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Martedì, 12 Maggio 2009

Vagabondando per l'Africa

Nemmeno il rigore dell'inverno europeo sono riusciti a congelare la nostra accesa volontà di continuare a viaggiare, ad imparare e a condividere. Volevamo continuare a scoprire nuovi posti, nuove culture e forse un nuovo senso alle nostre vite .

Concorso Storie Vagabonde

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Nemmeno il rigore dell'inverno europeo sono riusciti a congelare la nostra accesa volontà di continuare a viaggiare, ad imparare e a condividere. Volevamo continuare a scoprire nuovi posti, nuove culture e forse un nuovo senso alle nostre vite . In modo naturale, è nata l'idea di pedalare in Africa. Perché no? Eravamo avvolti dalla magia del viaggio, magia che riesce inspiegabilmente a far bastare gli scarsi risparmi, ad aprire porte, a spingerti in avanti. Niente ci tratteneva e tutto ci attraeva. Cosi come rotta abbiamo optato per la famosa Città del Capo-Il Cairo, dal punto più a sud fino ad uno dei punti più a nord del continente africano, attraversando in buona parte la costa est. Sin dall'inizio ci siamo confrontati con un imprevisto e abbiamo quindi dovuto imparare la nostra prima lezione da parte della grande Mamma Africa. L'esplosione di un'ondata di violenza in Kenya in seguito alle elezioni, ci hanno costretti a rivedere il nostro itinerario. Abbiamo imparato che l'elasticità è un concetto squisitamente africano. Quindi abbiamo optato per la costa ovest , Sud Africa e Namibia. Eravamo liberi, come il vento, e questo ci bastava. Abbiamo immediatamente percepito la durezza della società, il pregiudizio razziale forte quasi quanto 40 anni fa, quando veniva legalizzato dall'Apartheid, il mostruoso regime basato sulla segregazione razziale, vigente anche in Namibia e in Botswna, L"Africa bianca". La voce e i diritti dei negri vengono ancora negati e l'Apartheid prende le sembianze di un capitalismo sfrenato. Per fortuna la Namibia è una terra estremamente vasta e tra le meno densamente popolate del pianeta, con dei panorami mozzafiato e questo ci serviva per smorzare ogni preconcetto. Se non fosse stato per questo e per l'innata capacità della bicicletta di avvicinare le persone il nostro viaggio da queste parti sarebbe stato difficile. In Namibia è cominciato anche un contatto più intenso con una delle icone più conosciute d'Africa: l'abbondante fauna selvaggia. Sfortunatamente è spesso recintata in grandi aree protette, ma in Botswna no e con molti più animali compaiono liberi dappertutto. Il climax l'abbiamo raggiunto incontrando un leone a bordo strada. In Zambia, la società fino a quel momento mostratasi in gran parte razzista ha lasciato spazio a una bella ventata di speranza. La gente da quelle parti era più allegra ed ospitale, ci salutava e ci faceva moltissime domande. Era senza dubbio un'Africa Negra più povera, ma più allegra di quella che avevamo conosciuto fino a poco prima, incuriosita e perplessa rispetto agli "azungo pandinga" (bianchi in bicicletta). Sfortunatamente era proprio così, la bicicletta era un'esclusiva della maggioranza negra, povera e sfavorita. In mezzo a questa povertà e alle difficoltà che ne conseguono, ha avuto inizio un'esperienza più intensa, che ci ha svelato un'Africa più reale, non quella dei documentari, che si limitano a mostrare il circuito dei parchi naturali e della vita selvaggia, ma quella che vive alla giornata. Abbiamo cominciato a visitare il maggior numero possibile di missioni cattoliche, di ONG ed altre organizzazioni di aiuto umanitario, che tentano di ridurre le dure difficoltà delle persone. Non è che l'Africa sia relegata unicamente ai tanto conosciuti, preconcettuosi e limitati stereotipi occidentali di fame, guerre, malattie e vita selvaggia.



