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Venerdì, 28 Febbraio 2014

Un'avventura in Marocco

Questa è la storia della nostra tour leader Gitanilla, grande esperta di mondo arabo, e del suo viaggio in Marocco con un gruppo under 35. Prima della partenza tanti dubbi su come sarebbe stato accompagnare un gruppo così giovane e cazzarone in un paese islamico ricco di cultura ma anche di costumi locali da rispettare. Come sarà andata?

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gitanilla

Questa è la storia della nostra tour leader Gitanilla, grande esperta di mondo arabo, e del suo viaggio in Marocco con un gruppo under 35. Prima della partenza tanti dubbi su come sarebbe stato accompagnare un gruppo così giovane e cazzarone in un paese islamico ricco di cultura ma anche di costumi locali da rispettare. Come sarà andata?

Era partita da Roma un sabato mattina, nella borsa aveva un libro di Kapuscinski, l’autore che più amava leggere quando viaggiava. All’aeroporto di Casablanca riunì quel gruppo di ragazzi giovani e disinibili e si chiese se mai sarebbe riuscita a trasmettergli il senso del viaggio che stavano per intraprendere.
Sul pullmino, diretti a Casablanca, i vagabondi maschi avevano già fatto comunella. Gitanilla li osservò. Era un gruppo giovane, ma variegato e curioso. Gran parte di esso sfidava puntualmente il cagotto con assaggi azzardati per la strada: lumache, interiora, una specie di salsiccia indecifrabile in un buzzichetto di Fes. E poi, sulle griglie dei mercati, teste di montone, pesce e granchi. Sembravano spensierati, i giovanotti: spiritosi, sorridenti, felici di essere in viaggio. Il pullmino a volte diventava una caserma. Poi, una sera, i deliri dell’alcol a bordo piscina nell’hotel di Ouarzazate avevano svelato l’altra faccia del gruppo: tragedie familiari, tristezze personali, storie finite male. Insomma, le motivazioni di quel viaggio di gruppo in un paese sconosciuto. E’ stata la prima volte che, per un momento, si era usciti con la mente dal viaggio e si era tornati alla realtà. Ed è stata anche l’ultima.
Ma andiamo per ordine.
Il primo lungo tratto in pullmino, quei quasi 400 km devastanti tra Casablanca ed Essaouira, seduti a sonnecchiare o a guardare l’oceano, era stato la prova del nove: l’umore dei vagabondi, stanchi/affamati/annoiati, era vacillato. Ma ecco il miraggio: un ristorante sulla spiaggia. Bello e fornito di alcool. Il gruppo si era rifocillato nel modico tempo di un’ora e mezza.
Essaouira poi aveva risolto tutto: l’oceano al mattino, il vento che soffiava spietato tra le mura della medina. Bella come se fosse stata dipinta e non costruita. Mentre tutti utilizzavano la mattinata libera come meglio credevano, Gita era partita in quarta per fornire al gruppo un’esperienza gastronomica diversa: cercare tale Abdul, proprietario di un ristorante scoperto nei precedenti viaggi di Vagabondo, e farsi accompagnare al mercato del pesce a comprare il cibo che poi lui avrebbe cucinato per il gruppo. Aveva davvero pensato troppo in grande. Per trovare solo il civico del ristorante (che non esisteva più) ci era voluta un’estenuante ricerca nel suq e un paio di occhi nuovi. Un vecchietto aveva sentito questa ragazza chiedere di Abdul nel suo arabo apparentemente incomprensibile, e l’aveva trascinata per mezza medina, fino ad arrivare al nuovo ristorante di Abdul: una magnifica dar (casa tradizionale), fresca e immersa nel silenzio. Ricoperti letteralmente di pesce a prezzi stracciati, i vagabondi erano ripartiti alla volta di Marrakesh pieni di ottimismo.
