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Mercoledì, 10 Febbraio 2010

L'Ultimo Capolinea, Patagonia

Recarsi nell'altro emisfero, l'australe intendo, è già di per sè una condizione di avanzamento in una terra di nessuno.

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Vagabondo0






Sin dall’infanzia ho, per così dire, subito il contraddittorio fascino che esercita l’immagine di un capolinea. Forse perché abitavo nei pressi di una piazzetta dove s’arrestava una tramvia che, compiuta la sosta e fatto il periplo della piazzetta medesima, imboccava il lungo viale alberato e ripartiva per chissà dove (un altro capolinea). O forse perché anche trascorrevo le vacanze estive in un paesino d’una valle chiusa, schiacciata contro la sagoma di robuste montagne: la strada che vi arrivava non proseguiva oltre e quindi il luogo si poteva considerare a tutti gli effetti un capolinea.

Il significato che traevo dalla sua presenza era che entro il capolinea vi fosse il tutto mentre nell’oltre il nulla.

Studiando la geografia nei primi anni della scuola, il concetto sembrava ricevere ulteriore conferma dalla sistemazione delle frontiere: ognuna di esse era un capolinea ma non si toccavano esattamente, erano sempre separate da un interspazio chiamato "terra di nessuno", e se nessuno la possedeva, pensavo, doveva essere perché non era niente.

Tale convinzione, finita nel magazzino delle idee infantili, quel ripostiglio che ciascuno si costruisce con l’età adulta per conservare un guizzo di originale stranezza, si ripropone però inconsciamente ogni qual volta mi ritrovo a viaggiare in luoghi particolarmente lontani sino a quando ebbi in sorte, durante uno di tali viaggi, l’avventura di imbattermi in un capolinea particolare, uno di quei limiti che possono a buon diritto essere definiti "capolinea dei capolinea" per la loro caratteristica di presentarsi come luoghi entro i quali la ragione stenta alquanto a giustificare che la specie umana possa vivere.


Recarsi nell’altro emisfero, l’australe intendo, è già di per sé una condizione di avanzamento in una terra di nessuno. Si parte, come feci, nel tardo autunno e ci si ritrova dopo poche ore a Buenos Aires nel rigoglio della primavera.

Ancora non si è presa coscienza del nuovo stato, non si è fatto in tempo a ritrovare un angolo di casa in qualche vecchio scorcio come il Caminito, che un ulteriore veloce balzo catapulta all’estremo lembo della Patagonia: Caminito adiòs, mentre il vento soffia dai sobborghi e ci si sofferma a scambiare qualche parola con il ricordo di Gardel.

Ushuaia offre così la nitida sensazione di quelle fermate ferroviarie che fanno da capolinea. Dopo uno spostamento di migliaia di chilometri, un capostazione piantato dritto nel cervello, con la paletta rossa alzata in bella vista, sembra ripetere in modo ossessivo "signori si scende"perché è implicito che, oltre il capolinea, vi sia il nulla.

In realtà è solo una soggettiva sensazione poiché la cittadina non costituisce che una tappa del viaggio anche se del capolinea presenta tutte le caratteristiche.

Un tempo fu celebre per il penitenziario in cui venivano internati individui pericolosi, compresi gli oppositori politici, secondo un consolidato costume caro ad ogni forma di potere. Uomini e donne arrivati al capolinea della loro esistenza, per i quali non si prospettava nessun futuro nella vita civile.

Fu durante la visita al carcere che mi accadde il primo di una serie di episodi alquanto singolari.

Nel corso della visita medesima restai staccato dal gruppo e mi ritrovai solo in una parte dell’edificio. Nulla di preoccupante, giacchè avevo visto la direzione che la comitiva aveva preso e per ricongiungermi ad essa decisi di affrettare il passo.



Il giovane comparve all’improvviso. Non l’avevo notato nella massa dei turisti in visita.

Indossava una casacca di cotone a righe gialle e blu, con il numero 155 stampato sul petto. Lì per lì pensai ad uno dei molti ragazzi del villaggio globale, venuto da chissà dove, Canada, Stati Uniti, Australia, che si trovavano in quel lembo estremo della Patagonia e come me dovevano imbarcarsi per la Penisola Antartica.

"Anche lei è rimasto indietro?"- gli dissi in inglese, incerto sulla sua provenienza.

Mi guardò stupito, facendomi chiaramente intendere che non aveva compreso la domanda. Gliela ripetei dapprima in italiano e quindi in castigliano.

Sorrise e rispose, servendosi d’un elegante miscuglio dei due idiomi: "Veramente io vivo qui; sono il custode del luogo, il custode della memoria per così dire. Quando lo ritengo opportuno, mi soffermo a raccontare delle storie, quelle sulle quali le guide ufficiali non indugiano più di tanto".

"Mi piacerebbe ascoltarne una – ribattei affascinato dal suo modo pacato e sicuro di scandire le parole – "ma temo di dovermi affrettare; non vorrei rimanere chiuso qui dentro e far preoccupare inoltre tutti quelli che erano con me".

