RACCONTO
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Giovedì, 14 Maggio 2009

Un te' con Paul Bowles

Il Café Hafa è un sorriso pacato sull'oceano. Le sue terrazze degradano verso il mare tra tè alla menta e chitarre accordate alla buona. Qualcuno fuma il kif, scherzando con i suoi amici.

Concorso Storie Vagabonde

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Il Café Hafa è un sorriso pacato sull’oceano. Le sue terrazze degradano verso il mare tra tè alla menta e chitarre accordate alla buona. Qualcuno fuma il kif, scherzando con i suoi amici. Qualcun altro sfoglia con noncuranza un libro di Paul Bowles, uno dei tanti scrittori che discesero i gradini di questo luogo dal sapore moresco. Qualcun altro ancora, giocando a backgammon, ricorda all’ospite straniero che qui amavano sostare i Rolling Stones: neppure Mick Jagger e le sue "pietre rotolanti" hanno saputo resistere al fascino del Café Hafa. In quegli anni Tangeri era già in un avanzato stato di declino. Nel 1956, con l’indipendenza del Marocco, la città perse la fonte prima della sua storia recente, lo statuto di porto franco internazionale. Dal 1912 infatti, Tangeri godeva della neutralità politica e militare oltre che di un totale liberismo economico. Era governata da un’amministrazione internazionale, coordinata dagli inglesi. La leggenda di Tangeri parte da qui, da un semplice trattato novecentesco frutto dell’epopea coloniale. Il Café Hafa e le storie che custodisce sono solo une delle sue conseguenze.

Odorano di sale i vicoli della medina di Tangeri. E’ l’odore di due mari, il Mediterraneo e l’Oceano Atlantico, che lambiscono quel promontorio dove, più di duemila anni fa, fu costruita la città delle mille genti. Tangeri è stata fenicia, cartaginese, romana, araba, portoghese, francese, britannica. Tangeri ha un’identità ben precisa, che trascende ogni nazionalità. E’ fatta di volti truffaldini e ricchi buontemponi in cerca di avventure. Di spagnoli, maghrebini e antichi inglesi. Di marinai, ex ambasciatori e promettenti rockettari. E’ un luogo dal fascino ambiguo, che ora ti cattura, ora ti respinge. I mille occhi delle sue stradine raccontano storie di avventurieri senza arte né parte, di ereditieri dalle tasche bucate, di segrete tavole rotonde a cui sedevano leggendarie spie della guerra fredda. Non sono occhi spenti. Tangeri è una città vivissima, che guarda al futuro. Ma che non riesce o non vuole liberarsi del fascino del suo passato.

A differenza di molti turisti, che approdano a Tangeri attraversando lo Stretto di Gibilterra dalla spagnola Tarifa, giunsi per la prima volta in questo avamposto europeo del Marocco, in treno. Avevo appena lasciato Fez, forse la più araba delle grandi capitali imperiali marocchine. Ero sazio: gli odori inebrianti della medina più estesa del Paese mi avevano prima stordito, poi catturato. Tangeri era divenuta così una tappa di importanza secondaria che però non avevo alcuna intenzione di saltare. Volevo toccare con mano i resti di quella che era stata una città bohemien per antonomasia. La posizione geografica, l’obbligato cosmopolitismo, lo status di porto franco, non avevano lasciato scampo a Tangeri: nel primo e nel secondo dopoguerra la città aveva gentilmente accolto pittori, scrittori, pseudointellettuali in cerca di pace, di emozioni forti, di libertà. O forse solo in cerca di colori. Del resto Montmartre era già iper-inflazionata, Londra aveva ormai acquisito i ritmi incalzanti di una capitale finanziaria, New York era troppo costosa, troppo yankee. Così Paul Klee, William Burroughs, Allen Ginsberg, Henri Matisse e tanti altri colonizzarono i caffè di Tangeri con pacifico spirito neocolonialista.

La città accolse l’ospite straniero alla sua maniera, fornendo una buona dose di tranquilla libertà mista a un pizzico di pura criminalità. Tangeri non è mai stato un luogo sicuro. I mille traffici del porto delle colonne d’Ercole hanno fatto sì che per questo promontorio maghrebino passasse un po’ di tutto, senza alcun filtro. L’aria malconcia e la presenza di ricchi gentiluomini dal passato oscuro hanno fatto il resto. Tuttavia, per uno di quegli inestricabili teoremi della società moderna anche questa costante percezione del pericolo aveva, ed ha ancora, un certo fascino. I truffatori e gli spacciatori di Tangeri erano parte integrante di un unico ecosistema che rispondeva alla sommaria definizione di bohemien. E che col passare del tempo divenne, quasi inconsapevolmente, un’icona turistica.