L’impatto con la città più famosa del Marocco era stato devastante: scesi dal pullmino, si era entrati in un forno. Una cappa di afa rendeva la città surreale e la piscina dell’hotel sembrava l’unica salvezza. Poi era calato il buio, e il gruppo si era diretto verso la famosissima piazza Jamaa el-Fna’: troppo bella per essere vera, troppo grande da fare paura. I vagabondi stavano immobili a guardare il fumo che si alzava dai banchetti e la musica che martellava l’aria come chi, per la prima volta legato alla corda del bungee jumping, guarda il fiume sotto di sé attaccato alla ringhiera. E alla fine si erano buttati. Gita era poi voluta tornare in quella piazza il giorno dopo, alle 5 del mattino, accompagnata da un vagabondo: voleva vedere com’era la piazza degli impiccati nuda e silenziosa. Era bella, con i primi raggi del sole che la illuminavano timidamente. E altrettanto vera.
Con Marrakesh alla spalle, scavallato il Tizi’n’Ticha, improvvisamente il Marocco si era mostrato in tutta la sua bellezza: casbah rosse in mezzo a verdi palmeti, piccoli fiumi che solcavano gole profonde. I berberi, che costituiscono l’80 per cento della popolazione marocchina, si pavoneggiavano silenziosi tra le valli, forti della loro suggestiva architettura. Superata la strada a zig-zag simbolo del Marocco in molti poster, nel mezzo delle gole del Dadès, il gruppo, armato di buste della spesa e di scarpe assolutamente inadatte al guado, aveva attraversato il fiumiciattolo per sistemarsi sotto un albero di fico e consumare uno spartano pasto a base di pane, pomodoro, formaggio, olive e tonno. Al pranzo sarebbe dovuta seguire una passeggiata lungo il fiume, nella gola, per tornare verso il primo villaggio berbero, dove l’autista li avrebbe recuperati. Sogni di Gita che non aveva ben chiara a mente la profondità del fiume né il suo percorso. Abdul, sbellicandosi dalle risate sulla cima della montagna, era sceso a ripescare tutti i superstiti.
Visitare un palmeto, però, sarebbe rimasta un’opera incompiuta. Una volta a Tinghir, Gita aveva chiesto ad Abdul di fermarsi al grande palmeto della città per una rapida visita: l’autista, per qualche oscuro motivo, aveva scaricato il gruppo nel mezzo del villaggio berbero di Ait Ouaritane, poco prima della Gola del Todghra. Aveva fatto cenno di andare verso una scalinata di pietra, sulla destra, dalla quale emergeva un’anziana donna con un fascio di legna sulle spalle. Il gruppo si era così ritrovato in una specie di giardino dell’Eden con un vecchietto sdentato a guidarli tra le fratte. Ogni tanto diceva due cose in una lingua che nessuno capiva e il gruppo si limitava a seguirlo in fila indiana, silenzioso, attento a non scivolare dai muretti sui quali si muoveva. Di palme, non c’era stata neanche l’ombra.
Di nuovo sul pullmino, il rosso e il verde avevano lasciato lentamente spazio al giallo del deserto: un giallo che si era fatto arancione verso le quattro, all’arrivo a Merzouga. Poco prima, nel villaggio Gnaoua di Khamlia, il gruppo aveva assistito a balli e canti dei discendenti degli antichi schiavi africani stretto tra decine di stranieri in partenza per uno dei campi tendati dell’oasi. Gita aveva paura che la notte nel deserto avrebbe assomigliato pericolosamente a quelle gite di classe in cui l’hotel è invaso da altre scuole e i corridoi sono zeppi di adolescenti ubriachi che tentano di rimorchiarsi. Alcuni vagabondi del gruppo si erano dati appuntamento in duna con ragazze straniere molto carine. E invece, dopo una massacrante quanto surreale passeggiata in sella ai cammelli, il gruppo si era ritrovato al campo quasi da solo, circondato solo da una tavolata di spagnoli. Il caldo era caldo anche di notte. Le stelle, però, erano più stelle qui che altrove. Sistemato sotto una palma prima e a ridosso della grande duna poi, parte del gruppo fumava e sorseggiava Mahia, la grappa ai fichi marocchina, guardando il silenzio. Alcuni si erano avventurati sulla grande duna guidati dai ragazzi dell’accampamento: esperienza faticosissima e, per un paio di loro, traumatizzante. Alle due erano tutti nel buio, intorno a un narghilè gentilmente offerto dai beduini, con l’unica luce data dai tizzoni che prendevano fuoco quando qualcuno aspirava. Parlavano della loro vita nel deserto, i beduini, di come per loro la normalità fosse camminare per chilometri e chilometri nel nulla sotto al sole per andare a trovare un parente sperduto in qualche altro accampamento. La loro gioventù sembrava così distante dalla quella dei vagabondi.
