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Mercoledì, 10 Settembre 2014

SLOW FOOT DA PISA A LUCCA

Camminare, camminare lentamente, questa e’ la mia filosofia.

ARTICOLO DI

alberto angelici

Camminare, camminare lentamente, questa e’ la mia filosofia.
La nostra epoca frettolosa ci sta sempre piu’ convincendo che e’ indispensabile avere una meta, avere un obiettivo e quindi tralasciare tutto quello che accade tra la partenza e l’arrivo.
Invece molto spesso il bello e’ proprio cio’ che sta in mezzo; a time between, lo chiamerebbero forse gli Inglesi che, fin dall’ epoca del british empire del viaggiare fecero un’ arte e una scienza. Gustarsi il tempo del viaggio e tutto cio’ che esso comporta, riappropriandosi delle nostre capacita’ di camminare per ritrovare il contatto con la natura e con noi stessi, per meravigliarci ancora del colore di un papavero o della forma di una nuvola.

Parole che ben sintetizzano, credo, una filosofia semplice ma non per questo meno vincente. Anzi, proprio perche’ semplice, forse piu’ facile di altre da attuare, da far nostra.

E' un diario, quello che segue, diviso in due puntate, per descrivere l’itinerario della camminata che alcuni mesi fa ci ha visti in una dozzina attraversare nell’ arco di due giornate i 43 chilometri circa che separano Pisa da Lucca.
Una collina mai vista prima, dolce, ricca di acqua e di una vegetazione rigogliosa resa possibile da un clima che risente del vicino Tirreno.

"Il monte perche' i Pisani veder Lucca non ponno" Cosi' scriveva Dante a sintesi della rivalita' che per secoli a diviso le due vicine citta' e provato scontri anche assai dolorosi per entrambi.

Sabato di luce. Un sole gia’ caldo ci avvolge. Il centro storico di Pisa e i suoi vicoli medievali diradano in una periferia gradevole e paciosa che ci conduce alle prime arcate dell’ acquedotto, nostra “guida” verso il Monte Pisano.

Il lento procedere riporta alle dimensioni del pellegrino, conferisce contorni definiti alle cose e anche la piu’ comune delle erbe recupera una sua nobilta’ di forme.

Sfiliamo accanto all’ acquedotto costruito dai Medici alla fine del Cinquecento, con venti anni di lavoro e 16.000 ducati spesi. Per secoli i 6 chilometri di archi portarono acqua pulita alla citta’ e contribuirono a renderla piu’ prospera e ricca.

Le antiche strutture dell’ acquedotto che ci sara’ compagno di strada per quasi due ore rivelano il lavoro di infinite mani e notevole maestria costruttiva ma anche il peso del tempo.

Il Tempo, elemento con il quale ci troviamo sempre a fare i conti e, in un certo senso, motivo conduttore di due bellissime giornate.

Il terreno, un tempo paludoso e cedevole, si e’ ritirato sotto il peso dei pilastri che ora si mostrano sovente sghembi, lesionati e sorretti da travi e contrafforti in muratura. Nelle larghe fessure ha messo radici la cimballaria e anche numerosi esemplari di fichi, cresciuti come inconsapevoli bonsai in pochi grammi di terra. Ad ogni passo fa capolino l’ azzurro della borragine e quello piu’ vivace della malva, poi l’ ortica e la romice e le inflorescenze gialle della senape selvatica.

Monte Pisano sta a indicare un massiccio montagnoso situato a nord – est di Pisa e a sud di Lucca, costituito da vari cime la piu’ alta delle quali e’ il Monte Serra, di 917 m.

Si tratta di una formazione geologica assai antica, precedente al Miocene e che nel passato costitui’ un utile “divisorio” tra le due citta’ di opposte fazioni, divenendo piu’ volte teatro di feroci battaglie.

