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Giovedì, 7 Maggio 2009

Le miniere del Cerro Rico

Nel 1700 le miniere d'argento del Cerro Rico facevano di Potosì (Bolivia) una delle città più ricche del mondo. Quella che secoli di sfruttamento hanno consegnato al terzo millennio non ha nulla a che vedere con la città del passato.

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Nel 1700 le miniere d’argento del Cerro Rico facevano di Potosì (Bolivia) una delle città più ricche del mondo. Quella che secoli di sfruttamento hanno consegnato al terzo millennio non ha nulla a che vedere con la città del passato. Nel 2008 Potosì mantiene intatto il fascino dell’epoca coloniale, ma la povertà la respiri, la vedi dappertutto. I potosini amano raccontare ai viaggiatori disposti ad ascoltare che con tutto l’argento che si sono portati via gli spagnoli si sarebbe potuto costruire un ponte lungo fino a Madrid. La gente qui muore però di fame, nel senso letterale e più crudo del termine.

Arrivando in autobus alla frontiera dall’Argentina, il mal di montagna – che i boliviani chiamano soroche - ti coglie all’improvviso. E’ sufficiente alzarsi di scatto dal proprio sedile per capire che il fisico ci mette un po’ per metabolizzare i 4.200 metri di altitudine. La dogana tra La Quiaca, in Argentina, e Villazon, sul lato boliviano, ha una maniera di funzionare curiosa. La parte argentina è aperta 24 ore al giorno, quella boliviana resta invece chiusa durante la notte. L’agente che timbra i passaporti non lo dice. Probabilmente pensa che il fatto che 50 metri più avanti finisca il suo paese e ne cominci un altro, lo autorizzi a non voler condividere con me questo segreto. Quando lo scopro è troppo tardi e sono già nella terra di nessuno. Non posso tornare nella stazione di La Quiaca, perché sono uscito dall’Argentina, e non posso andare in quella di Villazon, perché non sono ancora entrato in Bolivia. La temperatura è sette gradi sotto zero. La nausea e l’affanno del soroche mi fanno rimpiangere di aver lasciato l’allegra camerata dell’ostello di Salta. Sono le cinque del mattino e la dogana apre alle sei. La scoperta del fatto che la Bolivia è un’ora indietro rispetto all’Argentina è una doccia fredda. Le ore da aspettare sono due. Alcuni ragazzi irlandesi sono fermi lì da un po’ per fare il percorso inverso e aspettano di timbrare il passaporto in uscita. Ho paura che fra due ore sarò ridotto come loro. Per fortuna tra latini ci si intende e i militari di guardia mi dicono che posso andare a prendere un tè caldo nella stazione degli autobus di Villazon. Si fidano. Non credono che un italiano voglia entrare da clandestino nel loro paese.

Il terminal è colorato e chiassoso come mi aspettavo. Gli indigeni portano tutti la bombetta, il tradizionale cappello, e mantelli variopinti. Mi è difficile assegnare un’età alle donne che portano i bambini legati sulla schiena con drappi multicolore e che si coprono il viso per non farsi fotografare. Quella macchina infernale che porto al collo infatti, secondo le credenze aymara e quechua – i due principali gruppi etnici boliviani –, ruba l’anima. Se voglio ritrarre il volto delle signore andine devo farlo di nascosto. In circostanze normali non mi sarei mai sognato di mangiare quello che qui è una ricca colazione, ma sono finalmente in Bolivia ed è tempo di dimenticare i comfort argentini e adattarsi. Alle otto parte l’autobus e i primi minuti con il motore acceso sono dedicati a sbrinare il vetro completamente congelato. Nonostante abbia vestiti pesanti e mi sia messo addosso una coperta, rubata in aereo proprio in previsione delle temperature delle Ande, fa freddissimo. Dopo un’ora scarsa di viaggio esce il sole e piombo in un sonno ristoratore, mentre gli altri passeggeri saturano l’aria con l’odore fastidioso delle foglie di coca masticate. La strada non ha asfalto e il viaggio non è comodo, ma sono troppo stanco. Nelle otto ore che servono per arrivare a destinazione riprenderò conoscenza solo un paio di volte per mangiare, andare al bagno e fare qualche foto.

