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Giovedì, 21 Maggio 2009

Un posto in Paradiso, (Una storia Africana)

Un battello con le sponde basse, percorre il tratto di oceano che porta da Freetown capitale della Sierra Leone a Lungi da dove il mio volo ripartirà.

Concorso Storie Vagabonde

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Vagabondo0


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Un battello con le sponde basse, percorre il tratto di oceano che porta da Freetown capitale della Sierra Leone a Lungi da dove il mio volo ripartirà.

Sul battello la mia testa è appoggiata ad una ringhiera dove, chissà quante mani hanno viaggiato prima di me.

Il mio sguardo è fisso sull' acqua, l' oceano sembra uno schermo, dove vengono proiettate le immagini dei miei giorni passati in questa terra...

Sono gli ultimi istanti in Sierra Leone, anche se questa volta, non sembra di ritornare ma di lasciare la mia casa qui; tra il caldo tropicale e le immagini di un paese dopo la guerra.



Un mese e mezzo prima....


Il mio arrivo in Sierra Leone avvenne come ogni volta, per caso, passando tra storie e racconti.

Ero in Gambia, quando decisi che le splendide coste dell' Atlantico Gambiane non saziavano la mia voglia di sapere, dovevo visitare quel luogo che per 10 anni, era stato devastato dalla guerra civile, vedere cosa ne era rimasto, vedere come mi avrebbe accolto.


Atterrato a freetown, non trovai tracce di tutto quel che mi era stato detto, il pericolo, la povertà, il senso di smarrimento di un popolo che aveva visto soltanto un paio di anni fa, la propria gente mutilata di gambe e braccia dai feroci ribelli del RUF.


Mentre attraversavo la strada appena arrivato a Freetown in modo alquanto rocambolesco (con un elicottero pagando una piccola cifra ad un procacciatore di affari), un gruppo di 12 ragazze mi chiese di avvicinarmi, stavano festeggiando un compleanno mangiando con le mani dalla stessa splendida coppa, piena di riso e carne.

Stanco, accaldato ed affamato, decisi di accettare l'invito...scoprì qualche tempo dopo, che molte di quelle ragazze erano prostitute; i principali clienti erano funzionari dell' Onu o commercianti Europei, che le ripagavano con generi di prima necessità e vestiti.

Fu il primo segno che lì...nulla era come sembrava.



Mi sistemai in una guest house ad un paio di kilometri dal centro di Freetown, ogni mattina percorrevo a piedi la strada che portava al centro, ignorando i clacson dei taxi che avrebbero voluto farmi pagare il doppio o il triplo della normale tariffa.

Non attirare l'attenzione a Freetown per me, era alquanto difficile. Un bianco a piedi a quei tempi non si vedeva molto spesso.

La maggior parte dei "White Man" erano dottori di Medici senza Frontiere, o i Funzionari della Fao o dell' Onu, che si muovevano su enormi e pulitissimi pick up bianchi


Ricordo bene il suono della parola che usavo maggiormente appena giunto qui: "NO!"

No ai tassisti, no ai ragazzini che volevano vendermi qualcosa, no alle persone che volevano farmi da guida...

Un giorno di calura estrema e traffico intenso, per trovare un po' di pace entrai in un piccolo shop, dove seduto ordinai una bibita fresca.

Capii in quel momento, che, non importa per quanto tempo si attraversi o si viva in paese, il vero viaggio comincia sempre, dalla sua gente.


Lo shop era gestito da Mr J, e Samiel, i primi a prendermi per mano e raccontarmi le storie della loro gente, tenendo alla larga chi voleva da me, solo un po' di soldi

Quello nello shop di Mr. J diventò un appuntamento quotidiano, il mio giro di amicizie si allargò e, nessuno più mi o si volle vendere per qualche dollaro, come se i miei nuovi amici avessero diramato il comunicato di lasciarmi in pace.


Le storie in Sierra Leone non sono facili da digerire, perché vengono raccontate dai protagonisti che mostrano i segni di quei fatti addosso.

Nei sobborghi di Freetown, nella parte più povera, dei ragazzi mutilati mi raccontarono cosa accadeva qualche anno prima:

" i ribelli arrivavano con le jeep e, quando trovavano qualcuno che non aveva fatto in tempo a nascondersi dentro casa, gli tagliavano un braccio o una gamba, oppure ci dicevano, oggi abbiam dormito bene, e allora tagliavano soltanto una mano o un piede; tutto questo serviva a spaventare al gente, in modo che nessuno si ribellasse..e., Dio sa se questo sistema funzionò".


Difficile pensare tutto questo ora, la gente pacifica, il mercato colorato, il via vai di Taxi. Ma le tracce della guerra si trovano tra i ragazzi senza arti con sedie a rotelle costruite in casa, nei racconti dei preti e di chi ha perso i propri cari, dei medici delle organizzazioni umanitarie, di Emergency o di Medici senza frontiere, che come supereroi continuano a salvare vite, o vedere come queste si spengono in un soffio.

Tutto il dolore è nascosto come una seconda pelle, e ad ogni racconto una ferita si riapre.



Decisi di lasciare Freetown dopo 10 giorni, mi lasciai alle spalle una città chiassosa, accogliente, e con la voglia di ricominciare. Spesso, la gente mi fermava per strada per dirmi di portare un messaggio in Europa, il messaggio che ora la Sierra Leone era una pese pacifico e che tutti dovevano visitarlo.