Via via che risaliamo il pendio, la piana di Pisa si allarga sotto di noi. Ad ogni passo vien da girarsi perche’ compaiono nuovi particolari, come un plastico diorama in continua espansione. A ovest appare la lastra lucida del Tirreno, a nord e a est la vasta pianura, nella citta’ prende forma la cupola della cattedrale, il battistero, si delineano piazze e vie, in una riacquistata tridimensionalita’, che sembra opera di un invisibile prestigiatore, sempre piu’ accentuata via via che acquistiamo quota.

Con il gaio gorgogliare di una fontana, la citta’ si conceda da noi. Niente mutamenti bruschi, pero’; l’ abitato dirada gradualmente, ai piccoli giardini si sostituiscono orti e piccoli frutteti; nell’ aria sbiadiscono gli odori crudi del traffico stradale e al polveroso, caldo sentore dell’ asfalto subentra il fresco profumo della natura, con delicatezza e gradualita’.

Tra una sosta e una chiacchiera andiamo avanti. Sulla destra e’ la punta della Verruca, luogo denso di storia e di leggende, sede di una fortezza che da sempre ha accompagnato le sorti di Pisa, nel bene e nel male, fin da quel 1503 in cui le milizie pisane al comando di Buttafuoco sostennero la violenza dell’ esercito fiorentino prima di cedere con l’ onore delle armi.

Poco lontano e’ la roccia che prese il nome di “la dolorosa” per essersi tinta del sangue di Pisani e Fiorentini nel corso di furiosi scontri. A un passo un’ altro sperone roccioso e’ chiamato “della bella Rosa”, in memoria di una delle tante donne che aiutarono i mariti in armi a difendere la loro terra.

La via dei Condotti, questo e’ il nome della sterrata che costeggia l’ acquedotto, volge al termine

Il viottolo sale ripido e stringe, in breve assumendo le caratteristiche del sentiero collinare. Ai lati scorre il grigio-verde degli ulivi e a tratti s’ avverte il profumo dolce e aromatico del finocchio selvatico, ottimo rimedio, insieme a fame e sete, da cogliere e gustare senza neppure interrompere la marcia.

La nostra fila si snoda nel verde, irregolare, colorata del blu e del rosso di zaini e magliette e intanto il cicaleccio prende il ritmi del pendio: piu’ vivace quando il percorso e’ facile, raro e frammentato quando la salita e’ a tratti piu’ ripida e difficile.

Una stretta valletta ombreggiata suggerisce la sosta del mezzodi’; a una parola del conduttore, la colonna esita, ondeggia poi frammenta sull’ erba e sotto gli ulivi, tra papaveri, tordilio, trinette e asparagi selvatici. Dagli zaini compaiono panini, verdura, borracce e termos di caffe’. Il silenzio e’ rotto solo dal nostro conversare e dal rilassante pigolare degli uccellini tra i rami che ci sovrastano.

M’ accorgo che ciascuno di noi si guarda intorno, scruta curioso i propri compagni. I volti, accalorati e lucidi di sudore, mostrano piacere, compiacimento, sollievo e pace. Si fa conoscenza, ci si scambiano impressioni, formaggio e tavolette energetiche, mentre Alessandro non perde occasione per suggerire nomi e proprieta’ delle specie vegetali che incontriamo.

Rialzarsi e riprendere i cammina costa fatica; nel fresco degli ulivi si stava davvero bene ma ancora non siamo neppure a meta’ del percorso della prima giornata.

Proseguiamo per un piacevole stradello che attraversa la macchia mediterranea, tra lecci e viburni, ginestre, mirti e ornielli, corbezzoli, erica e lavanda, una vegetazione impenetrabile per noi ma non per cinghiali, lepri e istrici, dei quali troviamo frequenti tracce.

Alla minuscola frazione di Agnano sfiliamo accanto a una chiesa d’ epoca romanica pesantemente rimaneggiata in epoche piu’ recenti e, nel folto di un bosco, intuiamo le forme architettoniche della villa fatta costruire da Lorenzo il Magnifico per sfuggire ai rigori dell’ inverno fiorentino. Oggi, dopo secoli di modifiche, ha l’ aspetto di una normale fattoria.

