indomani: dalle 7:30 potremo avere cappuccino, breakfast pastries e njera.
Foto 09

Sono appena passate le nove quando ci è fatto chiaramente intendere che è ora di andare. Torniamo all’albergo e trascorriamo ancora qualche ora fuori dalle nostre stanze con la chitarra ed una bottiglia di J&B prima di infilarci nei nostri sacchi a pelo.

11° giorno –20 ottobre, mercoledì.  
Ritz passa alle 5:30 a svegliarci. Vorremmo partire alle 7, anche in ragione dei tempi lunghi che ci sono stati preannunciati per arrivare al parco delle Bale Mountains. Ma nei buoni propositi non crede più neanche Lorenzo. Complice un servizio lentissimo, impieghiamo la solita ora per fare colazione.

Verso le 8 partiamo. Appena fuori dalla città troviamo la sede dell’università, un vero Campus nel verde e un cartello che sancisce la fine di tutti i divieti… manco a dirlo, Davide prende subito un infartino… La strada è bella, larga, asfaltata e le mandrie tutte al pascolo. Nell’ottica della responsabilità e della necessità di accelerare i tempi in vista del lungo viaggio, Davide lancia Isotta: lei, docilmente, carica di 8 persone e piena di carburante raggiunge la ragguardevole velocità di 105 km/h che, per ora, è da record. La sfida è lanciata.

Percorriamo i chilometri veloci e un sospetto si insinua: ma siamo sicuri che questa sia la strada giusta? Che ne è della velocità di 28 km/h che ci era stata preannunciata? Attraversiamo campi, villaggi, intorno le solite ali di gente. Birrbirrbirr chiede Davide ai bambini, tendendo loro la mano.

Ad un tratto la nostra attenzione è rivolta ad un forte odore di benzina… Isottina, non stai bene? Intorno c’è una agitazione insolita rispetto ai calmi ritmi africani. E’ insieme sollievo e sconcerto quando, poco dopo, vediamo a bordo strada una cisterna rovesciata, dalla quale è uscito il pericoloso liquido. Un groviglio di corpi si è fatto tutto intorno e altri continuano ad arrivare correndo e attirati dal prezioso liquido. Sono muli al galoppo, donne e bambini che corrono…tanti bambini. Portano bottiglie, qualcuno delle taniche, che riempiono per tornare a correre e sperando di poter tornare in tempo per un altro pieno. Passiamo velocemente il punto dell’ingorgo, non senza apprensione e percorriamo ancora qualche chilometro affiancando la colonna di donne e bambini in corsa…

Allontanandosi dal punto dell’incidente la frenesia si attenua, fino a ripiombare nella solita calma. Gente in cammino, donne affacciate alla strada dalle proprie case, tanti fiori di colori splendidi, bambini che sono scolaretti, nelle loro divise monocromatiche, escono dalle scuole ad ogni minuto, e bambini che sono piccoli artisti di strada e si adoperano nelle più svariate attività. Sul ciglio della strada, sguardo rivolto alle auto in arrivo, c’è chi cammina sui trampoli, c’è chi muove le ginocchia come il primo Molleggiato….Svalutation…Il dollaro va sempre più su, il birr e lo scellino vanno sempre più giù, svalutation... Davide è lanciato…più ancora dell’Isotta.

Andando verso nord, avvicinandosi alla capitale, le strade si fanno sempre più comode: carreggiata ampia, asfalto perfetto, si arriva persino ad avere la segnaletica orizzontale… noi valtellinesi proviamo un’invidia profondissima pensando alla nostra SS38. Percorriamo chilometri e chilometri. Per trovare uno spazio tranquillo dove mangiare imbocchiamo una strada secondaria che ci porta lontano dall’andirivieni della strada principale. Scarichiamo i nostri 15 kg di bagaglio a testa e ci prepariamo per il pranzo. Ma la tranquillità che troviamo è transitoria: in poco tempo si crea una piccola folla. I bambini tossiscono a turno, tradendo i sintomi della TBC. Nonno Gollum li allontana quando la loro presenza si fa troppo molesta e, discretamente, porta l’intero gruppo a qualche decina di metri di distanza quando noi cominciamo a mangiare.

Più di altre volte ho sentito l’imbarazzo della differenza che intercorre tra noi e loro. Più forte ho sentito il desiderio che si annullassero tutti i motivi che portano loro a guardare noi con invidia e noi loro con sospetto. E’ imbarazzo, certo, il rendersi conto di godere di una condizione di assoluto privilegio, ma non solo. E’ anche incapacità di comprenderne appieno le ragioni. L’uomo bianco si porta appresso la responsabilità del repressore, dello sfruttatore e forse anche giustamente. Ma sinceramente, non so se il passato possa valere sempre come giustificazione del presente e pretesto per il futuro. Forse arriva un momento in cui bisogna risollevare la testa e prendersi le proprie responsabilità, e camminare per vedere il bello che c’è per ciascuno di noi. In nome di quell’uguaglianza in cui loro per primi sono chiamati a credere che dovrebbe portarli a sperimentare l’amor proprio, l’autostima e l’autosufficienza.

Finito il nostro pranzo la folla che nel frattempo si è arricchita di nuovi elementi, si riavvicina. Salutiamo nonno Gollum e ci rimettiamo in viaggio. Lasciatemi decantare ancora una volta i paesaggi magnifici che abbiamo attraversato per arrivare al parco delle Bale Mountains.

Verso le 5:30 PM arriviamo a Dodola, una delle basi da cui partono i treking per le Bale. Arriviamo fin dove arriva la strada. Una strada di fango, che attraversa miseria e povertà. Una strada nel fango, sulla quale si affacciano occhi torvi ed ostili. Birrbirrbirr reclamano a gran voce… c’è tensione nell’aria. Siamo bloccati da una strada che finisce nel nulla e siamo bloccati dalla gente che ci si fa intorno e reclama qualcosa, senza neanche il pretesto dell’amicizia, reclama qualcosa e si allontana sbattendoci la portiera addosso ad un nostro diniego. E mentre Lorenzo ed Annette vanno per prenotare la notte nel parco, i locali si riuniscono in cerchio intorno al pick-up, dove è rimasto il solo Lumbaye. Accerchiato da una ventina di loro, i suoi occhi piccoli piccoli, lo sua voce sovrastate dalle loro voci, in uno scontro verbale che arriva fino a noi, incomprensibile e ingiustificabile. E’ chiara la sua tensione, la sua paura. Più tardi ci confiderà la richiesta etiope di lasciare il paese. Lorenzo e Annette si attardano. Qualcuno (Filippo e Marco) scende a cercarli. Qualcuno (Piero) va a dare sostegno a Lumbaye, solo contro tutti. Qualcuno (Ajente) controlla la situazione dalla strada. Noi siamo sigillate sulla land cruiser, portiere e finestrini chiusi, in una situazione già vista…allora la minaccia veniva dalle mosche tse-tse…ora ci sentiamo minacciate da altri esseri umani, e per il solo fatto di essere li, su quella strada di fango che si interrompe nel nulla. Ce ne andiamo ed è un sollievo, per tutti.

Il campo dove pernotteremo è un isola felice, trabocca di cordialità e di riguardi, un recinto la separa dall’inferno. Appena fuori dal campo, una stazione di servizio è munita di distributore fuori uso e taniche conservate all’interno di una casupola, a prova di furto. Per questo accettiamo con sollievo di essere spostati verso un’area più interna del campo, anche quando ormai avevamo scaricato una buona parte delle nostre borse. Lontani dalla strada, lontani da quegli occhi. A turno andiamo a visionare la stanzetta con bagno che ci siamo concessi, un lusso a cui rinunciamo appena ne diventiamo consapevoli. Intanto, piccole delegazioni di gente ci girano intorno, e verificano di continuo che sia tutto a posto. Va tutto bene, ma Lumbaye è spento, i suoi occhi ci raccontano il suo sconforto.

E’ difficile comprendere le ragioni di tanto accanimento nei suoi confronti. Non le capisco e forse non le capirò mai. Lui scherza dicendo che è l’invidia del popolo etiope che vede abbattuti i propri records del mezzofondo dai più resistenti corridori Kenioti. Ma se forse la responsabilità non è da attribuire a Gebrselassie o Tergat, il motore è verosimilmente l’invidia. L’invidia o il bisogno di difendere dei dritti di cui forse non si sentono ancora depositari da chi ne minaccia l’attribuzione.

Alle 20 arriva la guida etiope contattata da Lorenzo con cui prenderemo accordi per l’uscita nel Parco delle Bale Mauntains prevista per l’indomani. Siamo attanagliati da mille dubbi e da una profonda indecisione. Uscita da 4-5 ore? Uscita da 5-6 ore? Ma 4-5 ore sul ritmo di chi? Stiamo fuori la notte o rientriamo entro sera? Una o due guide? Che effetto ci farà la quota?
Solo la risolutezza svizzera pone fine a una discussione ormai stanca e alla deriva. Domani si parte per il più vicino dei rifugi (previste 4-5 ore di cammino) con due guide: una tornerà al campo base con Marco e Davide, l’altra proseguirà fino al rifugio con tutti coloro i quali se la sentiranno. In risposta ad esplicita domanda ci rassicurano che al rifugio troveremo liberi gli unici otto posti disponibili.
Andiamo a dormire presto, cullati dal severo canto del muezzin.

12° giorno –21 ottobre, giovedì.                             
Per chi non fosse già stato svegliato dal Muezzin, la sveglia suona alle 6:00. Oggi ci aspettano le temutissime 4-5 ore di cammino che ci porteranno ai 3300 m di quota del rifugio. La partenza è fissata per le 8:00. A quell’ora, puntuali, siamo nella piazza del mercato da dove imboccheremo la strada che ci porterà al punto in cui è fissato l’incontro con la guida e i cavalli. Ma la puntualità non è cosa nostra e anche solo per non venire meno alla nostra fama a quell’ora decidiamo di andare a comprare del pane. Annette (ma l’avevate già capito) si offre volontaria per andare nella bakery di Dodola; Piero (ma anche questo era prevedibile) si offre, gentleman italiano e volontario per accompagnarla; Sara (e questa è la contromossa) va con loro.
Gli altri aspettano, nella piazza del mercato di Dodola. E aspettiamo, per quasi un’ora, osservando le dinamiche di compravendita e la concitazione del giorno che precede il venerdì; giorno festivo per la religione musulmana. E per quasi un’ora siamo osservati da chi non è interessato alla compravendita o da chi è più attratto dalla possibilità di fare affari migliori con noi.
Tutto intorno sono uomini e animali. Animali legati disumanamente, ora sono le due zampe opposte, ora una zampa ed il collo e uomini che conducono queste povere bestie costringendole a movimenti innaturali; animali che gemono la loro disperazione immobilizzati a piccoli paletti piantati a terra e uomini che sputano sulla stessa terra in modo bestiale. 200/300 birr (l’equivalente di 12-18 $) è il prezzo di una capra di piccole dimensioni, 700 birr è il valore della capra grossa.