"se è per questo – riprese il giovane – non si deve preoccupare. L’accompagnerò io all’uscita e in fondo non perderà molto tempo. La storia è interessante ed anche breve da raccontare".

Così, parimenti che l’ospite della festa di matrimonio, incatenato dal magnetismo del vecchio marinaio, nel poema di Coleridge, non potei fare a meno di ascoltare il racconto.

"Il protagonista della vicenda – cominciò il giovane - aveva nome Simòn Radowitzky, un ebreo ucraino fuggito dalla sua terra, allora dominata dal potere dello zar di tutte le Russie e sconvolta dai terribili pogrom attraverso i quali la chiesa ortodossa e lo stato perseguitavano gli israeliti. Ad Ushuaia Simòn arrivò il 6 gennaio del 1911, condannato alla detenzione perpetua per aver giustiziato, scagliando una bomba nella carrozza su cui transitava, quell’assassino di Ramon Falcòn, capo della polizia noto come Falcòn il sanguinario. Costui, due anni prima, aveva ordinato l’attacco al corteo del primo maggio, provocando la morte di moltissimi manifestanti, fra cui parecchie donne e parecchi bambini. Radowitzky fu salvato dalla pena capitale dalla sua giovane età: aveva da poco compiuto i 18 anni, e pertanto per la legge argentina risultava essere ancora minorenne.

La sua vicenda suscitò l’attenzione di Miguel Arcangel Roscigna, un dirigente del settore metallurgico che avrebbe potuto condurre una comoda esistenza borghese. Ma Roscigna era un uomo sensibile alle condizioni dei lavoratori, uno di quegli anarchici per i quali la redenzione dell’uomo dalla miseria, materiale e morale, e dall’ingiustizia diventa un ideale di vita. Ordì pertanto un arguto piano per far evadere Radowitzky dal penitenziario. Riuscì a farsi arruolare come guarda carceraria pensando di poter agire dall’interno. Era il 1918, preparò il piano ma fu scoperto prima ripassare all’azione, salvandosi a stento dalla cattura poiché sviò la caccia all’uomo che si era scatenata nei suoi confronti dando fuoco all’abitazione del direttore del carcere.

Roscigna non desistette dal tentativo. Il 7 novembre del 1920, dopo aver fatto uscire Radowitzky dal carcere travestito da secondino, lo imbarcò su di un cutter, un’imbarcazione abbastanza veloce e robusta, con la quale il fuggitivo tenta di attraversare lo Stretto di Magellano. La fuga non ebbe fortuna: Smòn, che aveva dovuto abbandonare la barca e tentare di raggiungere a nuoto la Terra del Fuoco, fu trovato dalla marina cilena e riconsegnato agli argentini.

Rimase ad Ushuaia sino all’aprile del 1930, quando gli fu concessa la grazia. La sua vita fu un continuo peregrinare, prima in Uruguay, poi in Spagna durante la rivoluzione dove combattè nella colonna di Durruti, poi in Francia ed infine in Messico, dove morì il 4 marzo del 1956. Un uomo che ha incontrato, per così dire, molti capolinea, ma ai capolinea non si è mai arreso".

Mentre pronunciava queste ultime parole il giovane si era mosso e lo seguii prontamente. Arrivammo all’uscita e ci salutammo cordialmente: "Ah – aggiunse quasi come per caso – il numero identificativo di Radowitzky era il 155."

Stavo per ribattere qualcosa ma il giovane si voltò e scomparve nei meandri dell’edificio.



I flutti di due oceani che si toccano in un tumultuoso abbraccio battevano con forza le fiancate della nave. In fondo era un viaggio come tanti altri, un’esperienza turistica aggregata al personale d’una missione scientifica che si recava nelle terre polari per svolgere il proprio compito di ricerca ed osservazione. Eppure, sarà stato per la meta, o forse per il fascino che esercitavano i nomi dei luoghi, non si poteva fare a meno di respirare una leggera brezza d’avventura: sulla destra era sfilato Capo Horn e la nave, imboccato il Canale di Drake, drizzava la prora verso la Penisola Antartica.

Lo sciabordare delle onde evocava altri tempi ed altri passaggi, da Magellano che per primo affrontò l’estremo capo meridionale del continente americano, a Drake, al brigantino Beagle che conduceva Charles Darwin verso la teoria dell’evoluzione.

Avanzando nella distesa plumbea di acque che il personale di bordo diceva in quel momento tranquille – ci si può immaginare quale terribile volto possa assumere qui una tempesta – altre sensazioni si fecero strada nella mente: immagini viste sui libri, paesaggi e volti legati alle esplorazioni polari, avventure di idee prima ancora d’essere immortalate come avventure reali.

Gli abissi conservano di certo ricordi antichi, naufragi di speranze, di uomini e di merci, battaglie strenue contro la furia delle acque e dei venti: era un viaggio turistico ma qualche brivido non compreso nel pacchetto dell’offerta era lecito e piacevole.

