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Giovedì, 14 Maggio 2009

Nella terra dei Luo

Frugando nella piccola libreria della children's home, mi imbattei in un libro scritto da un missionario laico che aveva preso a cuore un piccolo villaggio sulle rive del lago Vittoria...

Concorso Storie Vagabonde

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Frugando nella piccola libreria della children's home, mi imbattei in un libro scritto da un missionario laico che aveva preso a cuore un piccolo villaggio sulle rive del lago Vittoria. Lessi in poco tempo la sua storia e quanto aveva fatto per la comunità di Wanagwethe: una scuola, un pozzo, un ospedale e una piccola residenza per gli ospiti. Raccolsi tutte le informazioni necessarie per raggiungere il villaggio, o almeno quello conosciuto più vicino.

Partii la mattina presto da Nanyuki per Nakuru e feci una sosta per il pranzo. Non andai al lago, regno dei fenicotteri rosa, perché il tempo che avevo a disposizione non era sufficiente ma ripiegai per un punto panoramico da cui lo sguardo poteva spaziare tra verdi colline fino alla Rift Valley. Col secondo matatu arrivai a Kisumu quando ormai era già tramontato il sole. Alcuni ragazzi mi chiesero dove dovessi andare e quasi si azzuffavano per guadagnarsi la precedenza. Scelsi quello che mi ispirava più fiducia e mi feci accompagnare all'ostello in cui avevo prenotato un posto letto. La mattina feci colazione con chai e chapati in una sobria ed essenziale baracca. Poi mi diressi verso il lago per chiedere se era possibile arrivare a Homa Bay in battello. Un autista che sembrava lavorare per il parco si mostrò molto disponibile e servizievole offrendosi di accompagnarmi alla stazione dei traghetti. Dai vari tentativi capii che non sapeva né quale fosse la stazione né se fosse possibile fare la traversata.

Alla stazione dei matatu mi consigliarono di prendere un mezzo fino a Homa Bay e poi chiedere ulteriori informazioni. Le suore della missione di Homa Bay non conoscevano il missionario di Wanagwethe ma mi dissero che a Mbita avrei trovato un missionario olandese che avrebbe potuto aiutarmi. Sul matatu chiacchierai col signore che sedeva a fianco a me, incuriosito dal testo che studiavo, un corso di swaili. Ero preoccupata perché alle 18,30 ancora non eravamo arrivati a destinazione e mi avevano sempre raccomandato di non viaggiare di notte e di rientrare a casa prima del tramonto. Allora pensavo che la gente avesse tanta paura della notte a causa della delinquenza ma ora credo che quella paura fosse legata a qualcosa di misterioso e insondabile, che probabilmente non aveva una giustificazione razionale ma piuttosto affondava le sue radici nella superstizione.

Arrivammo a Mbita verso le 19 e un ragazzo mi portò in bici-taxi fino alla missione. Al cancello una donna mi disse che il prete olandese era stato sostituito da padre Bernard e che avrei potuto dormire nella Father's House. Per me non aveva importanza: trovare un tetto per la notte in quel momento era la mia unica preoccupazione. Padre Bernard era un ragazzo robusto, giovane, conviviale, amava parlare e ridere e adorava avere ospiti. La missione era povera, non c'era acqua corrente né luce elettrica. Mi lavai al lume di candela attingendo l'acqua, fredda, da un grosso bidone. Sentivo il moto quieto del lago, tutta la notte, e mi addormentai con la mente libera e rilassata.



La nuova giornata si sarebbe rivelata particolarmente intensa e ricca di avvenimenti, che ricordo come una sequenza di immagini e sensazioni ancora vive e presenti a distanza di anni. La prima destinazione era una piccola chiesa di campagna. Percorremmo la strada sterrata che costeggiava il lago, da cui potevo ammirare il paesaggio incantevole, con le sue distese di terra rossa e la lussureggiante vegetazione che strideva con la povertà estrema di cui mi parlava il prete. La zona era abitata dalla tribù dei Luo, con le sue abitudini e le sue superstizioni. Mi colpì in particolare la leggenda del "night runner", un uomo che corre nella notte, una figura sinistra, un pazzo o un posseduto da forze maligne. Un altro mito legato alla notte, alla paura degli Africani di trovarsi fuori casa nel buio.