E mentre nella piazza del mercato di Dodola va in scena la compravendita, di cui noi siamo spettatori, sulla Isotta è dibattito aperto sui modi in cui vengono trattate le bestie, e sul fatto che questi modi non sempre rendano all’uomo il merito di avere qualche cosa in più degli animali. E mentre sulla Isotta il dibattito mantiene accesi i suoi toni, siamo noi stessi spettacolo, oggetto di attenzione e di curiosità. Ed è singolare rilevare quanto siano diversi i modi dell’interazione degli Etiopi nei nostri confronti, e come questa varietà di modi si ritrovi sempre, qui come altrove, e come sia inattribuibile a questa o a quella categoria di soggetti.

Riceviamo saluti o insulti, baci o sassate, sguardi benevoli o occhiate accigliate, la più profonda curiosità o il più ostentato disinteresse. Queste manifestazioni, sempre presenti, sempre estreme, sembrano l’espressione di un dissidio mai risolto, la ricerca di un equilibrio che è ancora ben lontano dal raggiungersi. L’impressione è che da parte loro sia tuttora percepita una qualche superiorità dell’uomo bianco e le manifestazioni, ora di aggressività, ora quasi di reverenza, siano, per contro, l’espressione di una lotta continua tra recriminazione ed orgoglio.

Io credo che il primo passo verso una condizione di uguaglianza sia il convincimento della propria dignità, cosa che deve venire in primo luogo da loro e, per contro, il primo ostacolo al raggiungimento di questo obiettivo sia la dipendenza ossessiva che hanno nei nostri confronti che viene, peraltro, costantemente alimentata da entrambe le parti. E’ alimentata da loro che troppo spesso vedono nell’uomo bianco la speranza, molto spesso delusa, di elevarsi dalla propria miseria, ed è un’occasione tanto ghiotta da metterli addirittura in competizione l’uno con l’altro. E’ alimentata da noi che troppo spesso ci gongoliamo nel nostro narcisismo, oppure siamo consapevoli dei benefici che ci saranno garantiti fino a che si manterrà questo stato di cose. Aiutarli nel realizzare la propria indipendenza, questo credo sia l’unico aiuto che può venire dall’uomo bianco… ma la volontà, il senso di responsabilità, quelli non possono che venire da loro stessi. Solo così si potranno affermare come gruppo autonomo, e avranno la forza di difendere e valorizzare se stessi, le proprie tradizioni e le proprie possibilità di sviluppo.

Lasciamo il mercato e quelle povere bestie. Verso le 10 e 30 partiamo per il trekking: le due guide davanti, lo zainetto in spalla, dietro i due cavalli ciascuno accompagnato dal suo stalliere e ciascuno con il limite massimo di 40 kg da trasportare. Ci chiedono se qualcuno di noi desidera salire a cavallo…noi ci lanciamo una rapida occhiata e neghiamo... no, non c’è nessuno qui che rispetti i limiti di peso e possa essere trasportato senza compromettere l’animale. Camminiamo in un arco di cedri, il sole fa capolino tra le fronde. Intorno sentiamo solo i rumori della foresta e i nostri respiri. Com’è piacevole questa passeggiata dopo tante ore trascorse nella comoda immobilità delle auto!!! Risaliamo pendii che si fanno man mano più aspri, vediamo qualche scimmia, ammiriamo il paesaggio che si apre vasto al nostro sguardo e sotto i nostri piedi e incrociamo un gruppo di slovacchi in ritorno. Il momento della sosta per il pranzo ci sembra prematuro, ci sentiamo gagliardi e sappiamo che per Davide e Marco significa la fine della camminata.
Foto 10

Dopo un pasto frugale a base di sardine e formaggio ci separiamo. Noi che proseguiamo camminiamo per circa un’oretta prima di arrivare al rifugio. E per la prima volta durante questo viaggio ci abbandoniamo alla natura, ai suoi colori e alle sue forme, ai suoi rumori ed al suo silenzio. Ci abbandoniamo alla natura e abbandoniamo ogni precauzione in un crescendo di confidenza verso la Madre Terra che mai avremmo pensato di raggiungere qui in Africa. Arriviamo ad un ruscello e Lorenzo, da buon alpinista, si fa lusingare dalle acque limpide e fresche e non esita ad abbeverarsi, presto seguito dalle tre valtellinesi che ai 3000 m delle Bale Mountains sentono aria di casa. L’acqua ha un gusto marcatamente ferruginoso, ma si lascia bere. Valentina svuota la sua borraccia di acqua calda e dal sapore oleoso, per sostituirla con del nuovo liquido. Gli altri osservano attendisti e curiosi gli effetti di tanta confidenza. Non passa molto tempo che il gruppetto torna a riconoscere qualcosa di familiare: Questa è la felce che dalla cui radice si estrae la liquirizia!, porgo la profumata radice perché anche gli altri possano assaporarne il profumo e ne estraggo il saporoso succo sempre osservata da occhi increduli. Ma è ancora Lorenzo a sentire forte l’attrazione della Madre Terra e ci invita ad assaggiare il limo rossastro di una cavità erosa dagli agenti atmosferici per completare questa armonia di sapori. Federica non si lascia sfuggire neanche questa occasione. Rimpinzati dei prodotti della natura e più confidenti nei confronti di tutti gli elementi, proseguiamo alla volta del rifugio, che raggiungiamo poco dopo. L’attesa e la curiosità per quello che sarà il ristoro della notte, sono forti.

Il primo impatto è devastante. Sulla zona giorno si aprono due stanzette sporche e maleodoranti con quattro letti uno sull’altro e…incantesimo, su una di questi è appoggiato uno zaino. Il nono ospite è uno svizzero che dovrebbe rientrare per la notte. Siamo un po’ perplessi. Che si fa? Impensabile stare in cinque in una camera, manca proprio lo spazio fisico, impensabile stare fuori, è già freddo adesso che sono le 4:30 circa. Difficile pensare di tornare giù: servono almeno due ore di cammino, più un’oretta circa di fuoristrada ammesso e non concesso che si riesca a contattare Marco e Davide per tempo. La guida ci persuade che non ci sono problemi, le due camere sono a nostra completa disposizione, troverà per lo svizzero un’altra sistemazione. L’altra sistemazione è il rifugio destinato alle guide locali. Annette, sua compatriota, va a visionare lo spazio che dovrà accogliere l’inconsapevole Svizzero e decide, per lui e per noi, che può andare bene. Lorenzo non manca di manifestare la propria contrarietà al modo di gestire la situazione, ma alla fine restiamo. Restiamo, perché è tanta la voglia di passare la notte in rifugio che ci ha portati fino a qui nonostante i timori della vigilia, perché è tardi per pensare di tornare indietro adesso, perché giù ci aspetterebbero gli sbeffeggi di Marco e Davide… No! No! No! Restiamo. Aspettiamo con ansia l’arrivo dello svizzero, e delle sue reazioni, che saranno comunque comprensibili e del tutto giustificate. Intanto le camerette sono state risistemate. Con i letti rifatti, le finestre aperte a fare entrare luce ed aria, l’impressione sul rifugio cambia. Decoroso è il giudizio unanime.

La gestione del rifugio rientra in un progetto di ‘Ecoturismo’: con gli scopi di fornire un’occupazione occasionale alle diverse persone che si occupano a turno della sua conduzione, favorire l’instaurarsi di una prospettiva di valorizzazione del patrimonio boschivo e ambientale, per contrastare il fenomeno del disboscamento che aveva ridotto dal 40% al 3% la copertura boschiva della zona.

Prima di sera risaliamo il dosso alle spalle del rifugio da cui ammiriamo l’immagine del tramonto dietro le montagne sullo sfondo di coloratissime lobelie. Torniamo. Lo svizzero poco più tardi di noi. Lui arriva, saluta cortesemente, prende le sue cose e va nella sua nuova stanzetta. Torna solo per mangiare con la guida, e mangia nel vociare e nel nostro andirivieni. Noi intenti a rilavare le stoviglie arrugginite appena prese dalla credenza con acqua gelida e con il sapone comprato da Piero ad Arba Minch e a rimpiangere la sovrabbondanza dei nostri piatti e posate che resteranno inutilizzate da Marco e Davide questa sera. Ma il clima è già quello della festa.

L’occasione richiede che sia Federica a preparare l’aperitivo. E sarà un aperitivo d’occasione: il Bale Mountain Gin. La ricetta? Segreta! Lorenzo si occupa del fuoco, tutti gli altri si dividono nella preparazione della pasta e della macedonia di frutta. Ma la nostra allegra collaborazione si interrompe ben presto: in un attimo il fumo avvolge lo svizzero e la sua cena, noi ed il nostro viavai. Usciamo dal rifugio come formiche infastidite dal loro formicaio. Lorenzo, un passato da fireman alle spalle, si sfoga in accuse e insulti: la geometria dell’apertura della stufa ha chiaramente delle proporzioni sbagliate, la camera di combustione è chiaramente troppo profonda, la legna a disposizione è ancora bagnata e la canna fumaria mai pulita. Ma non demorde, rispolvera tutte le sue conoscenze da giovane marmotta, accatasta la legna in modo da obbligare l’aria in un labirinto (Davide, avresti dovuto vederlo!!) ripulisce una canna fumaria che non vedeva la luce da decenni, seleziona la legna con cura e accende un fuoco che ha bisogno di assistenza continua.