Alla locale casa del popolo ci concediamo una caffe’ e una sosta; sotto l’ ombroso glicine della tettoia e nel grande locale il nostro apparire suscita la curiosita’ dei vecchi impegnati in discussioni calcistiche e interminabili partite di briscola dietro un quartino di vino. Senza troppo parere seguo le loro occhiate, li vedo osservare il nostro equipaggiamento e sorridere compiaciuti quando imparano che staremo in camminata per due intere giornate. Uno di loro strofina tra le dita il leggero tessuto della mia camicia in microfibra e ne ascolta meravigliato le caratteristiche tecniche. Tarchiato e ancora muscoloso, ha l’ aspetto e i colori di chi e’ vissuto tutta la vita all’ aria aperta, compresa una pelle che pare cuoio antico e mani grandi e dure come bosso scolpito. Scuote la testa, sorride e con un’ unghia che pare avorio antico sfrugola il grosso neo che gli adorna la guancia.

“L’e’ mia come quand’ ero giovine io…allora alla montagna s’ andava con vigogna, scarponi chiodati, tabarro e cappello di feltro. Oggi l’ e’ tutto cambiato, tutto novo e soltanto la fatica della salita l’ e’ la medesima, salvo che a quei tempi si saliva con mule e carrette e si scendeva carichi di legname…”

Poco oltre il paese la strada torna fra i boschi, salendo in una splendida selva di querce da sughero. Siamo oramai al punto piu’ alto del percorso di oggi. Davanti a noi e’ tutta la pianura pisana e le morbide curve dell’ Arno. Sulla destra e’ Pisa, il mare e l’ isola di Gorgona sullo sfondo. Non fosse per la leggera foschia, avremmo potuto vedere anche Capraia, l’ Elba e la Corsica.

Il sentiero serpeggia garbato nel grigio-verde degli ulivi; molti mostrano alla base le vecchie ceppaie da cui la pianta ha ripreso a vivere dopo il gelo di un terribile inverno che molti anni fa fece strage d' ulivi in tutta la regione. Guardo i grossi ceppi, in basso, e i giovani rami fronzuti, in alto, e penso. Penso che l’ immagine racchiuda i simboli di due generazioni di creature.
Penso che anche noi, donne e uomini di questo mondo, cerchiamo di rivivere nei nostri figli, lasciando loro l’ humus migliore per crescere vigorosi e basi solide su cui costruire un futuro migliore.

Il mascherone di un leone in terracotta ci offre uno zampillo d’ acqua, il pretesto per una breve sosta e la visione in distanza della grande mole della Certosa. Siamo ora in Val Graziosa e il nome non rende merito a un luogo davvero pieno di armonia e bellezza. Calci e’ alle porte.

Il borgo e’ raccolto e sonnacchioso. A sinistra,sparse e incolori, scorgo case moderne e anonime che mal contrastano con il cotto e la pietra antica del centro storico in cui ci troviamo. La piazzetta e’ piccola, stretta tra le case in un trapezio lungo e sbilenco, lastricata in acciottolato che il tempo ha ingobbito e smosso e chiusa a un’ estremita’ dalla grande pieve millenaria. Pochi i negozi e angusti, taluni al punto tale che se un paio di persone e’ gia’ all’interno, e’ opportuno attendere in strada. Approfittiamo dell’ opportunita’ per mettere nello zaino frutta fresca e ortaggi per domani e anche pane e pecorino.

L’ interno dell’ antichissima chiesa appare freddo per chi come noi arriva da una lunga camminata, silenzioso e avvolto nella penombra, cosi’che le massicce colonne monolitiche, parte, si racconta, di un tempio dedicato a Giove e situato sulla Verruca prima che vi fosse costruita la fortezza, sembrano sparire in alto e sfumare nelle morbide linee di una cupola che l’ oscurita’ lascia soltanto intuire.

