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Lunedì, 24 Agosto 2015

Parlo italiano un poco

"[...] Mi schernisce un po' con l'addetto dell'albergo, che anche lui mi accoglie in un italiano perfetto, e gli dice: "lei non crede che io ho imparato l'italiano con la televisione... ma noi tutti l'abbiamo imparato così, no?". E il ragazzo conferma."

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Scendo dall'aereo e dopo la disperata ricerca dei nostri bagagli, riconsegnati sul rullo del volo da Francoforte anziché Fiumicino, mi avvio verso l'uscita dell'aeroporto. Subito dietro le transenne vedo un cartello con scritto Vagabondo e vengo accolta da una stretta di mano decisa e sicura.

Mi stupisco come la nostra guida... anzi, accompagnatore, come vuole essere chiamato lui, parli così bene italiano. Esordisco con un "parli italiano" e lui mi risponde "un poco", ma è più di un poco: la conversazione scorre veloce e lo farà per tutta la settimana successiva, fra detti popolari e lo spot dell'Amaro Lucano, che anche lui che parla italiano "un poco" conosce così bene. 

Gli chiedo se abbia imparato l'italiano lavorando coi turisti. Ricordo le guide indiane, i commercianti marocchini, tutti la stessa risposta: "coi turisti". Ma lui no, lui sorride e mi dice: guardando la televisione.

Questa risposta tanto mi stupisce all'inzio, quanto mi farà capire nei giorni successivi quanto poco io sapessi di questo paese. Nei giorni della repressione comunista le onde della televisione italiana erano le sole a non essere schermate e ad arrivare fino all'Albania attraverso i 70km di acqua che separano i due paesi. E tutti quelli che parlano l'italiano così bene, l'hanno imparato rischiando anni di prigione.

Mi schernisce un po' con l'addetto dell'albergo, che anche lui mi accoglie in un italiano perfetto, e gli dice: "lei non crede che io ho imparato l'italiano con la televisione... ma noi tutti l'abbiamo imparato così, no?". E il ragazzo conferma.

Rimane sospesa nell'aria la domanda. Voglio sapere per tutto il tempo se anche le persone che ho incontrato, che mi hanno offerto da bere, con cui ho brindato, che hanno mangiato gomito a gomito con me e che mi parlano nella mia lingua come se fossero miei concittadini siano mai stati in Italia. E come ci siano arrivati.

Provo con un: "Hai sempre vissuto a Tirana?" e la risposta non lascia trasparire nulla che mi faccia capire se tra i volti dei migranti che vedevo in televisione ci poteva essere anche il suo.

Poi un giorno il racconto esce da sè, per caso su una collina di Apollonia, nella luce del pomeriggio, arriva una delle confessioni di vita più sconvolgenti che io abbia mai sentito dal vivo. E come questa ne ascolterò molte altre nei giorni a venire, ognuna coi propri tempi, quando si è pronti. Ma il racconto aveva sempre e l'unica domanda che riesco a fare è: "avevi paura?" "da morire".

Sconosciuti che in una settimana diventano come fratelli, seduti gomito a gomito, e mi rimangono un po' gli occhi umidi quando li abbraccio per salutarli.

Al rientro vomito racconti addosso a chi mi chiede "com'era l'Albania", ma solo chi so che capirà. A tutti gli altri mostro le foto: acque limpide, sassolini bianchi, città inerpicate sulle montagne, le mille finestre di Berat... un po' contenta di rispondere coi fatti a chi mi chiedeva "perché proprio in Albania?". So però che attraverso le foto non potranno percepire il calore delle strette di mano, il suono delle risate, l'orgoglio albanese, l'ospitalità albanese, le lacrime calde che scorrono sulle guance quando arrivo alle partenze dell'aeroporto di Tirana.

Quindi ve lo auguro, un giorno, a tutti quanti. Di poter visitare l'Albania e di incontrare anche solo la metà delle persone stupende che ho incontrato io: saranno sufficienti per scoprire cosa c'è davvero al dilà del mare.

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