Lo svizzero non tarda a terminare la sua cena e torna nella sua stanzetta… vogliamo credere che volesse sfuggire al fumo e non alla nostra chiassosa presenza. Noi prendiamo il pieno possesso del rifugio, anche perché fuori si è fatto buio. Lorenzo è sempre totalmente dedicato al fuoco. Qualcuno si preoccupa di cambiare i 13 m3 di fumo che hanno nel frattempo riempito le camerette con altrettanti m3 di aria rigorosamente gelida. Sara prende il controllo della cucina. Gli altri sono alle prese con l’aperitivo. E lo saranno ancora per molto tempo, perché la fiamma tenuta in vita da Lorenzo è molto stanca e la cena si fa aspettare … ma ho un ricordo vago di quella serata…
Ricordo il pane cha abbiamo mangiato ‘per asciugare’, ricordo la pasta tonno e olive di Sara: fantastica! ricordo la curiosità di Filippo e le confidenze di Lorenzo, ricordo gli accordi per l’indomani: sveglia alle cinque per vedere l’alba, ricordo le foto e le nostre espressioni, ricordo il clima allegro e caldo nel freddo della notte, ricordo Sara e la cura con cui ha lavato i denti, ricordo le risate interminabili, ma odiodiodiodiodiodio…non ne ricordo i motivi!! Aiutatemi!!

13° giorno –22 ottobre, venerdì.                                12-2-2003
La sveglia suona come un pugnale. Sono le 5:30 e poche ore che dormiamo… pian piano la consapevolezza riaffiora e restituisce il motivo della sveglia… siamo nel rifugio delle Bale Mountains, fuori il freddo del mattino a 3300 m di quota, ci aspetta il sorgere del sole dietro le montagne. Sgusciamo fuori dai sacchi a pelo quatte-quatte, per non disturbare il sonno di chi non verrà con noi. Ritz è già pronto, Federica si sta preparando, chiamiamo anche Filippo… Uno alla volta, silenziosi, le facce assonnate e non ancora convinte, una breve fila di figurine infagottate e avvolte nelle coperte va incontro alla prima luce del mattino arricchendosi man-mano di nuovi elementi.

Lo spettacolo non è degno della sua fama… il freddo lo è. Riscendiamo al rifugio dove troviamo il pacifico Svizzero seduto per la colazione ad un tavolo che, dalla sera precedente, non riconosciamo. Come il giorno precedente laviamo le tazze già lavate dai premurosi etiopi sotto gli sguardi stupiti di un gruppo di loro che riempiono la loro mattinata osservando le nostre attività, sotto lo sguardo stupito dello svizzero che associa con difficoltà tanta cura per la pulizia e tanto disprezzo per l’ordine.

Il momento dei saluti arriva troppo presto. Scendiamo verso valle. Lumbaye, Davide e Marco ci aspettano. Scendiamo con la piacevole sensazione che questa giornata oltre ai nostri ricordi ha lasciato qualcosa di più. Ci ha lasciato qualcosa di ognuno dei nostri compagni di viaggio. Ci ha fatto condividere con loro momenti speciali. Ci ha consegnato un’Annette (badate bene!!) che si attribuisce una doppia nazionalità svizzero-italiana.

Scendo in compagnia di questi pensieri, e con una nuova consapevolezza. Dopo due settimane dall’inizio di questo viaggio sento finalmente un senso di sincero appagamento nello svegliarmi nel mezzo del niente, nel condurre una vita essenziale, nel ridefinire i programmi momento per momento, nell’incognita degli incontri e delle situazioni. Il distacco dall’artificiosità del mondo occidentale, dagli agi che facevano parte del quotidiano, mi provocano un senso di benessere che è senza remore, senza rimpianti. Adesso sento che i modi del vivere in una società che vogliamo sempre più complicata non mi appartengono più.

Cos’è cambiato? Sono più fiduciosa e confidente dell’ambiente che mi circonda, sono più bendisposta ad accettare quello che verrà, mi sono liberata dalla tensione che deriva dal tentativo (inattuabile) di avere sotto controllo ogni possibile rischio. Ho imparato (inevitabilmente) ad apprezzare certi aspetti dei modi di vivere africani, anche se non posso dire di comprenderli o accettarli in toto, anzi credo di essere ancora ben lontana dal farlo… ma mi affascina e mi rilassa l’idea di vivere questo nuovo rapporto con l’ambiente che mi circonda, di lasciare che le cose seguano il loro corso, di avere finalmente alle spalle tutta la tensione che mi ha tenuta in apprensione in questi giorni, di abbandonare le preoccupazioni dell’essere soggetta alle angherie di una Natura Matrigna. …mi piace.

I racconti di Lorenzo, le avventure e disavventure che hanno visto protagonisti lui o i suoi amici in terra Africana non intaccano questo senso di pace, quasi di appartenenza ad una realtà che più conosco più sento mia.

Sono ormai quasi le undici quando raggiungiamo Marco e Davide che ci aspettano a bordo dei due fuoristrada. I loro sguardi tradiscono il trattamento di riguardo che Lumbaye ha riservato  loro, i problemi alla schiena di Marco che sono stati risvegliati dai sentieri accidentati in terra di Etiopia, e poi storie di cadute e di incidenti lungo la via del ritorno. E’ lo stesso Marco che ci racconta la dinamica ell’incidente: un carretto passava e UN uomo gridava BASTARDIIIIII etiopiiiiiii….    Io andavo per la mia strada... strada, beh... striscia di semiasfalto precorsa unicamente da una folla di pedoni (strano in Etiopia...) e da carretti trainati da muli/cavalli. All'improvviso mi trovo di fronte ad un cumulo di sabbia e ghiaia. Mi fermo ma arriva appunto IL carretto, che non riesce a passare. Sterzo leggermente verso sinistra e il carretto prosegue MA giustamente, il cavallo, non essendo dotato ne di servosterzo ne di controllo della trazione, sbanda leggermente verso la sua sinistra, intersecando la traiettoria del pick-up e stracciando il telo laterale.  Ma grazie alla fantastica opera di ingegneria civile di Marco e di Ajente, la riparazione durerà fino a Nairobi....

Su quella stessa strada accidentata i passeggeri dell’Isotta sono spettatori di un melodrammatico “No, Davide, non farlo!! …ho paura”, urlo. Ma lui, forse, non mi ha sentito.

Al campo ci accoglie un Lumbaye festoso, per il nostro ritorno, si, ma soprattutto per il chiarimento con gli Etiopi che ieri lo hanno visto indegno visitatore delle loro terre e oggi lo hanno riconosciuto devoto musulmano nella loro moschea. Nulla cambia le nostre intenzioni di lasciare il parco delle Bale Mountains appena possibile…anche perché qualcuno sussurra l’ipotesi di trascorrere qualche giorno al parco dell’Lolldaiga, dove siamo sicuri di poter vedere qualche animale….sarebbe bellissimo!!

Smontiamo il campo sotto la supervisone del dottore Etiope in camice bianco, facciamo una semidoccia a tradimento alla fontanella del campo cercando di sfuggire a quello stesso sguardo, mangiamo e ripartiamo in direzione di Dila che sono circa le due … l’ora di punta, l’ora della pennichella. Ripercorriamo la strada dell’andata fino a Shashemene, poi verso sud, con meta Yabelo, e da qui Moyale ed il Kenya. Traffico, bestie, carretti, bambini che sbucano da ogni parte, il sollievo ad ogni frenata andata a buon fine, i mille occhi di Davide, i fazzoletti di carta di Federica che ancora paga l’uso spregiudicato dell’aria condizionata e il sonno degli altri. Anche Marco dorme e ad ogni ostacolo, ad ogni franata una delle mille braccia di Davide si protende per evitare un suo incontro ravvicinato con il parabrezza…ma ATTENTO DAVIDE, QUEL CARRETTO, FRENA, ISOTTA, FRENA, MARCO, ATTENTO A MARCO… è andata bene anche questa volta, investimento mancato per poco. Proviamo ad assicurare Marco a sedile, ma ad un nostro gesto si irrigidisce, e solo su invito di Lorenzo allaccerà quella polverosa cintura che ha già firmato una delle sue magliette. Il viaggio procede stanco ed assonnato. Attraversiamo chilometri e chilometri di paesi senza nome, di strade affollate di gente in fermento…a Bologna la maratona attira un minor numero di partecipanti…

Anche noi partecipiamo agli affari di strada e compriamo qualche frutto da due bimbi non troppo impudenti, mentre oltre la strada, oltre la vegetazione, si consuma lo spettacolo di un tramonto bello e proibito.

Arriviamo a Dila che è ormai buio. La Lonely Planet del 2001 non ci è di troppo aiuto nel trovare un posto per la notte in una città in pieno sviluppo. Scartiamo presto l’ipotesi di dormire nelle camere dei tre alberghi indicati dalla guida, ora piene, ora sporche, ora troppo piccole, e ci lasciamo guidare dal colpo d’occhio e dall’intuito, dalla crescente esigenza di comodità e dal valore delle mazzette di birr che abbiamo, vanamente emarginate, nelle nostre borse. E’ doveroso garantire una doccia calda a Federica malata, ed un materasso degno di questo nome a Marco dolorante. Dopo qualche giorno di privazioni, dopo l’illusione del Bekele Molla, dopo la sopportazione della notte in rifugio, adesso che siamo in una cittadina con una qualche parvenza di civiltà come le possiamo intendere noi occidentali, noi tutti ci siamo persuasi di meritarci qualche scontata comodità, esigenze che riaffiorano appena se ne intravede la possibilità. E così una piccola delegazione di persone entra a turno ad ispezionare le stanze e a verificare che tutti i requisiti vengano rispettati.

Oltrepassiamo le mura che delimitano l’albergo Zeleke (nome inventato) dalla strada quando sono passate le sei, e con un certo consapevole sollievo. L’ingresso ampio e arredato di tavolini, l’affacciarsi sullo stesso dell’albergo di bianco vestito, il movimento degli inservienti nella loro divisa dello stesso colore dell’albergo…tutto lascia immaginare stanze pulite e confortevoli, un angolo di paradiso. Fuori c’è l’Africa. Osserviamo le stanze e otteniamo dagli inservienti le conferme che volevamo: acqua calda, corrente elettrica, pulizia…sorridiamo all’idea di poter guardare la Tv sotto le lenzuola, o anche solo di non dover fare uso del sacco a pelo.

Ognuno nella propria stanza, ma tutti con lo stesso allegro spirito, ci lasciamo al conforto della doccia…ma ben presto, in ognuna di quelle stanze lo stesso entusiasmo si fa prima illusione di una spia rossa che si accende, poi fiduciosa attesa, per precipitare nello sconforto e nel freddo disappunto… la tanto agognata e promessa doccia calda si trasforma con estrema naturalezza in un’acqua fredda con tanto di effetti stroboscopici della luce che va, viene, e poi va, per non tornare più. Inutile prendersela, inutile cercare di capire, è così. Ho imparato che in Africa le uniche certezze sono il sole del mattino e l’aria fresca della sera, questo e nulla più.