Odore di umidita’, il sordo scalpiccio dei nostri scarponi, lo stridente riso di un bimbo all’ altro capo della chiesa, subito zittito dal papa’, vago aroma di incenso. Dalle strette monofore sfuggono bastoni di luce che rigano di chiaro l’ enorme fonte battesimale ricavato da un unico blocco di marmo bianco. Un prezioso bassorilievo raffigura il battesimo di Cristo. C’e’ chi dice che in realta’la vasca sia di epoca pagana, nata per altri usi e la figura di Cristo realizzata in seguito, per cancellare simboli imbarazzanti e iscrizioni non piu’ in tema.

Resta ancora un’ ora circa di cammino per l'agriturismo che ci ospitera'.
Ci imbattiamo nella piccola chiesa di san Rocco, innalzata nel 1630 per accogliere i morti di quella peste di manzoniana memoria che miete’ vittime al punto da decimare la popolazione europea di quel tempo.
Le casette vetuste che superiamo, contornate da minuscoli giardini e orti come francobolli, diedero i natali a Coscetto da Colle che, all’ epoca della I crociata, pare sia stato il primo cavaliere a superare le mura di Gerusalemme.
La ricca e variopinta vegetazione assiste impassibile al passaggio di questi scarmigliati e sudaticci personaggi che hanno deciso di emulare i pellegrini medievali, andando da Pisa a Lucca con l’ unico ausilio dei propri muscoli.

La nostra guida, consapevole che la stanchezza inizia a manifestarsi, mette in opera la tecnica della carota che il contadino furbo mostra al coniglio per indurlo alla gabbia.
“Quasi ci siamo…quasi ci siamo…quasi ci siamo….” Il tono suadente della voce c’ intriga e i polpacci rigidi di acido lattico gia’ pregustano il sollievo del riposo e le narici sembrano usmare lontani profumi gastronomici.
osi’, seguendo il naso e tacitando i muscoli, seguiamo Alessandro tra le antiche mura di Castelmaggiore e affrontiamo l’ ultima fatica.
Celestiale ci appare la visione dell’ agriturismo “I Felloni”, antico mulino costruito lungo il corso dello Zambra, che diede vigore e prosperita’, si dice, a oltre cento mulini, macinando mais e castagne per secoli.
Linee severe che hanno del militaresco, muri scuri e massicci, fatti per sfidare i secoli.
Un’ iscrizione porta una data, 1736, ma di certo l’ edificio di tre piani e’ assai piu’ vetusto.

Il tempo di ammirare la semplice eleganza della grande camera e pregustare la morbidezza del letto ottocentesco, poi una voce chiama: la cena e' pronta. Mai invito fu piu’ascoltato e in un attimo la lunga tavola vive delle nostre chiacchiere, risuona delle impressioni di una lunga, piacevolissima giornata, tintinna di bicchieri e di stoviglie cariche.
La cena e’ abbondante, ricca dei profumi toscani, scandita da battute e dalle domande che indirizziamo alla nostra guida, riguardo al territorio appena attraversato, alla flora e ai fatti che nei secoli ne furono protagonisti.
Svuotate le fiamminghe, solo alcuni impavidi, tra cui il sottoscritto, si attardano in giardino per un caffe’ e per le anticipazioni di cio’ che sara’ la giornata successiva, poi la stanchezza prende il sopravvento e pesa su palpebre e ginocchie.
In breve, unico rumore resta il sommesso gorgoglio del ruscello.

Un cielo velato, senza colore o forse grigio come cenere di quercia e' cio' che m’ appare, la mattina dopo, spalancando le imposte, assieme a una collina avvolta nella vegetazione. Nuvole basse e sfilacciate nascondono la cima del Monte Serra e la Verruca. Una rapida colazione, il controllo degli zaini…ecco che arriva Maria, una signora che si aggiunge ora al gruppo, trattenuta fino a tarda sera in citta’ da un impegno imprevisto.
Sono le nove e partiamo, in perfetto orario con il programma. Due massicci muri a secco che sembran li’ da sempre mostrano la strada: ci fosse la neve lo direi un percorso da bob, tanto la carrareccia e’ angusta e confitta nel terreno. Sempre salendo,superiamo diversi mulini, ora abbandonati, sia dai padroni che dal rivo che nei secoli ha cambiato percorso e ora scorre piu’ in basso.