Quando giunsi a Tangeri avevo due tipi di timore: il primo era che ciò che avessi letto fosse il mero frutto della fantasia di scrittori, registi e tour operator; il secondo è che anche questo luogo piuttosto pericoloso e un po’ sporco fosse caduto sotto i colpi dell’indifferenza del turismo usa e getta. Mi sbagliavo. Per ora Tangeri è salva. Il Petit Socco, la piazza centrale della medina, è un luogo un po’ pacchiano che non ha dimenticato gli anni ruggenti. I caffè si alternano ai negozi di cianfrusaglie, e su uno dei palazzi che si affacciano su questo angusto slargo è ancora affissa la grossa insegna del partito socialista nazionale. La medina non ha subito grossi rifacimenti. Del resto il Marocco ha scelto di puntare sul turismo meridionale, quello di Marrakesh, di Agadir, delle dune di Erfoud. Così le strade di Tangeri degradano ancora malandate verso il gran calderone portuale, attraversato da un ampio lungomare dove, di sera, discoteche un po’ kitch si affollano di giovani, prostitute e turisti.



Tangeri è la città dei caffè: dopo il Café Hafa, la seconda tappa fu il Café de Paris, con le sue sfilacciate poltrone in velluto, i suoi specchi, il grande salone anni’ 50. Qui, un’eccentrica aristocrazia intellettuale europea in dolce esilio amava discutere di vita, di morte, di politica. Ancora oggi, questo luogo un po’ stantio ha l’aria nobile di chi è rimasto un po’ in disparte senza perdere la dignità. Distinti signori che vivono nella "nouvelle ville" – la zona costruita dai francesi - leggono il loro giornale in penombra, sorseggiando un caffè. Il Café de Paris è il luogo più occidentale di Tangeri, un souvenir della vecchia Europa ormai introvabile nel nostro continente.

Il mio soggiorno si prolungava inaspettatamente. Merito dei mercati della medina, della folla eterogenea delle piazze, delle spiagge vicine, di un clima troppo perfetto per essere vero. Merito anche dell’Hotel Continental, la perla sbiadita della città vecchia. Non sono un amante degli alberghi che si auto-proclamano letterari. A volte il loro vissuto si confonde con colazioni sontuose e stanze degne di un normalissimo hotel della Best Western. Tuttavia, anche in questo caso, mi sbagliavo. L’Hotel Continetal non era solo il vecchio set del film di Bertolucci "Il tè nel deserto", non era solo l’ex dimora lussuosa di politici, trafficanti e scrittori europei. E’ un incredibile edificio moresco della fine dell’800, affacciato sul porto, fatto di scale, maioliche, terrazze. E’un luogo dove si può trascorrere un’intera giornata senza far nulla e senza il rischio di essere inondati dalla noia. Un malandato edificio bianco abile a nascondere i suoi tesori. La colazione – un succo di fritta, un caffè e un paio di croissant al burro – è degna di un albergo economico marsigliese. Il panorama è deturpato da gru e strutture portuali. Le stanze sono più cadenti, che decadenti. L’Hotel Continental è un luogo senza tempo dove ogni mattina scommetti con te stesso sulla data della tua partenza. Perdendo clamorosamente.

Del resto tutta la città è un po’ così, un posto di frontiera dall’aria superficiale. Dedicarle una manciata di ore prima di partire per le spiagge andaluse è praticamente inutile. A Tangeri non ci sono monumenti sorprendenti, ad eccezione delle vicine grotte d’Ercole, che, tra cammelli intontiti dalle auto e bancarelle inopportune, si affacciano sull’oceano. Tangeri è un mix sbiadito di sacro e profano, di ricchezza e povertà. Nella chiesa protestante di S. Andrea, a pochi passi dalla piazza principale, il Grand Socco, il vecchio guardiano da almeno 30 anni si prende cura del piccolo cimitero antistante e delle opere d’arte contenute nell’edificio. Quest’uomo potrà raccontarvi i segreti di una città laica dove ogni grande religione ha il suo tempio. Vi parlerà in modo gentile, lentamente, mentre dà da mangiare ai gatti che dimorano sulle antiche tombe di storici corrispondenti del "Times" e di ammiragli britannici.


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