Più o meno puliti e sicuramente rinfrescati lasciamo l’albergo per la cena. Lasciamo Marco che in questo momento può ricevere conforto solo dall’aulin, lasciamo a Lumbaye la libertà di una sera. La ricerca di un posto dove mangiare è difficile come prima era stata quella dell’albergo. Alle otto molti dei locali sono chiusi. Ma non l’Habesha Restaurant (anche questo nome è inventato). Avvolti da luci soffuse e da musica assordante ordiniamo St. George Beer e (da menù) pepper beef. Gustiamo dell’ottima birra e della carne senza pepe e senza carta con del riso come contorno per l’equivalente di qualche dollaro. Annette, lusingata dallo stile accattivante del locale, dall’ottima musica e dalla varietà del menù si sente incoraggiata a rinnovare la sua richiesta di un dessert… non scoraggiata dai camerieri che si dicono disponibili ad accontentarla l’indomani, lei lascia la compagnia nel vano tentativo di farsi aprire il bar-panetteria al piano terra del ristorante che si affaccia sulla strada. Tentativo vano, si diceva, e con la voglia non appagata di chocolate muss ce ne torniamo in albergo con la speranza non ancora soddisfatta di concedersi il lusso di una doccia calda.

Arrivati in albergo, Sara e Filippo si ritirano nella loro stanza, mentre noi ci tratteniamo fuori per concludere la serata. Ben presto si avvicina uno degli inservienti vestiti di bianco con aria preoccupata e interrogativa. Ci informano che in una delle stanze ci sono un uomo ed una donna. Ne siamo al corrente? “Yes, they are married” risponde secca e prontamente Annette. Certo in un paese dove ragazzi camminano tenendosi per mano, non stupisce che sia più grave che lo stesso letto sia diviso da un uomo e una donna piuttosto che da due persone dello stesso sesso!!

E così, per una notte, Sara ha coronato il suo sogno trascorrendo a Dila la sua prima notte sposa inconsapevole di Filippo.

14° giorno –23 ottobre, sabato.   
Sveglia alle sette per fare qualche tentativo ancora di doccia calda. Le sole Annette e Rosanna e Federica, loro ospite, hanno questo privilegio. Per gli altri la consolazione viene da una colazione da strafogo. Torniamo al bar che la sera prima Annette ha tentato di scassinare e li ci viziamo di brioches, diverse torte, caffè, te, cappuccini improvvisati. Prima ancora che tutti abbiano finito di rimpinzarsi, Sara già torna con il sorriso sulle labbra e la borsa piena di caffè ed altri generi di prima necessità. In poco tempo seguiamo il suo esempio affollando negozi e botteghe che a fatica soddisfano le nostre richieste. Altro caffè, tè, fazzoletti di carta, succo di mango sono i generi che rischiano di sparire da banchi minuscoli e scorte già messe alla prova. Ma la nostra attenzione è tutta rivolta verso il moschicida Mazinga e le lamette Zorrik, che però non compriamo. Lumbaye torna con gli occhi che brillano dietro i suoi nuovi, nerissimi occhiali da sole.

Ripartiamo e percorriamo la strada n° 6, rinominata “600 buche” in direzione Yabelo. Anche qui la vita si svolge tutta a bordo strada: c’è chi accatasta legna, c’è chi vende noccioline e succhi di frutta al viaggiatore, c’è chi pascola le bestie, c’è chi lava nell’acqua sporca sopra a foglie di banana. Osserviamo queste attività tra bambini festosi e le loro urla: youyouyouyouyouyouyouyouyou e ancora fereferefereferefere. Ad un tratto un dubbio ci assale: “Fere” o “fernèt”? Sanno anche loro di Annette? Intanto, sulla Isotta, Davide alterna imprecazioni nei confronti di etiopi incoscienti a commenti sulle attività dei passanti ed elargisce loro generosi saluti romani. Marco navigatore ci descrive la strada, le sue buche, gli attraversamenti delle vacche, di carretti e pedoni, l’inizio e la fine dell’asfalto, il momento buono per ogni sorpasso. Federica alterna il sonno alla distribuzione dei biscotti, sempre difesi e custoditi dai monster, monster, monster. Filippo e Sara trascorrono ore esponendo alla luce del sole i pannelli del loro carica batterie. Annette dorme, dorme, dorme, svegliandosi solo per chiedere un pee-stop. Ros bilancia Isotta con il suo peso irrilevante e quando ha l’impressione di non poterci fare nulla si spiana sul sedile con gli occhi al cielo.

Sulla strada autisti incoscienti e spregiudicati sono specializzati nel sorpasso-in-salita-prima-di-curva-cieca… Did you find your driving licence in the Kinder-surprise eggs? chiede Davide ad uno di loro. Intorno è un’esplosione di colori e di fiori: il rosso delle stelle di Natale, il rosa ed il fucsia delle bouganville, e poi carretti, capanne di legno con relativi orticelli e casupole di legno e fango, tombe sparse qua e là ingabbiate a bordo strada, terrazzamenti fatti con taniche arrugginite come “stabilizzazione naturalistica” del versante.
Pee stop chiede Annette, appena sveglia. Ci fermiamo e subito siamo circondati da bambini sbucati da ogni parte, la sola Annette è tanto ardita da cercare un luogo forse appartato in mezzo a quel continuo andirivieni. La sosta è anche l’occasione per dei tentativi di comunicazione che si fa subito vivace e ilare. Sono questi approcci spontanei e sinceri con le popolazioni locali, l’incontro dell’Africa più vera e autentica che rendono questo viaggio straordinario. La sosta diventa anche l’occasione per un siparietto… cominciamo ad urlare you you you ai passanti.
Arriviamo finalmente a Yabelo. Da quando abbiamo letto sulle guide che il sabato è giorno di mercato Borana, Sara non sta più nella pelle. Ci fermeremo quindi per fare qualche acquisto, prima di cercare il parco dove intendiamo trascorrere la notte.

Il mercato è infinitamente curioso, con la sua folla variopinta e brulicante, indaffarata intorno a prodotti strani e odorosi. I venditori, uomini o donne, avvolti nei loro scialli policromi e accoccolati a terra dietro le loro misere mercanzie, i capelli splendidamente acconciati attendono ed invitano il cliente ad una sosta... Le merci sono poche e disposte grossolanamente su stracci e stuoie: zucche piene di latte ornate di cuoio e conchiglie, frutta, e verdura, sapone venduto a peso, sacchetti di sale, pesce affumicato... Noi ci fermiamo osserviamo, ansiosi di mettere in pratica i consigli di Annette: contrattare sul prezzo, fingere disinteresse ed al limite rivolgersi al venditore successivo. Ma non c’è molto spazio per la contrattazione, c’è un cartello sui prezzi e poco spazio per la trattativa. Completiamo il giro del mercato seguiti da una piccola folla di bimbi, alcuni, i più simpatici ci coinvolgono nei loro giochi, mentre i più antipatici fanno di Annette e Vale i bersagli delle loro sassaiole.

Cerchiamo dove poter registrare l’ingresso al parco e chiediamo informazioni ai passanti ed ai presunti responsabili, ma nessuno a Yabelo ci da indicazioni certe sul parco di Yabelo. Le nostre domande, le nostre telefonate ricevono risposte ora vaghe, ora contraddittorie. Ripartiamo, sconsolati, con la nuova intenzione di cercare un campo per la notte. E ci imbattiamo nell’ingresso dello stesso parco per il quale ci siamo affannati inutilmente, ed entriamo, senza alcuna autorizzazione. Scegliamo un luogo appartato per fare il nostro campo libero non autorizzato lontano dalla strada. Ci nascondiamo nel bush illuminato dal chiarore della luna piena e suoniamo la chitarra sussurrando un canto. Osserviamo il movimento delle luci di qualche vettura in movimento lungo la strada, prestiamo attenzione ad ogni rumore proveniente dal bush.

Le parole sommesse ed essenziali, i tormentoni già consumati e le confidenze che faticano a trovare spunti al di fuori del pettegolezzo… durante questa sera, e per la prima volta, lasciano il posto ad accesi confronti e discussioni che coinvolgono svariati temi e, quasi simultaneamente, piccoli gruppetti di persone. E stupisce che sia successo solo ora, dopo 14 giorni, dopo avere conosciuto un paese e modi di vivere tanto diversi dai nostri ed avendo la consapevolezza che noi stessi ci accostiamo a tutto questo con occhi tanto diversi. E’ avvenuto, in modo spontaneo e sincero, come uno sfogo ed una liberazione. Anche se nel mezzo del bush nessuno le ha sentite, quelle parole risuonano ancora nelle nostre teste e, sono sicura, porteranno ad una maggiore tolleranza e collaborazione all’interno di quello che prima era una comitiva in cerca di avventura mentre ora è diventato un gruppo di persone con la voglia ed il coraggio del confronto e l’apertura a rivedere le proprie posizioni.

15° giorno –24 ottobre, domenica.           
Questa mattina svegliarsi nella tenda significa che non ci hanno arrestati, e questa è già una buona notizia. Ma la nostra permanenza non è passata comunque inosservata. Pochi per volta si avvicinano fino ai margini del campo donne, bambini, anziani della tribù dei Borana, fino a formare un nutrito gruppo. Ci osservano a distanza, si aggirano intorno al campo, attendono le nostre mosse. Lumbaye uomo saggio e conoscitore dell’animo umano gestisce i confini e garantisce che tutto avvenga con ordine ed equità. E mentre Lumbaye distribuisce latte e pezzi di pane Annette ed io rinnoviamo a Sara e Filippo la sfida di riporre materassini e tende con la maggior salvaguardia di spazio.