L'Africa è nei piccoli e profondi dettagli, negli incontri e nei fatti di tutti i giorni, nelle sottigliezze che potrebbero passare inosservate a chi va di fretta e non si ferma nemmeno un po' in un posto. E' vero anche che in molte situazioni mi ha scioccato, disorientato, mi ha fatto ripensare ai preconcetti, come ad esempio quando abbiamo incontrato il corpo morto di un giovane ragazzo che era stato appena lapidato, circondato da una folla impazzita, una folla di giudici e allo stesso tempo esecutori. Per quanto possa sembrare paradossale, non ci siamo mai sentiti minacciati o in pericolo durante il nostro viaggio. Nel piccolo e sovraffolato Malawi, abbiamo avuto modo di vedere le conseguenze devastanti dell'Aids, causate soprattutto dell'ancestrale promisquità maschile. Le donne, come muli, partono quotidianamente alla ricerca di acqua e legna, curano la terra e la prole numerosa, accettando quasi passivamente l'arrivo della morte. Senza ombra di dubbio sono loro le colonne che sostengono la delicata e complessa società. Questa difficile parte della realtà africana è arrivata dritta infondo ai nostri cuori e ci ha fatto pensare. Francesca ha deciso di fermarsi e di aiutare dei gruppi di ragazzi di strada con dei laboratori di teatro, il suo vecchio strumento di lavoro, dando così un senso ulteriore al viaggio e al teatro stesso, un vero mezzo di trasformazione sociale. Così da solo, ho cominciato il mio difficile e inevitabile viaggio interiore, che si perdeva nella savana infinita, nelle montagne, nella solitudine delle strade. In quella che chiamo "cicloterapia" sono arrivato fino al nord del Kenya, un capitolo a sé stante. Di fronte a me si apriva una savana che pareva infinita. L'inevitabile paura lasciava spazio alla curiosità. Stavo per entrare in una delle aree più inospitali, isolate, e di conseguenza preservate, di tutta l'Africa, che non esistono quasi più, che non compaiono sulle mappe e che passano inosservati agli occhi dei turisti. Qualcuno a cui chiedere informazioni? Nemmeno a pensarci. Per circa 7 giorni non ho incontrato una macchina, e per 3 giorni nemmeno un'altra persona. Pedalare, accampare, pedalare, accampare.




I rari incontri sono stati solo con le tribù nomadi locali e pochi missionari. Gli incontri con guerrieri Samburu, Turkana, Rendile, Gabbra, era quasi sempre tesi soprattutto quando le persone non parlavano ki-swahili, la lingua ufficiale, e stringevano fra le mani i loro inseparabili fucili AK 47, che da molto hanno ormai soppiantato lance e scudi. Quando mi sono perso, quando mi sono trovato a spingere la bicicletta sulla sabbia, sulle pietre o sul fango, mi chiedevo il perché di tutta quella sofferenza. La risposta è venuta attraverso gli incredibili scenari della Rift Valley, la famosa FAGLIA tettonica, che spacca in due la costa est africana , scenari che mi hanno fatto sentire come l'unico abitante del pianeta, forse come quella che provavano i primi ominidi del pianeta, che milioni di anni fa passavano da queste parti. In Etiopia ho pagato il prezzo per il grande sforzo di quegli 800 km. Ho scoperto di avere il tifo. Tre giorni bloccato a letto mi hanno fatto riconsiderare la pazienza, virtù fondamentale in questo continente. Pazienza usata per superare le dure salite degli altipiani etiopi, che risultavano più faticosi a causa di orde di bambini che ci rincorrevano tirandoci pietre, e che forse hanno perso già da tempo la pazienza, nell'attesa di un miglioramento che non arriva mai. Tra macchiati e ‘njeera, il sottile pane etiope sempre piccante e variato, ho percepito quanto è sottile la linea che separa i ricchi dai una massa flagellata di gente paziente. Paziente, sono arrivato nell'accogliente Sudan, il gigante africano, terra di grandi distese di sabbia e di vento. Quando mi fermavo per riposare venivo automaticamente invitato a mangiare dalla gente del posto, a dormire o semplicemente a conversare. A Wadi Halfa, senza soldi per mangiare e per prendere il ferry per l'Egitto, non ho solo incontrato gente che mi ha donato cose, ma nuovi amici. Ad Aswan, in Egitto, lo shock con il turismo di massa, per di più in altissima stagione a causa dell'inverno europeo, mi ha fatto realizzare che la fine del viaggio si stava avvicinando. Ho preferito rimanere con quel bel ricordo del Sudan. Ai margini del grande Nilo, di fronte al mio ultimo tramonto africano, i miei pensieri hanno corso leggeri e veloci come le sue sagge acque. Ho pensato al perché di tutto, alle innumerevoli volte in cui le persone, i molti amici fatti lungo il cammino mi hanno chiesto quale fosse l'obiettivo del viaggio.



Qualcosa che prescindeva gli oltre 33.000 km pedalati e più di 30 paesi percorsi in due continenti. Era, chissà, qualcosa di indivisibile, egoista come un viaggio in bicicletta, soltanto mio. Niente che si potesse vedere, sentire o toccare. Era un bene prezioso che da quel momento avrei portato con me per sempre, in ogni luogo. Un bene che esprimevo sempre con le lacrime ogni volta che mi ricordavo dell'ospitalità ricevuta, delle tante strette di mano e dei molti sguardi sinceri, degli amici per la vita fatti in pochi minuti, del non sentirmi solo anche in mezzo al deserto, della pienezza del vivere intensamente ogni minuto, ogni istante. Forse non sapevo ancora quello che stavo cercando, ma avevo la certezza assoluta di essere sul cammino giusto. Cosa importa il destino quando si sa che la strada è quella giusta?


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