RACCONTO
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Martedì, 19 Maggio 2009

Sui binari della Transmongolica

Dopo un inverno passato a studiare russo, navigare su Internet, contattare, prenotare, metto un annuncio su Vagabondo e conosco coloro i quali mi avrebbero accompagnata per un tratto di avventura sui binari della Transmongolica.

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Parto il 26 luglio del 2007 da Roma per Mosca, tappa finale Pechino, passando per la Siberia e la Mongolia. Il viaggio dei viaggi comincia...


Avevo voluto quel viaggio con tutta me stessa, a costo di superare tante difficoltà, prima fra tutte quella di trovare informazioni e compagni di viaggio. Dopo un inverno passato a studiare russo, navigare su Internet, contattare, prenotare, metto un annuncio su Vagabondo e conosco coloro i quali mi avrebbero accompagnata per un tratto di avventura sui binari della Transmongolica.


Mosca. La città mi conquista dalla prima sera, quando mi avventuro alla ricerca della cena e poi della Piazza Rossa. La prima, a base di bliny e funghi, è gustosa ma veloce, in un piccolo chiosco sulla via Tverskaja, vicino al mio Ostello; la seconda è una sorpresa meravigliosa e luccicante. Avevo visto la Piazza Rossa da qualche collegamento al telegiornale, quando alle spalle del corrispondente spiccano le cipolle colorate di San Basilio, ma non la immaginavo così bella, così colorata ed elegante, con una grandezza che avvolge e stordisce piacevolmente.

Mosca è fiera, porta con orgoglio sul palmo della sua terra i marmorei colossi staliniani e gli eleganti palazzi commerciali. Sopra il cielo fa spazio qua e là allo scintillio delle cupole dorate, mentre a terra il formicolio dell’umanità prosegue incessante.

Percorro la città in lungo e in largo, seguo le tracce del "Maestro e Margherita" in una Mosca post-bellica, faccio il pieno dei viali commerciali del dopo-Perestrojka, mi sento la prima invitata alla corte dello Zar negli ambienti della metropolitana cittadina, dove marmi e lampadari da palazzo reale incorniciano la banchina del metrò.


Parto per gli Urali. Stringo in mano il pacchetto di biglietti che mi permetterà di raggiungere Pechino. Penso a quanto è stata dura ottenerli e alla fortuna di essere in un ostello con il servizio di biglietteria ferroviaria. E’ sera e il sole sta tramontando. Salgo col mio zaino carico su uno dei treni più famosi di questa tratta: il Russija. Sono al settimo cielo. Il treno è bello, pulito, confortevole, con tendine ai finestrini e fiori sul davanzale: la mia cuccetta è la migliore delle stanze che potessi avere.


Quanti giorni di viaggio? Non ricordo. Il mio diario dice una settimana. Sette giorni di treno intervallati da due soste. Cambio treno viaggiando sempre in seconda classe. A bordo ci sono pochi turisti e molti minatori, pendolari, famiglie con bambini.

Perdo il tempo, lasciando andare lo sguardo libero di perdersi fra le betulle...tante, infinite. Perdo il conto del verde che riempie occhi, naso, orecchie. Perdo l’anima, dimentico obblighi e doveri, trovo lo spazio per riprendermi l’essenza più vera delle cose, lontana da ciò che deve, vicina a ciò che è.

Fra un bosco e l’altro le case di legno punteggiano la prateria, vedo baracche, orti, strade sterrate nei villaggi, dove enormi pozze d’acqua segnano gli incroci. Il movimento dei fazzoletti colorati delle contadine anima il paesaggio, altrimenti immobile.



Il treno culla, il passaggio sui binari scandisce il tempo. I fusi orari si confondono e seguo solo il mio ritmo. Il samovar dispensa acqua calda per il the, la cuccetta regala la tranquillità di sonnellini e letture solitarie. Se ho voglia di compagnia esco dallo scompartimento. C’è sempre modo di conoscere qualcuno, parlare un’altra lingua, confrontarsi con un mondo lontano la cui prima domanda è: cosa ci fai qui?

Dopo una tappa a Ekateriburg e una a Novosibirsk, mi ritrovo sul lago Bajkal, ospite di Natasha che mette a disposizione dei pochi turisti in visita al lago la sua casa, accogliente e un po’ kitch. Avevo trovato l’indirizzo su internet, dove ci sono i riferimenti dei proprietari delle piccole dace.