Ci re-immettiamo sulla strada e nella legalità. Il programma della giornata prevede la visita alle rock paintings all’interno del parco di Yabelo e al Salt Lake nei pressi di El Sod. Cerchiamo le rock paintings e troviamo un Lodge spettacolare: casette di legno con pannelli solari… e acqua calda per lavarsi pensiamo, all’unisono. Il gestore del lodge, un simpatico italiano ci sconsiglia la visita alle incisioni rupestri Distano da qui 2 ore e mezza di strada, e non meritano tanta fatica. Seguiamo il suo consiglio e chiediamo come arrivare al Lago di Sale.
Ci mettiamo nuovamente in viaggio, la strada è bella e ci permette di toccare la punta di 118 km/h; i chilometri percorsi raggiungono quota 3000. Raggiungiamo il villaggio di El Sod da dove parte la mulattiera che porta al vulcano spento, ed al piccolo Lago di Sale che si è formato all’interno del suo cratere. Il villaggio è abitato da gente della tribù dei Borana che ha dovuto lasciare il basso Omo perchè sopraffatta da etnie ben più aggressive. Il tempo di arrivare basta per essere accolti da mille mani protese, occhi imploranti, voci che non danno tregua. Ci vengono mostrati i prodotti dell’artigianato locale, piccole pietre raccolte nell’intorno del lago, ci viene offerta l’opportunità di una guida che ci indichi il sentiero e le peculiarità del lago. Ci vuole un attimo per mettere ordine a tanta frenesia e per organizzare la piccola spedizione. Nicolas, my name is Nicolas!! dice la voce di un bimbo che conta i poter chiudere il suo affare al nostro ritorno. Marco non verrà, non può abusare dei benefici dei farmaci, Lumbaye resterà con lui.
Foto 11

Guida al seguito, scendiamo lungo una mulattiera polverosa fino al lago, che si mostra come una grande pozzanghera di petrolio, lungo i ripidi e stretti fianchi del cratere, incrociando diversi asini che trasportano le pesanti bisacce di fango nero. Fra Martino campanaro, suoni tu, suoni tuuu …un pugno di bambini ci accompagna verso il lago, noi, divertiti e sorpresi, ci uniamo al coro di Nicolas e degli altri bimbi. Il lago appare incredibilmente nero e denso, anche da lontano. Ai margini del sentiero capita di vedere del materiale grigiastro e asciugato dal sole che ci viene indicato come il sale estratto dal lago di fronte a noi. Giungiamo di fronte alla chiazza oleosa ed osserviamo le attività connesse all’estrazione del sale. Uomini si immergono nudi a turno nell’acqua salmastra per riemergere con il prezioso carico che viene portato a riva e caricato sui somari che risaliranno i 500 m di dislivello dal cratere fino al villaggio. E mentre sotto i nostri occhi si perpetua lo stesso rituale, ci lasciamo impressionare dai racconti straordinari della guida.

20 milioni di anni fa le montagne hanno fatto un salto a si sono spostate a 18 chilometri di distanza. Questo fatto è testimoniato dalla vegetazione che è identica qui e laggiù. Subito dopo le popolazioni limitrofe sono giunte fino a qui per estrarre i prezioso sale dal lago. Ebbene, ci sono tre tipologie di sale: il sale bianco, che viene utilizzato dagli uomini, il sale nero che viene usato per gli animali ed il sale cristallizzato per gli uomini e gli animali. Ora, il sale nero, se esposto al sole durante la stagione calda (gennaio e febbraio) quando le temperature raggiungono i 35-45°, diventa bianco. Gli uomini forti possono astrarre dal lago anche 300 kg di sale al giorno. Certo il contatto con l’acqua salmastra danneggia gli occhi e la pelle. Il sale poi viene trasportato dagli asini fino al villaggio. Un carico di sale costa 80 birr.

Terminate le spiegazioni, i bambini ci circondano con secchi di bottiglie di coca-cola fresca che porteranno sollievo dal sole a picco di mezzogiorno e dal groviglio di informazioni che ci sono state appena impartite. Risaliamo il cratere cercando di capire per quale equatoriale fenomeno il sale nero possa diventare bianco per il solo effetto dell’esposizione al sole. E con questi pensieri, e con il sole a picco, cominciamo la risalita, mentre, silenziosi, i bambini che durante la discesa si erano tenuti in coda la gruppo, pole-pole risalgono le fila fino ad affiancarsi ad ognuno di noi. What’s your name? chiedono i bimbi, I’m Debabe risponde poi We are friends conclude stringendoti la mano.

Il caldo è estenuante, al limite della sopportabilità, la salita di ciascuno è sempre scortata da uno dei bimbi che ora indica una piazzola dove sostare per lasciare il passaggio alla discesa di una colonna di somari, ora scosta il ramo che intralcia il sentiero, sorry, sorry ora si scusa per la presenza di un sasso che ostacola il passo. La salita è faticosa e presto le indicazioni dei bimbi su come procedere su un sentiero tanto ostile si sostituiscono all’incoraggiamento ed allo sprono. Strong, strong ripetono ciascuno al proprio protetto, number two commentano osservando quell’unico uomo bianco che lo precede. Nei pressi della sommità del cratere ci aspettano le bambine, cui –ne deduciamo- era stata negata la possibilità di scendere al cratere. Nel frattempo l’incitamento dei bimbi si fa appassionato, degno del migliore Bisteccone-Galeazzi, quando, in prossimità della sommità del cratere, le posizioni dei nostri si fanno più vicine e la vittoria si fa più incerta. NUMBER ONE, NUMBER ONE la discussione si accende con qualche altro bimbo che cerca di fare strada al passaggio del proprio beniamino.

La fine della risalita porta con se un certo sollievo, ma la rimpiangeremo presto. Osserviamo con divertita curiosità Marco, sul tettuccio della Isotta, al riparo da tanta molestia e lontano dal venditore da cui avevamo già comprato qualche pezzo. Ma ne comprendiamo fin troppo presto le ragioni. Ha un fungo esteso su tutto il braccio dice dall’alto del suo tettuccio.

L’assalto di chi aspettava con ansia il nostro ritorno prende il posto del caldo e della fatica, che ci sembrano ora di gran lunga più sopportabili e ci lasciavano sicuramente maggior respiro. Ad ogni passo ci trasciniamo intorno un gruppetto di una decina di bimbi, con i loro oggetti, con le loro manine protese e gli occhi imploranti. Non c’è riparo da tanta insistenza, ti tolgono l’aria quando ti fermi, ti sono alle calcagna quando cerchi di sottrarti alla loro presenza incalzante. Sentendo il venir meno delle forze mi appoggio alla portiera chiusa, cerco il conforto dei nostri, il vecchio mercante minaccia i bimbi, con il braccio malato proteso, intimandoli ad allontanarsi, qualcuno di noi fa lo stesso quando, allontanatosi il vecchio, i bimbi tornano all’assalto. Quando arrivano gli altri? penso tra me e me andando in direzione del cratere…Dov’è Lumbaye?

Ed è così che vedo Valentina, stravolta, e ansimante, tenuta per mano ed incitata da due giovanotti Borana che, vistala in difficoltà, la hanno sostenuta ed incoraggiata durante la salita. Soffro d’asma ed ho fatto fatica – ci spiega – i due Boarana si sono accorti e mi hanno presa per mano, ma mentre io chiedevo loro di fermarsi per riposare, loro tenevano un passo cui io non sono abituata.  Le basta una sosta e dell’acqua per riprendersi… gagliarda Vale!!
Paghiamo qualche birr ai bambini-sostenitori, compriamo qualche recipiente per il latte fatto  con pelli e corna di animali, contrattiamo secondo gli insegnamenti di Annette, aspettiamo il ritorno di Lumbaye dalla moschea e finalmente partiamo

Tutto intorno è deserto, ci sono solo sabbia, sassi e qualche tronco che non ha trovato la pietà del sole. In questo deserto consumiamo uno dei pochi pranzi solitari, fuori dalla portata degli sguardi di donne e bambini, ma comunque interrotto da un breve temporale che arriva puntuale proprio mentre stiamo gustando della discutibile carne in scatola. Eppure l’impressione era che in questa zona non piovesse da anni!!! Raccogliamo le nostre cose e ripartiamo i fretta, in direzione del confine. L’intenzione è quella di fermarsi qualche chilometro prima della cittadina di Moyale, per evitare di dover pernottare nella zona di confine, o peggio ancora, in territorio keniota ad appannaggio degli shifta11.
Lungo la strada che ci riporterà nella nostra seconda patria troviamo i ruderi di quello che era stato un fortino italiano… Il forte di Mga che veglia sulle pianure che difendeva. Il buon Ajente non stà più nella pelle: si sofferma con fare solenne nei pressi della lapide trafugata di un valoroso generale Italiano, attraversa quei ruderi con il passo autorevole di chi si sente a casa propria, si inerpica su quelle rovine e osservando il rift che si apre sotto i suoi piedi pronuncia quello che diventerà un famoso discorso: Camicie nere della Rivoluzione! Uomini e donne di tutta Italia!  Italiani sparsi nel mondo, oltre i monti e oltre i mari: ascoltate. Un'ora solenne sta per scoccare nella storia della Patria. Da molti mesi, la ruota del destino, sotto l'impulso della nostra calma determinazione, si muove verso la mèta: non è soltanto un esercito che tende verso i suoi obiettivi, ma è un popolo intero di 44 milioni di anime, contro il quale si tenta di consumare la più nera delle ingiustizie: quella di toglierci un po' di posto al sole.

Il resto sono chilometri percorsi tra vallate ed altipiani, tra celle temporalesche non sempre previste dal meteorologo Filippo e termitai, tra salvataggi di tartarughe impegnate nell’improbabile tentativo di attraversare una strada che non fa sconti a nessuno, e numerosi tentativi puntualmente falliti di entrare in possesso dei golosissimi… chocolate bisquits!!
Quando siamo a poche decine di chilometri dal confine keniota Lorenzo raccoglie tutta la sua fantasia per la ricerca di un posto per la notte al riparo di occhi indiscreti, lontano dalla strada, arte nella quale ama sbizzarrirsi. Attraversiamo il bush e gli ostacoli di rovi ed acacie con uno spensierato divertimento. Lumbaye è visibilmente felice di rientrare nel suo paese, il paese del sole dice, e riporta lo scambio che ha avuto recentemente con un Etiope: Il Kenya è arido, la pioggia è benedetta da Dio” “anche il sole è benedetto da Dio” è stata la risposta di Lumbaye. E anche noi dopo le esperienze vissute in Etiopia sentiamo un certo senso di appartenenza alla nazione Keniota.

Stabiliamo il nostro campo in uno spiazzo ampio e ben riparato dalla vegetazione, lo puliamo dai rovi con la cura che si confà ai gesti ormai usati e che presto saranno solo un piacevole ricordo. E mentre prepariamo il campo sentiamo i lamenti gutturali di qualche dromedario, che io scambio per una perfetta imitazione di Lorenzo. Allontanatami dal campo in perlustrazione alla ricerca del dromedario sono spettatrice di un tramonto che è memorabile e attira anche gli altri fotografi del campo. Un termitaio in primo piano, la boscaglia di acacie fino all’orizzonte, non manca nulla, solo non si vedono i dromedari.
La serata è piacevole e pretende la chitarra. L’aperitivo con Gin & Tonic è affiancato al fumo della sisa gusto m… mela, gusto mela.