La chiesa era visibilmente povera: un'unica navata con poche file di banchi all'ingresso su cui sedevano gli adulti mentre i bambini erano sistemati oltre i banchi fino ai piedi dell'altare. Le donne portavano larghi vestiti di cotone leggero con fantasie floreali, stretti in vita con dei nastri, e un fazzoletto avvolto sulla testa. I bambini avevano la divisa della scuola, pantaloni corti e camicia bianca, rattoppata più e più volte. Trovai un posto sulla prima panca a destra - che poi mi resi conto essere la zona riservata agli uomini - cercando di non dare nell'occhio.

Fu la celebrazione più emozionante. La tipica danza dei bambini che precedeva il sacerdote mi introdusse nel clima festoso ma allo stesso tempo di raccoglimento della piccola comunità. La messa era animata da canti a cui partecipava tutta l'assemblea, accompagnati da tamburi e kayamba. Il culmine della mia ammirazione fu durante la processione offertoriale delle donne: avanzavano solenni dal fondo verso l'altare con quella loro danza in fila indiana, al ritmo dei tamburi. Alla conclusione dell'omelia capii che il celebrante faceva cenno alla mia presenza e mi presentava associandomi in qualche modo alla squadra di calcio nazionale italiana, che aveva in quei giorni vinto i mondiali. Tutti i presenti, che fino a quel momento non mi avevano rivolto uno sguardo, si girarono verso di me. Come temevo, inoltre, il prete avrebbe voluto che dicessi qualcosa dall'altare e infatti, poco prima che finisse la messa, un suo collaboratore mi chiese se avessi avuto il piacere di parlare alla comunità ma io non me la sentivo.

Uscii dalla chiesa quando l'assemblea si stava sciogliendo e mi fermai appena fuori dall'ingresso. Pian piano si andò formando un semicerchio davanti a me di cui io ero il fulcro, l'oggetto della curiosità generale ed evidentemente un essere raro da quelle parti. Il gruppo si stringeva e si compattava con le persone che ancora uscivano dalla chiesa, adulti, vecchi e bambini. Mi osservavano in silenzio mentre io, non potendo più indietreggiare, ero ormai arrivata a toccare il muro della chiesa. Dopo alcuni minuti, un lasso di tempo che mi sembrò interminabile quanto lo dilatava la mia emozione, una donna si avvicinò e porgendomi la mano mi chiese in swaili il mio nome. Fu la svolta per tutti, per me e per chi mi guardava aspettando qualcosa: a turno vennero diversi bambini che volevano stringermi la mano, dirmi qualcosa o semplicemente vedermi da vicino. Era la fine dell'incantesimo: la massa si muoveva, perdeva elementi, i suoi componenti si spostavano e si allontanavano ognuno per la propria strada. Dopo questa esperienza quasi mistica fu preparato per noi ospiti un ricco banchetto, all'interno della chiesa stessa.



La tappa successiva era la missione dei frati francescani di Sindo. I frati conoscevano bene Wanagwethe e il suo missionario, che però in quel periodo si trovava in Italia. Il collegamento da Sindo era effettuato da un camion due volte alla settimana ed io non ero capitata il giorno giusto. Con la jeep di Bernard non era possibile praticare quella strada perché particolarmente accidentata; gli stessi frati ci andavano soltanto in moto. Ormai avevo rinunciato alla mia impresa ma sentivo di aver fatto tanto e che avrei ricordato per sempre quei pochi giorni di viaggio fino a Sindo.

Finita la celebrazione, aspettavo Bernard nel cortile quando arrivò un messaggero del frate motociclista: mi avrebbe accompagnato a Wanagwethe il giorno dopo. Dovetti rifiutare con un pizzico di amarezza ma dentro di me ero felice perché avevo vinto una sfida, avrei potuto raggiungere Wanagwethe, un villaggio sconosciuto che non esisteva neanche sulle mappe, sconosciuto finché non arrivai a Mbita, dove nessuno mi chiese di ripetere il nome per scovare nella mente qualcosa che potesse assomigliargli. Dovetti arrivare per tappe, sempre più vicino. Dieci chilometri di strada impraticabile persino in fuoristrada: una distanza insormontabile per me che non avevo più tempo.


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