Il lago Bajkal è immensamente blu e intensamente freddo, le sue spiagge sono sassose e bianche, piene di lische di Omul, che viene cucinato alla griglia o affumicato, a testimonianza dei pic-nic che i russi svolgono sulle sponde del lago più grande del mondo. Intorno c’è tanto verde, colline, boschi, piccoli villaggi di pescatori.

La notte il cielo riserva uno spettacolo unico. La meraviglia della via lattea e di tutti i miliardi di stelle che esistono, ma che si dimenticano vivendo in città. Ho la sensazione di essere in autentica compagnia alzando lo sguardo in alto, più che guardandomi intorno.

Risalgo sul treno con la consapevolezza di lasciare la Russia. Ciao, cara Madre Russia, abbracci tutto con la tua immensità, sei fredda e sola, hai il silenzio dei boschi e dei cieli sopra le praterie infinite, sei abitata da uomini rudi, donne belle e generose...chissà se ci vedremo ancora?



Cambiamento dentro a cambiamento: le zone di confine sono sempre particolari. I paesaggi mutano e si sciolgono l’uno nell’altro. La terra è una, ma l’uomo ha segnato, delimitato, solcato e diviso. A destra la Russia, ridotta a steppa, con le costruzioni in legno e i funzionari di frontiera biondi. A sinistra la Mongolia, con le sue gher e il suo popolo dagli occhi a mandorla e la pelle ambrata. La Mongolia dissipa la nostalgia lieve che accompagna il saluto alla Russia perché la sua gente accoglie con il sorriso di una povertà disarmante e polverosa, serena e carica di dignità. Gli spazi sterminati sono delimitati da orizzonti di dolci rilievi. Si percepisce la vicinanza del deserto per via della polvere, ma la vegetazione è ricca come quella di montagna.

Ulaan Bataar – la capitale – è povera dei grandiosi palazzi e dei templi di un tempo. I Russi hanno distrutto tutto e rimangono tre monasteri principali, mete di pellegrinaggi buddisti e dimora di monaci dalle tuniche gialle e rosse.

Parto per una riserva naturale il giorno successivo e vivo due giorni di silenzio, cielo stellato, monastero sulla montagna, boschi e sentieri per il fiume. All’orizzonte solo le tende dei nomadi e gli animali d’allevamento.

Trascorro il tempo a scrivere sotto agli alberi, mi gusto il silenzio disturbata solo da qualche capretta. Faccio passeggiate. La mia meta preferita è un monastero colorato, nel bosco, da dove arriva la musica del canto di un mantra.

La notte il cielo è quasi nero, ma pieno, carico, sovrappopolato di stelle luccicanti. Ne vedo tantissime cadere ed esprimo mille desideri. Sono all’essenza. Mi serve solo questo cielo per stare bene.



Anche la tappa in Mongolia è destinata a concludersi e dopo tre giorni riparto diretta a Pechino. In treno, attraverso il deserto del Gobi: fina polvere grigia e qualche cactus. Una nuvola di sabbia invade le carrozze avvolgendo i passeggeri in una nebbia fastidiosa e soffocante.

Attraverso il terzo confine: sono in Cina. I cinesi, impermeabili ed ermetici, popolano ogni spazio a disposizione. Tutto sembra grande e solido, ricco e scintillante, mutevole e misterioso. L’occidente è nei grattacieli, nei palazzi a vetri che ospitano banche e multinazionali, nei grandi viali carichi di cemento. Cerco gli hutong e i cinesi. In una settimana vado a caccia di ciò che stanno seppellendo, ma che è ancora vitale. I vicoli stretti, dove la gente lavorando vive e vivendo lavora, sono piccoli labirinti di case in pietra grigia, in rapida scomparsa sotto ai grattacieli di nuova costruzione. Le biciclette e i salici sono ovunque, così come i cinesi e la loro cucina. Ma la Cina non è Pechino! Una gita alla Grande Muraglia mi mostra l’aspetto che la Cina non vuole mostrare di sé all’Occidente: le campagne povere, i villaggi luridi, i bambini nel fango delle strade di terra battuta. E’ meglio questa Cina o quella di Pechino e Shangai? Non ho risposte a queste domande.


Spesso in viaggio mi sono sentita affacciata alla finestra della vita. Quanta realtà sui paesi attraversati avrò colto? Forse poca. Forse sono sempre stata sul treno, a guardare dal vetro un mondo lontano dal mio, eppure affascinante e ammaliante, come il canto delle sirene che spinge ad andare oltre, alla ricerca della conoscenza di sé attraverso l’altro.

So che mi porterò questo viaggio dentro, per sempre.


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