16° giorno –25 ottobre, lunedì.                        
Questa mattina nel campo aleggia una leggera tensione. Passeremo la frontiera? FinFinFinFin
Ci faranno problemi quei timbri che mancano sui documenti dei fuoristrada che avremmo dovuto apporre ad Adis Abeba? FinFinFinFin Riusciremo a percorrere i 300 km fino a Marsabit entro sera, per evitare di dover fare il campo nel territorio dove spadroneggiano gli Shifta? FinFinFinFin
La giornata inizia con i peggiori auspici. Annete veste viola. Si perché, in realtà, la cosa che ci preoccupa di più non è tutto quello che dobbiamo fare, o quel grado inevitabile di rischio che c’è quando si è costretti ad avere a che fare con chi in Africa tiene le redini della legalità, no, ci preoccupa l’imponderabile, e la consapevolezza che fino ad ora è andato (quasi) tutto bene.

Partiamo, dopo che Lumbaye ha abilmente estratto con la forza del calore le due zecche che si erano autoinvitate sulla gamba di Filippo. Partiamo, e dopo aver percorso pochi chilometri siamo costretti a rallentare…il solito incosciente che attraversa la strada come fosse un giardino, un uomo ubriaco, sembra cieco, che si appoggia sul bullbar della Isotta, e li trova il sostegno che non gli possono più garantire le sue gambe e l’equilibrio che non gli può dare il suo cervelletto. Davide cerca di farlo spostare, accennando il movimento, l’uomo viene trascinato via da altri che osservano la scena da bordo strada, lui cade e da terra, inerme, ci lancia improperi e sassi.
Percorriamo ancora qualche chilometro e, questa volta, a fermarci è un check point alle porte di Mojale. Controllo documenti. Tutto bene con i passaporti, ma quando l’attenzione di quegli uomini in divisa blu si sofferma sui documenti dei fuoristrada, e sui timbri mancanti, la tensione si fa palpabile e si legge anche sul volto dell’imperturbabile Ritz. Noi, dalla Isotta, cerchiamo di capire le contestazioni dell’Etiope e le giustificazione del nostro chief leader. Cerchiamo di interpretare gli sguardi e le espressioni, quando non capiamo le parole. I minuti ci sembrano ore. Ritz riceve i propri documenti e ci lancia un’occhiata piena di soddisfazione. La visita obbligata ad Addis Abeba sembra scongiurata. Il fatto di avere effettuato l’ingresso in Etiopia passando per Omorate sembra aver persuaso gli uomini dell’ordine che ci lasciano passare. La giustificazione che va bene per lui va bene anche per noi e ce ne andiamo, con fretta composta.

Entriamo in Moyale e ci chiediamo se e quando Ritz considererà necessario fermarsi per fare il pieno. E’ quindi con una certa sorpresa che lo vediamo svoltare al primo distributore della cittadina, la NOC (Natural Oil Company). Alla stazione di servizio lui ci mostra la ruota posteriore del pick up bucata. Cambiamo la gomma. Introno si aggira un gruppetto di curiosi e una figura vestita di viola ...speriamo non ci porti sfortuna!

La sosta convince Ritz che sarebbe opportuno fare il pieno: passata Moyale ci aspetta il deserto e circa 250 chilometri da percorrere. Perché allora, dopo un breve dialogo con il benzinaio, Ritz supera la pompa di distribuzione senza dare conforto a Davide ed ai serbatoi quasi vuoti? Ci spiegherà che, vedendolo, gli omini etiopi gli volevano applicare un prezzo di favore di 13 birr per litro di gasolio a fronte dei 10.81 birr/L esposti. Ritz, da vero uomo di Kibera decide di cercare un altro distributore. Tutti dismessi. Ci tocca tornare al NOC, e ci tocca constatare che questi della NOC hanno ben d’onde di spadroneggiare sul prezzo del diesel, avendone il monopolio e la complicità di chi ci ha garantito che oltre confine non ne avremmo trovato altro. Torniamo indietro, dunque, Lorenzo fa il pieno al pick up ma questi dispettosi Etiopi, negano il pieno alla Isotta, che resta all’asciutto.

Ripartiamo sconsolati e con Davide già in uno stato d’ansia: pensa all’idea di essere fermo, senza diesel a bordo di una strada nel mezzo del deserto e con gli shifta intorno. Anche Annette è in ansia: pensa all’idea di festeggiare il compleanno, senza neanche una bottiglia di alcool, nel cuore dell’Africa (e con noi introno). Nello scontento generale lei decide di andare alla ricerca di qualche bottiglia per l’indomani. La lasciamo, impotenti, nel guazzabuglio dellaittadina mussulmana, a bordo strada. Piero la accompagna. Nel frattempo noi andremo a cambiare le nostre migliaia di birr alla banca dell’Abissinia.
All’entrata della banca veniamo perquisiti con estrema diligenza. All’interno ci dicono che non intendono cambiare i nostri birr in dollari o in qualche altra valuta, e già ci preannunciano che lo stesso sarà in tutte le altre banche. Ci suggeriscono invece il mercato nero: lì non avremo problemi. Ce ne andiamo con la vaghissima impressione che tutti qui cerchino di approfittare di noi. Ci piazziamo a bordo strada in attesa di Annette e Piero e delle loro birre e ne approfittiamo per fare il punto della situazione.

Sono le 10:33, siamo a Moyale e abbiamo ancora alcune cose da fare:
Aspettare l’arrivo di Annette e Piero di cui nessuno di noi ha il numero di cellulare;
Riparare la gomma bucata;
Fare il pieno alla Isotta;
Passare dall’ufficio di immigrazione Etiope in vista dell’uscita da paese;
Passare la frontiera e dall’ufficio di immigrazione Keniota per il controllo documenti;
Fare rifornimento di acqua e frutta e verdura;
Percorrere i circa 250 km che ci separano da Marsabit per evitare di essere presi a colpi di kalashnikov dagli shifta.
Il tutto possibilmente entro sera. FINFINFINFIN

h 11:05
Recuperata Annette, Lorenzo ci raggiunge all’ufficio immigrazione Etiope dove noi altri, nel frattempo, abbiamo regolarizzato i passaporti.
h 11: 11
Passiamo il confine, che identifichiamo con la fine della strada asfaltata e l’inizio del pantano e della polvere. Si, siamo rientrati in terra Keniota.
h 11: 59
Usciamo dall’ufficio immigrazione keniota dopo aver fatto/rifatto il visto per ovviare alla inconsistency dovuta alla mancanza del timbro che avremmo dovuto fare all’uscita dal Kenya, ma che non abbiamo potuto fare dal momento che ad Illret non c’è un vero e proprio ufficio immigrazione ma solo un posto di polizia e li non sono soliti usare i timbri. Ancora una volta siamo ammirati dalla scrupolosità dei modi africani nelle questioni burocratiche… in Italia abbiamo ancora molto da imparare!! Lasciamo l’ufficio con un nuovo visto, lasciamo una lacrima sul visto…doppio e l’inconsistency tutta ancora da sanare dai nostri passaporti, dal momento che nulla è stato fatto  per regolarizzare il visto non chiuso e ritenuto non valido. Mentre tutti completano la procedura, Ajente et alii vanno cercare un distributore dove fare carburante.

Welcome to Kenya!
Ci accolgono spacciatori di mirà, ufficiali corrotti, kalashnikov spianati, strade dissestate, tutti i confort della cittadina di frontiera e i convenevoli dei Kenioti e delle loro continue domande: How are you? e Welcome to Kenya. Mai tanta cortesia è stata più sgradita. C’è una certa tensione ed un po’ di malessere per il sommarsi di tutti questi piccoli inconvenienti, per i continui ritardi, per l’ostinazione nel non voler rinunciare alle cose futili per evitare di correre un rischio che i più stanno cercando di scongiurare. La sola Annette riesce a ridere, nel mezzo della preoccupazione di noi tutti, nel mezzo di una cittadina di frontiera sporca e poco raccomandabile, tra sguardi che la vita ha reso duri, tra il viola delle insegne pubblicitarie e degli abiti, delle carrozzerie e dei cartelli. In mezzo a noi che vediamo tutto viola.
h 12:39
La gomma bucata è stata riparata. Lumbaye, che nel frattempo è andato a comprare frutta e verdura, non è ancora tornato. Decidiamo di andare a cercarlo. Percorriamo più e più volte le quattro strade di Mojale. Scusi, buon uomo, ha visto Lumbaye? Di lui nessuna traccia. Possibile che tutto oggi porti a dei rallentamenti??? Riusciremo mai a partire?
h 12:59
Trovato Lumbaye. Era tornato indietro verso il distributore di benzina e l’ufficio immigrazione.
h 13:10
Carichi di acqua, e avendo pranzato con l’illusione di una banana, partiamo. Ci aspettano circa 250 km di strada convessa nel fango e nella polvere, i nostri autisti si sbizzarriscono nella guida saponata. Mi metto comoda sulla Isotta rimpiangendo l’istante in cui, alla domanda del Dottor Gino che valutava la necessità di prescrivermi il tavor Soffri di allucinazioni e stati d’ansia? avevo negato. Se ne soffrissi non partirei per tre settimane in Africa!!  E comincio un training autogeno che dovrebbe evitare che nelle prossime ore possa prendere l’ultimo e definitivo infartino, o, quantomeno distoglierà la mia attenzione dai pericoli che mi aspettano con ghigno malefico dietro ad ogni curva, ad ogni derapata che segue una frenata o un cambio di direzione troppo ardito, ad ogni inclinazione del fuoristrada a sfidare le leggi della fisica…Sedatemi!!!
h 13:19
Ad un pee-stop (l’unico lusso che ci concediamo in questo viaggio infernale) cade nel fango la maglietta viola di Annette. Interpretiamo questo come un buon segno.
h 13: 26
Le nostre illusioni svaniscono presto. Veniamo fermati ad un posto di blocco. Forse non è sufficiente che il colore della maglietta sia coperto da uno strato di fango!!! In cuor nostro ci auguriamo che i tutori dell’ordine dimostrino la stessa solerzia da qui alla fine del nostro viaggio.
h 15:10
Siamo a Sololo, abbiamo percorso 80 dei 250 km che ci separano da Marsabit, abbiamo ancora poco più di tre ore di luce e la nostra velocità media (che corrisponde alla massima) è di 35 km/h. Ma la pista sembra migliorare. O forse è solo un’impressione. Infatti la velocità non aumenta, cambia solo il fondo: si passa dal fango alle sassaie, con corsie fossilizzate da milioni di passaggi. Io sono spianata in stato semi-incosciente. E’ per questo motivo non mi si sente più. Gli altri vorrebbero dormire ma per taluni gli scossoni continui, per altri la fame, per altri ancora una certa preoccupazione, non lasciano libera espressione al sonno.