I giorni della navigazione trascorsero con monotona bellezza. Attorno lo sguardo si posava sull’infinito, così che il senso di smarrimento fosse totale. Solo gli uccelli che si stagliavano nel cielo gonfio di nuvole nere e turchine, rosse e giallastre, in un caleidoscopio agitato dal vento, segnavano un qualche labile confine tracciando irregolari poligoni con il loro volo. Se l’estremo lembo della Patagonia offriva ancora una vaga sensazione di luogo in cui la presenza umana potesse trovare una qualche giustificazione, l’Antartide avvertiva senza ambiguità circa la propria natura inospitale.

La Penisola Antartica pareva il capolinea dei capolinea, l’avamposto di qualcosa di assai più tremendo e indecifrabile tanto che non s’avvertiva neppure la voce del solito capostazione. La scienza e la tecnica consentono che esseri umani siano in grado di manifestare la propria presenza ma, se si considera nella sua vera accezione il termine vivere, si comprendere come a queste latitudini esso abbia senso solo per glie esseri che qui abitano da sempre.

La curiosità per lo spettacolo che si presentava fugava certamente la razionale considerazione sopra esposta, e l’esperienza diretta delle situazioni prevaleva sulle sensazioni provate durante la navigazione.

Sul gommone che conduceva verso la riva balzava anche un arzillo signore quasi novantenne, un fisico statunitense di origine cinese entusiasta come un bimbo che s’affaccia sul mondo e s’attrezza per conoscerlo.

Pareva l’immagine incarnata della ragione umana, smodatamente curiosa ed incapace di contenere il proprio desiderio di conoscenza, insoddisfatta del riposo e della pura contemplazione. La presenza dell’anziano fisico testimoniava che la natura umana giustifica di per sé la propria presenza in ogni luogo così che veniva alla mente quel passo dantesco in cui l’allegoria stessa dell’avventura, Odisseo, ammonisce i compagni che "fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir vertute e conoscenza". Forse, come Radowitzky, cercava di evadere da un carcere, dal carcere del tempo che passa e condanna alla condizione di "vecchio" giunto ormai al capolinea.



Le terre antartiche, superate le Colonne d’Ercole poste da quel senso d’estraniamento e di perdita dell’orizzonte che in un primo momento avvolge la coscienza del viaggiatore, rivelavano la loro bellezza e la loro vitalità in forme inaspettate.

Il pinguino, ad esempio, in decine di varietà. Pareva una riproduzione della specie umana catapultata in una dimensione da comica finale: goffo sulla terra ed agile nell’acqua, ricordava l’umanità ridicolamente impacciata nell’ipocrisia delle convenzioni sociali e mirabilmente elegante quando si manifesta, in modo autentico e libero, nella ricerca della verità. Uno di loro, che incontrai sulla riva mentre era intento al passeggio, mi rivelò che un suo trisavolo ispirò mirabilmente le opere del grande Chaplin: " Da dove crede abbia preso l’idea di un omino vestito di nero e bianco, che sgambetta a fatica ed arranca nelle situazioni quotidiane ma fende con estrema abilità le acque della poesia e dell’ideale?" – dissertò con finezza mentre accompagnava le parole con piccoli cerchi delle pinne – "pensa veramente che un uomo, benché geniale, possa inventare dal nulla situazioni ed immagini senza ricorrere all’osservazione della natura? Se l’uomo non potesse osservare, le sue conoscenze sarebbero al capolinea".


O le balene, che parevano sogni ricorrenti ma sfuggenti, presenze che segnavano lo spazio infinito del mare per poi scomparire inghiottendo anche la vista di chi ne seguiva il costante vagare. Osservando una balena – maestra, mentre teneva una lezione ad una schiera di piccini fermi sul pelo dell’acqua, compresi perché Melville avesse assunto una di loro ad allegoria del perenne ed inquieto vagabondare dello spirito umano, così desideroso di catturare e quasi fermare in concrezioni cristalline il divenire perenne della natura: "Non è la gamba mancante che spinge Achab contro Moby Dick: l’uomo può convivere con una menomazione fisica e sopportarla, non può tollerare che un qualche aspetto della realtà sfugga al suo controllo. Per questo s’immagina che esistano i capolinea e per questo si perde nel vano tentativo di delimitare lo spazio, il tempo, la conoscenza, si perde nel vano tentaivo di dominarli".


Queste presenze vitali parevano un novello capolinea ma i capolinea in realtà non esistono, sono essi stessi il nulla. I capolinea non sono che le proiezioni della nostra ignoranza, del nostro non voler proceder oltre, sono i labili confini di quei luoghi reali o figurati che definiamo "sistemi" che per includere qualcosa di certo escludono molto altro.

Oltre la Penisola Antartica, la distesa dei ghiacci avrebbe rivelato sicuramente altri segreti qualora si fosse disposti a scoprirli.


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