Dopo molti saluti mi avventurai nelle strade interne, che attraverso Makeni nell'interno, mi avrebbero portato fino ai confini con la Guinea.

Non avevo un motivo preciso per spostarmi proprio in quella direzione, ma le storie trovano i propri motivi solo alla loro fine, un richiamo invisibile mi spinse verso est.


Il mio viaggio in mezzo ad innumerevoli villaggi, avveniva nei modi più disparati: uno scuolabus inglese degli anni 70, un camion, macchine inglesi di fine anni 60, tutto in un rincorrere storie e pensieri.

Durante quel viaggio, quello che mi portò a Kabala, scoprii le tracce più nascoste di questo paese: il contrabbando di diamanti, piloti inglesi e olandesi in pensione che trasportano illegalmente minerali, lo sfruttamento delle multinazionali e la poesia della gente che convive con tutto questo con, uno splendido sorriso.


Quando finalmente arrivai a Kabala dopo una settimana di strampalate conoscenze e case nelle quali sono fui ospite; entrai nella camera della Guest house che avevo trovato per 3 euro a notte e, dormii, dormii quasi come se non ci fosse altro rifugio per il mio sonno, dormii per quasi due giorni.

Il mio non fu un sonno dovuto alla stanchezza fisica (anche se a Kabala c'è il 70 per cento di umidità e una temperatura di quasi 40 gradi); era uno scappare, uno scappare dai troppi racconti di guerra e fame, dal non capacitarsi del perché, la bellezza di un luogo in Africa equivale solo al suo dolore, il peso di tutto questo sulle mie fragili spalle bianche da Europeo, era troppo forte.


Dopo essermi ripreso, venni a sapere che c' era una missione cattolica, dei missionari di Pordenone che vivevano lì da anni, mi prepararono una delle più belle cene che possa ricordare, un miscuglio tra specialità africane ed italiane.

Le serate nella missione si ripetevano, ogni sera dopo mangiato, la casa si riempiva di bambini ed i loro genitori. Si raccontavano storie, si parlava di come risolvere i problemi dell' Africa, si guardava il futuro con un qualcosa che solo qualche anno prima era impossibile solo pensare...l'immaginazione.


Kabala era un posto magnifico, lontano dal caos delle città come Freetown, Makeni e Bo, qui avevo trovato la mia dimensione, con coraggio decisi di spostarmi in un piccolo villaggio di Koinadugu.

L' ospitalità di questa gente mi colpì ancora, come il sole che picchia duro a pochi passi dalle foreste delle Guinea.

Un bambino mi corse incontro urlando "White Man", suo padre mi chiese di fotografare lui e la sua famiglia, bastò questo per diventare un ospite di riguardo. Furono giorni di racconti e storie sorseggiando vino di palma e mangiando manghi freschi.


Nel mercato incontrai un vecchio signore, aveva girato tanto per l'Africa, e lì capì, dopo tanto viaggiare, di aver trovato la storia che cercavo.


"Il paradiso è morto ed io ho perso il mio posto! Continuava a ripetere il vecchio mercante.

"E tu uomo bianco va a dire queste cose alla tua gente"


"Il paradiso è morto ragazzo! Ed io ho perso il mio posto", non era una minaccia di un vecchio che nessuno ascoltava più, ma uno splendido invito ad ascoltare una storia.


"Cosa vuoi dire vecchio? Che posto? Come fa il paradiso a morire?" Gli chiesi

"Siediti qui" mi disse, offrendomi il suo imbevibile vino di palma ed una sigaretta di Marijuana.


"Ho 70 anni, ed ho visto tutto di questo paese, ma non solo di questo paese, pensa che una volta riuscii ad arrivare fino in Senegal, il più bel viaggio della mia vita, le spiagge, il fresco vento del mare, ma di tutto questo mi è rimasto solo il ricordo, tu conosci la guerra uomo bianco?"

"Ne ho visto le tracce, ne ho visto i danni",

"Allora vedi, qui l'ultima guerra è durata 10 anni, i miei avi hanno combattuto contro i portoghesi ed i francesi, e le generazioni dopo combatterono ancora contro gli inglesi; tutti quanti, ci volevano come schiavi. Ma guardati intorno, questo è un paradiso! Ed io so leggere e qualche volta ascolto la radio, e so, che non è ovunque così. Perché più un posto è bello e più la gente è povera? E viene uccisa, o lasciata morire di fame e malattie? Perché la bellezza, deve convivere con l'orrore? Da dove vieni?"

"Italia"

"Morite di fame lì?"

"No"

"Ed è bella come la Sierra Leone?"

"E' bella, ma nulla si può paragonare all'Africa",

"Allora, se tutti i posti belli, devono essere distrutti, il più bello di tutti: il paradiso, è morto da tanto tempo, ed io, che ho seguito sempre le leggi di Dio, non avrò un posto dove andare quando sarò morto. Quando tornerai a casa, dì a tutti che il paradiso è morto, e che ti sei innamorato della Sierra Leone".


La mia testa penzola dalla ringhiera sul battello che mi sta per riportare a casa...

In lontananza vedo la scritta sul muro che mi accolse qui al mio arrivo.

Era un murales di speranza, di un anonimo romantico che credeva di avere ancora il proprio posto in paradiso: "Benvenuti in Sierra Leone, il posto più ospitale della terra"...


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