Potosì è in mezzo alle montagne, siamo in inverno e nevica. Questo è sufficiente per abbandonare il primo ostello che trovo nel momento in cui vengo a sapere che non c’è il riscaldamento. La struttura riscaldata più a buon mercato mi costa intorno agli 8 euro, decisamente fuori dal budget previsto ma non ho scelta. A quest’altitudine, per alcuni giorni, anche il fare una rampa di scale diventa un’impresa titanica e tutte le notti un immancabile mal di testa arriva a turbare il riposo di quelli che non sono abituati a queste altitudini. Una stanza la cui temperatura sia sopra i dieci gradi è il minimo.





Nella città ci sono oltre 240 miniere, più di 200 sono di proprietà di privati che vivono nel lusso a Sucre, la capitale costituzionale del paese. A Potosì è d’obbligo una visita a questi luoghi, residui di un passato che sembra voler durare in eterno. Mi sento male, sembra una sorta di voyerismo, un giardino zoologico umano. Ma Helen, la guida, la vede diversamente: i "turisti" – e io lo sono, anche se odio pensarmi come tale – portano una merenda ai lavoratori e li aiutano a sopravvivere. Dalle miniere ormai esce ben poco e ci sono giorni in cui i minatori non guadagnano niente. E’ una fortuna che ci sia qualcuno che li aiuti. Forse Helen ha semplicemente capito con chi ha a che fare, ma mi convince. Passiamo a comprare un po’ di dinamite – in Bolivia è legale -, gallette dolci e salate, succhi di frutta e un po’ di foglie di coca. Quando non hanno da mangiare infatti, i lavoratori le tengono in bocca per restare svegli e non sentire i morsi della fame. La coca fa anche loro da orologio, le circa 500 foglie che tengono in bocca cambiano sapore e diventano amare all’incirca ogni tre ore, così sanno che quattro "carichi" corrispondono a un turno.

Per entrare in questi luoghi, che noi ragazzi degli anni ’80 associamo alle esperienze della generazione dei nostri nonni e che abbiamo sempre pensato in bianco e nero, bisogna inginocchiarsi ed entrare in quella che non sembra niente altro che una piccola grotta, ma che porta a un mondo fatto di miseria e desolazione. Genaro ha 17 anni, ma ne dimostra molti di più, ed è uno dei circa 3.800 minatori – tra cui ci sono anche 66 donne - che lavorano in città. Le prime 12 ore non ha trovato niente, quindi fa il doppio turno: un giorno interno a 50 metri sotto terra per non morire di fame. Mi chiede quanti anni ho e se ho figli. Alla mia risposta sfoggia un sorriso irriverente e mi chiede se ho qualche problema. A Potosì la vita ti brucia in fretta e a 27 anni non puoi permetterti di essere poco più che un adolescente, come in Italia. Don Bruno invece di anni ne ha 52, anche se le rughe che solcano il suo viso suggerirebbero qualche lustro in più. E’ malato di silicosi e aveva smesso di lavorare, ha dovuto rimboccarsi le maniche e ricominciare. Suo figlio è allo stadio terminale della stessa malattia, contratta nell’identico posto, e qualcuno deve badare a lui. Non ha salario fisso e non ha assistenza così, sfidando la malattia, deve scendere sotto terra 12 ore al giorno per sette giorni la settimana. E’ impossibile non sentirsi in colpa. Mi trovo ridicolo nella divisa da minatore che ho noleggiato per non sporcarmi le scarpe e i pantaloni.



Helen ci porta a vedere un pupazzo di argilla, decisamente brutto secondo le categorie estetiche europee, è il Tio. Nome che deriva da una storpiatura di Diòs, il Tio – ce ne sono molti in tutte le miniere – era il guardiano. I colonizzatori facevano credere agli indigeni che quei pupazzi fossero degli dei che controllavano il loro lavoro. Dopo l’indipendenza però, la percezione del Tio è cambiata ed è diventato un amico in più con cui dividere le ore in questi posti dove il sole non arriva mai. I minatori si passano una sigaretta esprimendo un desiderio a ogni boccata, infine la mettono in bocca al Tio che dovrà esaudirli. E’ un rito in cui vengo coinvolto in maniera naturale da ragazzi più giovani di me che hanno accettato di trasformare, per alcuni minuti, le loro tragiche storie in attrazione per un turista. Inutile dire che il Tio quei desideri non li realizzerà mai.


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