Poi era arrivato il giorno più lungo: i 500 km tra Merzouga e Fes da fare in un giorno, con tappa al lago di Sidi Ali per il pranzo con un altro gruppo di Vagabondo che faceva il percorso al contrario. Gita si era mentalmente organizzata: sveglia prestissimo, pressioni ai cammellieri per partire in fretta, colazioni e docce e partenza alle 8.30 dall’hotel. Ma come nel peggiore degli incubi, quando devi fare l’esame di maturità e la sveglia non suona, si era alzata alle 6.50: addio alba nel deserto e, anche se in dieci minuti i vagabondi erano tutti sui cammelli, la partenza era slittata. Gita aveva pensato: “A un certo punto la strada è tutta in rettilineo, andremo un po’ più veloce e arriveremo in tempo”. Invece Adbul, vuoi per ripicca, vuoi per paura della polizia stradale, era andato più lento del solito. E il gruppo era arrivato all’appuntamento al laghetto alle 15.45, con un’ora e mezza di ritardo. Avevano comprato anche il pallone, i ragazzi: speravano di poter fare un partitone tra vagabondi. Invece l’altro gruppo era giustamente stanco, voglioso di buttarsi in piscina e composto da 12 donne. Ed era ripartito quasi subito.
Allora Gita e gli altri si erano lanciati nelle foreste di Azrou, alla ricerca delle scimmie, e avevano chiesto ad Abdul di portarli nella radura dove le si poteva incontrare. “E’ facile, noi le abbiamo viste” avevano detto quelli dell’altro gruppo che venivano proprio da lì. E invece, banane in mano, i prodi vagabondi erano stati scaricati in uno spiazzo desolato ed erano scesi per un dirupo in cerca delle bertucce, di cui non c’era traccia. Sconsolati, avevano mangiato le banane e tra una buca e l’altra una vagabonda spazientita era scoppiata: “Possibile che noi dobbiamo fare sempre ‘ste cose complicate?”. Dopo una protesta con l’autista, era arrivata la spiegazione: Abdul voleva tagliare per arrivare prima a Fes. Ma il gruppo ormai si era incaponito ed esigeva una foto con le scimmie. Alla fine era stato accontentato, le bertucce fameliche si lanciavano dagli alberi per strappare di mano ai vagabondi anche le due ultime banane rimaste. E il gruppo, soddisfatto, si avviava verso quella che tutti considerano la più affascinante tra le città imperiali.
Fes indubbiamente lo era. Ma la cosa più affascinante era perdersi nel labirinto della medina. Il gruppo aveva deciso di dedicare un pomeriggio allo smarrimento: chi per far compere, chi per fare una passeggiata. Un paio di vagabondi erano decisi a farsi radere per bene in uno di quei tipici negozietti aperti fino a tardi, con la musica araba che risuona tra le lame e la schiuma da barba e il profumo di caffè che invade l’aria. Era stata un’esperienza favolosa, a detta loro, così inebriante che per sbaglio avevano pagato 200 dirham (circa 20 euro) contro i 20 richiesti. Gita, invece, voleva andare all’hammam: abbandonata dalle altre ragazze, era andata sola. Mentre comprava una spugna, una ragazza si era gentilmente offerta di mostrarle l’hammam casareccio più vicino ed era cominciata la solita corsa nei vicoli, una di quelle corse in cui si dovrebbero lasciare le briciole come Pollicino per ritrovare la strada principale. Appena entrata, le era parso di farsi largo in una famiglia che non conosceva: frotte di donne le sorridevano, bambini immersi nelle tinozze, un bagno turco così labirintico che ci si poteva perdere. Come quando si scende nel bar sotto casa, qui si entrava in una realtà fatta di amicizie e pettegolezzi. Ma soprattutto, si poteva osservare la vera funzione del bagno turco: non era una SPA dove farsi massaggiare, ma era l’unica opportunità che molti avevano per lavarsi. Alla fine, anche se non era sicura di aver capito molte delle domande a cui aveva risposto, l’hammam in solitaria si era rivelato un’esperienza così esaltante che ne era uscita quasi ubriaca.