La presenza di passaggi obbligati, come calchi di rotaie, per certi versi favorisce la guida della Isotta. Ma le ruote sono ormai fuori convergenza. Una volta lasciate le rotaie, alla guida di Davide Isotta torna ad essere una sconosciuta. Donna esigente e stravagante lei, uomo caparbio e ostinato lui. Davide vince la sua partita e riesce a domare Isotta. Ma le regole le ha definite lei: servono due giri di volante per svoltare a destra, due giri di volante per la sinistra, continue sterzate a destra e sinistra per tenere la direzione rettilinea. (Sono la prima a stupirmi della lucidità che ho mantenuto in quei momenti di grande sofferenza tanto da poter documentare questi fatti).
h 16:00
Annette, che non è mai riuscita a soddisfare la sua voglia di dolci, vorrebbe fermarsi in un villaggio di stracci alla ricerca della bakery. La notizia è che per questa richiesta ha rischiato il linciaggio.
h 16:30
Si decide che nel giro di 30-45 minuti cominceremo a cercare un campo per la notte perché Marsabit dista ancora più di un centinaio di chilometri e dobbiamo comunque trovare dove fare il campo prima del tramonto. Spinto dai morsi della fame e nell’ottica della prossima sosta, Davide si adopera nella cacciagione: lo struzzo gli sfugge, ma mette sotto la Isotta due francolini. Purtroppo sulla strada non c’è traccia della nostra cena, e non c’è alcuna prova per Lorenzo della buona riuscita della caccia, se non la nostra sincera e disinteressata testimonianza.
h 17:20
Lorenzo ci sorprende trovando, in un deserto completamente piatto e sassoso, una pista che ci porta fuori dalla strada principale e ci offre l’ombra di due acacie e la protezione di una duna., l’unica di tutto il deserto. Da quando non abbiamo più il favore degli dei, ci è difficile immaginare di poter trovare il conforto dell’ombra o di una protezione, o anche solo la possibilità di allontanarsi da una strada attraverso un terreno tanto sconnesso e sassoso. Mai e poi mai avremmo pensato di trovare tutto questo nello stesso posto… un incantesimo?
Foto 12

Stabiliamo il campo dove solo gli scorpioni osano fermarsi e dove solo gli shifta sono soliti  passare. Osserviamo e siamo osservati dagli ultimi mezzi che percorrono la strada ad un centinaio di metri da noi, ammiriamo il miraggio di un lago in lontananza, assistiamo impotenti al calare del sole e delle tenebre.
Eppure la serata nel campo procede piacevole e tranquilla. Nascosti dietro quell’unica duna  cerchiamo di farci notare dai predoni suonando la chitarra, discutendo senza ritegno, accendendo le luci nelle tende. Annette, minacciata, ha momentaneamente abbandonato la sua maglia viola.
Dormo un sonno affaticato dalla tensione accumulata durante la giornata e per tutto quello che sarà. E’ con un certo rammarico che constato come la straordinaria bellezza di questo paese, questo nostro tentativo di vivere nella e della natura, sia stata più volte offuscata dall’uomo, che spesso si dimostra il più selvaggio tra gli animali. Sono questi i pensieri che scacciano il sonno e che precedono l’arrivo dell’alba. Il ticchettio della pioggia arriva nel deserto come un segno degli dei.

17° giorno –26 ottobre, martedì.
Ancora una volta il risveglio serve a dimostrare che la notte è passata. E tutto è andato bene. Lorenzo passa a chiamarci alle 5:30; nelle nostre intenzioni dovremmo metterci in marcia entro le 7. Per la giornata di oggi sono previsti i restanti 70 km per Marshabit e poi altri 340 km fino a Barsalinga. Facciamo colazione sotto la pioggia… a sconfermare le previsioni di Lorenzo.

Buon compleanno Annette!!...dov’è Annette? ….O no, cosa ci fa con ancora indosso quella maglia viola?

La strada è ancora da 35 km/h, in un continuo alternarsi di pietraie, raffiche di vento, sabbia e fango. Fino a Marsabit, dove è nebbia fitta e costante. Io, che al termine della giornata di ieri mi ero ormai assuefatta agli sbandamenti ed ai sobbalzi imposti dalla elevata velocità, ripiombo oggi in uno stato di isteria compulsiva ed ho ormai assunto la forma del sedile. Ma non sono la sola a soffrire le condizioni della strada. Prima Isotta accusa la rottura dell’ammortizzatore anteriore sinistro, quello già riparato ad Arba Minch, e della stessa barra anteriore. Filippo, che conosce le leggi della fisica e le proprietà dei materiali suggerisce che, vista la mia rigidità, sarei una valevole sostituta della barra rotta. Poco dopo siamo costretti ad un’altra sosta, quando a rompersi è la cinghia che tiene legata la bombola del gas al tettuccio della Isotta. Io sono già occupata.

La situazione si sta facendo critica e richiede una decisione tanto drastica quanto coraggiosa. Bisogna decidere cosa fare di quella maglia che ha portato tante sventure. Due sono le ipotesi che raccolgono maggiori consensi: vendere la maglia alla bakery di Isolo (dove saremo sicuramente costretti a fermarci) per del pane, oppure fare della maglietta un falò insieme alle calze di Valentina. La decisione non è ancora stata presa quando, complice una serie di curve prese ad alta velocità e qualche masso che vediamo sul ciglio della strada solo quando è troppo tardi, ci troviamo prima a sbandare contro un terrapieno a bordo strada, poi a rimbalzare all’interno della curva… scivoliamo sulla pista come una barca in mezzo al mare seguendo la scia già solcata dal pick up prima di noi. Ed è proprio il pick up che riporta il danneggiamento del boulbar.

Nebbia fitta e uomini zombi a Marsabit. Annette insiste per fermarsi a cercare la bakery ad ogni raggruppamento di capanne che vede lungo la strada. Finalmente, passata Marsabit, le condizioni del fondo stradale piano-piano migliorano. E anche i nostri pensieri cominciano a dedicarsi ai prossimi giorni a Loldaiga. Le aspettative sono altissime. Chissà se riusciremo finalmente a vedere i felini!! Ma anche solo le giraffe e gli elefanti… ecco, sì, mi piacerebbe vedere un elefante!!

Attraversiamo paesaggi che tornano ed essere splendidi: la vegetazione lussureggiante, la valle di Ewasu Nyiro. Le preoccupazioni dei giorni scorsi, le disavventure che ci hanno visti protagonisti sono solo un lontano ricordo. Ormai l’argomento di discussione è Lolldaiga: meglio la comodità del dormire nella Farm House o le possibili sorprese del campo libero? E’ strano sentire aria di casa tornando in un paese che si vede per la seconda volta. La tensione dei giorni e delle ore scorse si dissolve senza lasciare alcuna traccia, anche io riesco a dormire in viaggio, la prima volta da quando siamo partiti. Ma il mio sonno è evento tanto eccezionale come l’incontro di una coppia di elefanti che attraversano la strada poco distanti da noi prima di trovare riparo nel bush… puttanzena!!!

Facciamo una sosta per rifornimenti vari, vediamo gli effetti del fumarsi la colla. Ma la sosta è breve. Vorremmo arrivare a Loldaiga entro sera, magari abbastanza presto per fare un game drive prima del tramonto. I due fuoristrada sono spinti a tutto gas, mentre Lorenzo ci racconta della riserva.
Lolldaiga è una riserva privata che vive principalmente delle partecipazioni di alcuni azionisti. Ci sono tutti i principali felini e mammiferi, in una zona non accessibile ai visitatori del parco sono presenti anche i rinoceronti neri, specie ormai in via di estinzione. In condizioni normali è abbastanza comune vedere tutti questi animali, anche se la scarsa presenza di turisti fa sì che gli animali siano abbastanza diffidenti nei confronti dell’uomo e quindi meno facilmente avvicinabili rispetto ad altri parchi più famosi e frequentati, come possono essere il Maasai Mara, o il Serengeti o il Kruger National Park. In questo momento, poi, i militari inglesi stanno occupando una zona della riserva per fare delle esercitazioni, e il movimento di mezzi, come i rumori di esplosioni o di altre armi da fuoco possono eventualmente mettere gli animali in allarme rendendoli così ancora più diffidenti…vedremo.

Subito all’ingresso dell’Lolldaiga ci accoglie il musetto simpatico di una iena, l’animale preferito da Valentina e Ritz. Percorriamo le strade della riserva fino alla Farm House senza fare altri incontri significativi. Ma quello che sarà il nostro rifugio per la notte vale da solo la giornata. Un giardino in perfetto stile inglese, piante dai fiori multicolori, la casetta sull’albero, la balconata con il Mount Kenya di fronte in una cornice di fronde… e poi l’interno della casa-rifugio: tutto in legno, i locali ampi e luminosi, il caminetto, libri ed altri cimeli sugli scaffali. Non credo sarà facile farci andare via di qui, e neanche la possibilità di vedere gli animali abbeverarsi al laghetto direttamente dalla tenda sarà sufficiente per preferire il campo libero a questa gradita sistemazione.

Qualche ora più tardi siamo lavati e puliti, e tornati europei. Brindiamo i giorni passati con l’alcool Etiope di Annette davanti al caminetto, in un piacere che viene di volta in volta rinnovato dall’ingresso di qualcuno di noi. Le questioni più pratiche e organizzative dei giorni scorsi lasciano ora lo spazio allo scherzo ed alle confidenze. E’ così che Filippo ci presenta la sua cara amica Curiosità, che lui spalleggia in modo caparbio e vivace. Pole-pole riscopriamo il piacere di mangiare seduti ad un tavolo ben illuminato, di avere disponibilità di acqua corrente, di dormire in un letto, di gozzovigliare intorno al fuoco e di addormentarsi sulla poltrona… gioie impagabili. Siamo tacitamente coscienti che la vacanza-avventura è giunta al suo termine. Forse un giorno ci mancheranno la consuetudine di montare la tenda, avvolgere i materassini, mangiare e dormire sotto il cielo e nel mezzo del niente… ma non ora.