Lasciamo gli ulivi e il bosco cambia aspetto, come le ombre e la fisionomia del crinale, nel quale ora predominano i castagni, striati a tratti dal verde intenso e odoroso dei pini. Sbircio l’altimetro: dobbiamo superare ancora circa 400 metri di dislivello. Il percorso mi appare poco battuto, dimesso e ingombro di rami secchi e foglie che rendono cauto e lento il nostro passo. Ridotti a ceduo, questi castagni sono un pallido ricordo dei castagneti da frutto che rappresentarono la sopravvivenza e il benessere economico della vallata.

Alla selletta erbosa chiamata Foce del Calci prendiamo fiato e attendiamo i ritardatari per ricompattare il gruppo.
Un gruppetto di ciclisti in mountain bikes ci supera leggero. Tecnologici ed equipaggiati come astronauti, poco hanno da spartire con i ciclo-turisti della mia gioventu’. L’abbigliamento sottile, aderente e multicolor sembra dipingere piu’ che vestire i muscoli gibbosi e corti come cisti sebacee e il cranio termina con un mezzo melone a strisce cangianti.
Li guardo scorrere accanto a noi e penso. Penso che se loro mostrano le aggraziate movenze di un branco di daini, noi ci si puo’ tranquillamente paragonare a tanti muli completi di soma!
Il tempo di un battito di ciglia e di un reciproco cenno di saluto e gia’ spariscono, rapidi come sono comparsi.
Forse e’ la coda di paglia ma a me e’ parso di cogliere su loro volti un’ espressione di divertito compatimento, come farebbe una Ferrari al sorpasso di una dignitosa Balilla.
Il mutare della vegetazione conferma cio’ che l’ altimetro segnala e attorno a noi prendono il sopravvento dei bellissimi lecci, finche’arriviamo al Passo della Croce, spartiacque tra il territorio pisano e quello lucchese.

In distanza, dove il grigio brumoso delle nuvole ci permette di vedere, ecco la piana lucchese e la cima del Monte Faeta, che prende il nome, forse, da una primitiva vegetazione composta di faggi. Le pendici, verdi di alberi e cespugli, sono striate del grigio ruvido delle ravanete, ampie colate di sassi e detriti. Sostiamo al margine dello sterrato, purtroppo assai battuto dalle squadre di cinghialari, e approfittiamo delle squinternate sedie abbandonate da qualche cacciatore stanco.

Inizia la discesa, prima su un largo sentiero, sempre tra i castagni, poi su una mulattiera dall’ aria antica che avra’ visto generazioni di contadini e montanari carichi di legname, sacchi di carbonella di legna e marroni.
Da un versante all’ altro la vegetazione e’ molto cambiata e qui, che siamo esposti a nord, il terreno e’ ricco di muschio e sono numerosi gli aceri e i carpini, mentre enormi vitalbe salgono lungo i tronchi nel tentativo di trovare un po’ di luce.

Alle prime case di Cima di Vorno, l’ ambiente sembra quello di un borgo montano, mentre siamo a poco piu’di 100 metri di altitudine. Ad ogni curva del sentiero il paesaggio muta. Compaiono frutteti e orti ben tenuti e viti sostenute da colonne in mattoni, caratteristico impianto di queste zone che crea l’ illusione di un grande giardino.

Pranziamo lungo la sponda del torrente, accanto ai grossi fusti di un bambu.
Poco avanti, passata la frazione di Vorno, la strada sale di nuovo e supera l’ ultima collina prima della piana lucchese. Le pendici, coltivate a ulivi, e le essenze di alta collina lasciano il posto alla vegetazione spontanea che avevamo lasciato ieri all’ uscita da Pisa. Il sole ha sciolto le nuvole e lo sguardo spazia fino alla Garfagnana e alle Alpi Apuane. Sotto di noi e’ Lucca, irta di torri e campanili.