Meknes, all’apparenza simile alle altre città imperiali, la notte invece si trasformava. La zona in cui soggiornavano i vagabondi sembrava un enorme nightclub, dove si poteva osservare l’altra faccia della vita marocchina: quella fatta di prostitute e alcol a non finire. L’hotel stesso ospitava una specie di discoteca, piena di uomini alticci seduti accanto a volgari signorine. La colonna sonora era un glorioso mix di musica pop araba sparata a mille, le luci rigorosamente rosse. Dopo una cena in uno splendido Riyad (palazzo tradizionale con giardino al centro), il gruppo aveva provato a farsi largo nel night dell’hotel per bere qualcosa: uno dei vagabondi aveva urtato per sbaglio un corpulento marocchino che, dall’alto della sua sbornia, era pronto a colpirlo. Era seguito un quarto d’ora interminabile di minacce, che si era poi trasformato in un quarto d’ora di salamelecchi con finale a sorpresa: una mano tesa per la pace. Era seguita una bevuta in un pub e poi di nuovo una al nightclub dell’hotel. Insomma, Meknes la festaiola era un piacevole pugno in faccia.
Infine, era arrivata Rabat. E anche l’ultimo giorno del gruppo. Con la sua gemella cattiva Saleh, la città dei pirati, che si erge dall’altra parte del fiume, la capitale del Marocco sembrava triste: forse era quell’ingombrante palazzo reale, forse quel senso di dispersione che è insito in tutte le capitali. O forse era Gita a essere triste, perché il viaggio volgeva al termine. Perché la sua adorabile compagna di stanza era sempre lì pronta a chiacchierare, anche alle 4 del mattino. Perché il gruppo era dolce anche nelle prese per il culo che volavano quotidianamente. Perché nessuno si era mai lamentato, né azzuffato per due spiccioli. E tutti si erano sempre fidati di lei. Era bello condividere con qualcuno tutto quello che si scopriva, ma lei, che avrebbe proseguito il viaggio da sola, da quel momento avrebbe condiviso le sue emozioni solo con un pezzo di carta. Per l’ultima cena, il gruppo non si era fatto mancare nulla: con il tajine che usciva anche dalle orecchie, questa era l’occasione per mangiare del buon pesce. Ma in Marocco anche trovare del pesce grigliato di sera in una città affacciata sull’oceano può essere un’impresa: dopo una ricerca estenuante, il gruppo si era così diretto a Saleh, a “le Péniche”, che altro non era che una barca abbastanza lussuosa ancorata al lato nord del fiume. Era il posto più caro in cui il gruppo avesse messo piede, così caro che Gita era quasi svenuta con il conto in mano. Ma c’erano branzini, calamari e orate al posto di cous cous e tajine. E andava bene a tutti. Al ritorno i vagabondi si erano sparpagliati in tre grand taxi trovati senza difficoltà per la strada. Gita e altri tre, gli ultimi, avevano aspettato un’ora per il loro quarto taxi, tra tassisti furboni a caccia di cifre enormi e urla volate in direzione dei quattro stranieri assolutamente contrari a pagare 100 dirham per fare due chilometri. Alla fine, era spuntato lui: un ragazzo sdentato su una motoretta con un carretto a rimorchio. Mentre si avvicinava, Gita si preparava a cacciarlo via. Poi i quattro avevano visto la moglie, seduta nel carretto, una ragazza dallo sguardo dolce che non avrà avuto più di 18 anni e lo avevano ascoltato: proponeva di portarli vicino alla stazione centrale (accanto all’hotel) in cambio di un contributo per la benzina. E così, dal lusso del ristorante, i quattro ora sfrecciavano felici nel centro di Rabat su un carretto.
Quattro ore dopo erano già in piedi, in direzione dell’aeroporto. Gita aveva aspettato che tutti partissero e poi si era trascinata in un hotel di Casablanca, dove era crollata per cinque ore di sonno ininterrotto. Alle nove si era svegliata per la fame, intorpidita e assolutamente persa in quella grande camera vuota, senza i suoi compagni di viaggio. Era poi svenuta per altre 12 ore consecutive, in attesa di volare verso il Sahara Occidentale il giorno seguente. Ma questa è un’altra storia.

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