La notte è movimentata da uomini e animali.

18° giorno –27 ottobre, mercoledì.
La sveglia suona all’alba per il game drive. Partiamo digiuni nel fresco della mattina Africana. Nella notte una iena ci ha fatto visita ed ha lasciato delle impronte come segno del suo passaggio. Il Mount Kenya ci aspetta fuori, imponente e gentile, per darci il buongiorno.

Percorriamo le innumerevoli strade della riserva, gli occhi non abituati a scorgere animali nella penombra del mattino non ancora illuminata dal sole, l’aria fresca a pizzicare la pelle. Elefanti a ore 2. A gesti cerchiamo di indicare i pachidermi al gruppo che ci segue sulla Isotta. Un attimo dopo lasciamo la strada per metterci sulle tracce dei pachidermi, che si muovono, lenti, a cercare il riparo della vegetazione. Giraffa a ore 11, l’entusiasmo è alle stelle!! In un breve intervallo di tempo ci siamo trovati, a poche decine di metri, un gruppo di elefanti prima, una giraffa poi… è più di quanto potessi immaginare!!
Foto 13
Ma il bello deve ancora venire… Dalla strada abbiamo visto un gruppetto di giraffe: lasciamo i fuoristrada per proseguire a piedi nel bush. Al solito, Lorenzo fa le debite raccomandazioni: assoluto silenzio, pronti a correre ad un suo eventuale segnale, le portiere dei fuoristrada aperte per facilitare una eventuale fuga… io sono già in ansia!!! E così, una colonna di figurine circospette e non troppo silenziose si aggira nel bush, procedendo, predatori e prede, tra arbusti spinosi e leleshwa secchi, dove zebre, antilopi, gazzelle, si stanno riscaldando al calore del primo sole.

L’impatto è fortissimo, la tensione è alta… Aggirare le prede, muoversi sottovento, affinare i sensi nell’intento di percepire il minimo segnale di pericolo, trovarsi a poca distanza delle bestie in guardia e pronte a scattare alla tua prossima mossa, studiare il loro comportamento, osservare l’attesa nei loro occhi, respirare l’odore della paura, ammirare la contrazione dei muscoli, lo scatto improvviso, il loro dividersi in tutte le direzioni, e, subito dopo, ripiombare in un silenzio quasi surreale, che dà il via ad un’altra caccia. E’ qualcosa di antico ma vitale, è istinto e ragione, è adrenalina e autocontrollo. È la lotta per la sopravvivenza, è lo spirito di conservazione. Primordiale ed eterno. La maggiore forza e l’unica ragione della natura. Per me un’esperienza indimenticabile, il risveglio di un impulso naturale che i millenni hanno sopito. Grazie Lorenzo!!

La riserva, ora che è pienamente illuminata dal sole, si mostra in tutto il suo splendore. Se mai esistesse il paradiso, io me lo figurerei così. E non ho parole per descriverlo. E non ho parole per descrivere il senso di pace che emana.
Torniamo alla Farm House dove ci aspetta una piacevole sorpresa. La tavolata esterna è imbandita di ogni cosa, mangiamo con il Mount Kenya negli occhi, ed i continuo andirivieni di Lumbaye e Joseph che ci saziano di tutto quello che non abbiamo mangiato nei giorni scorsi. Le ore che seguono trascorrono nell’ozio. Scorrazziamo per il giardino, visitiamo la casetta sull’albero, scattiamo foto, ci inventiamo improbabili posizioni per telefonare da quell’unico punto dove c’è campo. Per chi non si allontana per fare commissioni fuori dalla riserva, per chi non si apparta cercando il conforto del riposo e della tranquillità, resta la compagnia di Curiosità che ormai è diventata amica di tutti. Ma questa è un’altra storia e non sono io a tenerne memoria.
Foto 14

Federica e Davide riportano una ventata di entusiasmo: sulla strada del ritorno verso la Farm House hanno potuto vedere numerose giraffe, bufali, oltre ad una grande varietà di altri cornuti (prometto che per la prossima volta li saprò riconoscere tutti!!!) di cui il cellulare di Federica porta la richiesta testimonianza. In un attimo siamo pronti a seguirli.
Ritroviamo gli animali che ci erano stati descritti. Avviciniamo le sei giraffe che si immobilizzano sotto i nostri occhi e sono già diventate la specie preferita da Federica. Scorgiamo i bufali in lontananza come una macchia scura…ma quanti saranno? Ci avviciniamo, piano piano…i loro musi torvi, gli occhi puntati… non sarà il caso di fermarsi? Lorenzo non è ancora soddisfatto, arriviamo a qualche decina di metri, loro saranno almeno una trentina, i più ci stanno fissando, la testa bassa, le possenti corna bene in vista… solo qualcuno sembra disinteressato e continua a mangiare, o ci volta le spalle… Ci allontaniamo e provo un certo sollievo… ma sono indubbiamente la più fifona del gruppo!!
Il prossimo obbiettivo è quello di vedere da vicino gli elefanti… l’idea di Lorenzo è quella di appostarci presso un laghetto, dove dovrebbero arrivare per abbeverarsi. Lasciamo le macchine, sempre aperte: gli elefanti non sono di per se aggressivi ma, sentendosi minacciati, possono diventare pericolosi. Lorenzo ci spiega come comportarci nell’eventualità di un incontro ravvicinato, e nel caso estremo di un attacco. Lui parte di soppiatto in direzione di un terrapieno che fa da sponda al lago, ci fa segno di attendere stando in silenzio. La sua concitazione e il rinnovo degli ammonimenti ci fanno intendere che la nostra venuta non è stata inutile. Ci facciamo largo nel bush e risaliamo carponi il terrapieno, mentre Lorenzo continua ad intimarci di non fare alcun rumore. Vedere gli elefanti nell’atto di bere era cosa attesa e sperata. Ma mai avrei pensato che trovarmi davanti agli occhi un’immagine che già mi ero figurata mi avrebbe portata vicino alla commozione. I quattro pachidermi sono lì, ad una ventina di metri, apparentemente incuranti di noi che li osserviamo… forse non arriva loro il nostro odore o forse, più semplicemente, non ritengono che la nostra presenza possa in alcun modo disturbarli. E così si offrono, generosi, ai nostri occhi ed alla nostra ammirazione tenendo comportamenti di assoluta naturalezza: ora portano la proboscide carica d’acqua alla bocca, ora strappano qualche foglia dai rami più accessibili, ora lanciano un’occhiata al piccolo che è con loro. Si allontanano e noi da loro per evitare che le nostre strade possano incrociarsi. Sono estasiata e totalmente appagata: non ho altro da chiedere a questo safari.

Il game drive continua, ma ormai prevale la consapevolezza che resti solo qualche scampolo di questi 19 giorni. 19 giorni che inizialmente mi erano parsi tanti, forse troppi, comunque sufficienti da arrivare alla fine appagati, se non proprio desiderosi di un ritorno alla nostra quotidianità, o anche solo per sentire la mancanza di qualcosa che questa Africa essenziale e selvaggia non ci avrebbe potuto dare. Non è stato così. Segna il tempo, come una clessidra, la carica della batteria della mia macchina fotografica, conservata con parsimonia e sotto il controllo attento e inflessibile di Valentina. Ce lo ricordano Davide e Marco, che già parlano della festa che stanno organizzando nella (ormai) loro casa di Muthaiga, ce lo ricordano gli occhi di Lumbaye, che non vedono l’ora di riabbracciare i suoi figli.

L’ultimo tramonto è un’occasione speciale. Osserviamo il sole calare da una altura, osserviamo i movimenti dei militari inglesi che hanno occupato la zona circostante. L’ultimo gin & tonic per brindare alla prossima meta.

19° giorno –28 ottobre, giovedì.
L’ultima sveglia e l’ultimo giorno. Il game drive è la copia sbiadita di quello fatto il giorno precedente. E come il giorno precedente il più grande sussulto è stato attraversare il bush a piedi a pedinare le giraffe nel chiarore del primo sole.

Lasciamo Lolldaiga come essere cacciati dal paradiso e troviamo fuori un mondo che è in totale contrasto con la pace e la tranquillità che si respirava nella riserva. Partiamo per l’ultimo viaggio, quello che ci riporterà a Nairobi. E ognuno in cuor suo sa che fra poche ore sarà tra gli uomini della città, che tornerà nel paese dimenticato dei suoi affanni, ma che adesso, visti con nuovi occhi, ci sembrano più sopportabili, se paragonati all’inevitabilità ed all’asprezza delle leggi della natura.

E durante questo lungo commiato introduciamo motivi di condivisione che sono nuovi rispetto a quelli che ci ha fatti compagni di viaggio e di vita per queste tre settimane. Qualcuno (stranamente) dorme, Annette da prova della necessità di portare il pelapatate e si prepara a sgranocchiare un cetriolo (così almeno mi ha riferito l’amica di Filippo… ma sarà vero??), Lumbaye ci fa partecipi dei nomi che ha dato a ciascuno di noi, che vi riporto:

Annette: Maviki (Things maker)
Davide: Hodari (Leading champ)
Federica: Manyanga (Flashy beauty)
Filippo: Beshte (Friendly)
Lorenzo: Lenkishon (Bless live)
Marco: Mangaa (Teaser)
Piero: Mamboleo (Today’s news)
Rosanna: Mauan (Wild flower)
Sara: Mama Safi (Gentle mama)
Valentina: Msarii (Main actress)

Quello che è seguito sono state partenze e saluti scaglionati. E viaggi di ritorno, ognuno segnato dalla sua disavventura. E un’ultima fuga, quella da un ristorante di Nairobi. Ma lascio ai suoi protagonisti l’onore di raccontare questa storia.

Foto 15

Grazie a tutti voi, cari amici. E’ stata una vacanza tanto affascinante quanto proibitiva, ma forse proprio nello sperimentare condizioni tanto contrastanti stanno le ragioni di tanto successo. È stato bello viverla con voi.

Descrivere quei momenti è stato come prolungare un poco la vacanza, anche se a volte mi sono trovata stranita nel portare testimonianza di vicende che se non avessi vissuto in prima persona mi lascerebbero incredula. Anche il tempo ne ha un po' modificato la percezione e ha sbiadito qualche ricordo. Vogliate scusarmi per le eventuali inesattezze e per aver enfatizzato qualche avvenimento di importanza marginale. Era voluto.

Puoi amare l’Africa oppure odiarla,
Può essere il paradiso oppure l’inferno.

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