“…andando, noi vedemmo in piccol cerchio torreggiar Lucca a guisa di boschetto” scrisse molti secoli or sono Fazio degli Uberti, scendendo questi stessi contrafforti.
Su di un sentiero che attraversa una fitta pineta arriviamo alle sorgenti dell’acquedotto di Lucca. In modo impercettibile, graduale, l’ ambiente s’ ingentilisce e nel canalone che allarga come un ventaglio verde, prendono sempre piu’ forma le imponenti opere murarie e di scavo che consentirono agli ingegneri di due secoli fa di imbrigliare i mille rivoli d’ acqua necessari ad alimentare l’ acquedotto.

Sotto di noi, al centro della valletta erbosa, e’ nato un canale ampio circa tre metri e profondo due, con muri e fondo in mattoni, cascatelle sagomate a regola d’ arte, scalini per scendere dal prato al fondo del canale e tutta una serie di pozzi, anch’ essi in mattoni che convogliano in canalette di pietra il loro contributo verso il canale principale che segue il fondo della valle.
Poco oltre, il canale si riunisce a un altro identico e insieme confluiscono in una grande vasca dalla quale l’ acqua veniva convogliata in due condotte coperte.
Qui e’ un ponte chiamato “delle parole d’oro” per l’ iscrizione incisa a parole d’ oro che ricorda la costruzione dell’ acquedotto e il nome del suo committente, Carlo Ludovico di Borbone, reggente dello stato lucchese. L’ opera, davvero monumentale, fu costruita tra il 1830 e il 40 dall’ architetto Nottolini e riforni’ la citta’ di Lucca fino alla seconda guerra mondiale.

Appena oltre le case di San Quirico, in vista della citta', arriviamo alla monumentale cisterna di partenza dell’ acquedotto aereo vero e proprio che, con 460 arcate collega le ultime propaggini della collina con il centro storico. Tutta l’ opera versa in stato di sconfortante abbandono, le cisterne sono vuote e molte le lastre sconnesse e rotte, ma ancora oggi essa esercita un fascino particolare e sembra sfidare i secoli e l’ incuria di chi, invece, a lungo ne beneficio’.

Camminiamo lungo una strettoia che costeggia gli archi e attraversiamo la pianura coltivata, sostando alle frequenti fontanelle che sono parte integrante di questa grande struttura.
Davanti a noi si profila l’ autostrada Firenze – Mare, che superiamo con un ponte di ferro. Qui il tracciato dell’ acquedotto si interrompe; alcuni archi mancano ma non per colpa, come molti pensano, di chi costrui’ l’ autostrada. Furono, infatti, i tedeschi della whermacht a farli saltare, per bloccare,chissa’ perche’, il flusso di acqua verso la citta’.
Il nostro viaggio termina al Tempietto di San Concordio, un alto cilindro neo-classico ove termina anche la parte aerea dell’ acquedotto. Da qui, l’ acqua era incanalata nelle tubature della rete idrica della citta’.

Siedo su gradini sbrecciati, la schiena appoggiata allo zaino e penso. Penso che in due giorni abbiamo coperto un percorso che l’ auto avrebbe ingoiato in un’ ora.
E’come se, con il nostro lento procedere,avessimo dilatato il tempo, ridando vita reale a una tridimensionalita’ che invece ci ostiniamo a negare, comprimere e svilire.
Chiudo gli occhi e vedo davanti a me il percorso di queste due giornate srotolarsi e, centimetro dopo centimetro,dispiegarsi come un magico gioco di scene in cartapesta
Ad occhi chiusi penso che in questi due giorni ci siamo riappropriati di un mondo perduto, un mondo che e’ sempre li’ , disponibile, ma che di solito ignoriamo, nascosto dietro al velo della nostra fretta e della nostra superficialita’

 

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