RACCONTO
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Giovedì, 19 Febbraio 2015

In Messico, inseguendo i morti

Nel paese in cui le celebrazioni del Dia de los Muertos sono le più impressionanti e sentite di tutta l'America Latina, 15 gringos aspettano il ritorno dei morti. E lì vanno a cercare fin sulle remote montagne del Chiapas

ARTICOLO DI

gitanilla

“Mio padre celebrava sempre il giorno dei morti. Però ci diceva anche: ‘Quando morirò, non fate un altare per me, perché in nessun modo potrò mangiare quello che avrete preparato’. Ricordo che un giorno, subito dopo la morte di mia madre, si era messo la sua corona di fiori intorno al collo. Sfilava così conciato per la casa e ci diceva: ‘Ora posso utilizzarla, ma da morto non mi servirà a niente’”. Sorrideva, Don Gilberto, mentre raccontava storie di defunti del suo paese. Erano le tre del mattino e ormai parlavamo da più di tre ore sugli scomodi sgabelli della stazione degli autobus di Tuxtla Gutierrez. Lui, contadino, era venuto in pullman la sera prima da Mazatan, nell’estremo sud del Chiapas dove il Messico incontra il Guatemala: aveva viaggiato per sei ore con sua cognata, dona Petra, e di lì a due ore dovevano presentarsi a fare la fila davanti all’ufficio del ministero dell’agricoltura. Poi sarebbero tornati subito a casa. Ma, invece di parlare delle sue sventure di campesino, Don Gilberto parlava di morti. Il Dia de los Muertos era passato da quasi 20 giorni, ma sembrava che tutti avessero un aneddoto che li faceva sorridere, in Messico.

In molti ci avevano detto che un viaggio in quel paese a cavallo tra ottobre e novembre sarebbe stato un’esperienza unica. Che mai, come in quel periodo dell’anno, si è catapultati in un vortice di feste, storie e colori. Quello che però non ci avevano detto è che essere lì per il Dia de los Muertos avrebbe cambiato per sempre la nostra percezione del più terribile dei fatti della vita: la morte. In Europa siamo abituati ad averne paura e il ricordo dei defunti ci riempie di tristezza. Ci trasciniamo come ombre nei cimiteri il giorno di Ognissanti, cambiamo silenziosamente i fiori sulle tombe e ci raccogliamo in preghiera. Ma in Messico il Dia de los Muertos è una festa che dura per giorni interi, con le famiglie che si accampano nel camposanto e bevono e mangiano con il loro caro. Perché, per un giorno solo, questi torna da loro.

Il primo incontro con questa sconosciuta tradizione lo abbiamo a Città del Messico: è il 26 ottobre, siamo stanchissimi e facciamo due fermate di metro per non camminare. Aspettando il treno, vediamo due ragazzi con un teschio bianco dipinto in volto abbracciarsi e salutarsi: Diego, uno dei teschi, ci racconta di come ogni giorno, la settimana prima del 31, cortei di giovani sfilano per le vie del centro fino alle piazze indossando le maschere tipiche dei loro morti. "Noi - spiega, con la matita nera sbavata a un angolo della bocca -lottiamo perché le tradizioni del nostro paese non vengano dimenticate". E così, tra un corteo e l’altro che ci viene incontro suonando e cantando, tra le facce dipinte di nero su cerone bianco, impariamo a riconoscere il Catrin, simbolo del ragazzo elegante e ben vestito: secondo una leggenda, sarebbe scomparso dal villaggio di Zaachila e riapparso un anno dopo all’altare a lui dedicato; un’altra, invece, vuole che egli abbia ucciso la ragazza di cui era innamorato perché questa non voleva sposarlo, per poi impiccarsi a un albero nel borgo di San Juan de Dios. Familiarizziamo anche con la Catrina, forse l’immagine popolare messicana per eccellenza. Imponente, con il suo boa di struzzo attorno allo scheletro e il suo cappello elegante sul teschio, questa maschera è il prodotto della satira popolare che più di cento anni fa sbeffeggiava le native che, bardandosi con pizzi e merletti, si spacciavano per europee. E’ il simbolo di come il messicano si prende gioco dei vivi che, per dirla con le parole dell’illustratore José Guadalupe Posada che per primo la rese celebre, “alla fine biondi o mori, ricchi o poveri, tutti diventiamo teschi”.

Dopo nove ore di pullman arriviamo a Oaxaca, che con Patzcuaro al nord vanta le celebrazioni più spettacolari per il Dia de los Muertos. E’ il 28 ottobre, fa caldo e nel centro storico di Oaxaca, che sembra un grande mercato a cielo aperto, si spande l’odore dei cempasuchil, i fiori dei morti. Giallo e arancione, questo tipo di calendula era, nella cultura preispanica, la rappresentazione del sole che guidava i defunti per tornare a casa. I suoi petali andranno ad adornare gli altari pieni di cibo che, a tre giorni dalle celebrazioni, la popolazione è impegnata ad allestire. Secondo la tradizione, ogni defunto avrà il suo piatto preferito e la sua bevanda prediletta in vita, e ci saranno tanti piatti quanti sono i morti di ogni famiglia. Immancabili tequila e mezcal, poi birra e bevande gassate, e ancora dolcetti per i bambini: teschi di zucchero, bare di cioccolato e il famoso “pane dei morti” sul quale, a volte, viene dipinta la faccia del defunto con lo zucchero. Oltre alle case private, gli altari vengono allestiti anche nei bar, nei ristoranti e negli hotel: Alejandro e Alejandra, i proprietari della nostra posada, ci viziano un po’ costruendo in fretta e in furia un altare perché possiamo vederlo prima di partire per il Chiapas. Alejandra va a comprare i calaverites, pupazzetti di gesso a forma di scheletro che adorneranno l’altare: "Questi - spiega, indicando gli sposi-cadaveri - sono i miei genitori. Poi c'è mio zio - e mostra “el borracho”, uno scheletrino stravaccato su una sedia a dondolo con la tequila in mano - e mia zia, che assomigliava alla Catrina. E questi - prende due diavoletti - siamo io e Alejandro. Noi non siamo ancora morti!". Poi circonda le scale e il cortile di candele e comincia a preparare i petali da spargere lungo la via. Davanti alla reception bolle un pentolone da ore: una zucca intera, per i suoi morti.

A malincuore lasciamo Oaxaca e le sue gioiose celebrazioni dei morti e dieci ore dopo siamo a San Cristobal de las Casas. Qui, a quasi duemila metri di altezza, il freddo è implacabile. Catapultati in una delle zone a più alta concentrazione india del paese, non ci mettiamo molto a capire che in Chiapas il Dia de los Muertos ha una dimensione diversa, più raccolta. Il cimitero, che a Oaxaca la notte del 31 e del primo novembre si anima di famiglie alticce e chiassosi mariachi, qui è chiuso. Per non perderci il momento fatidico, dobbiamo arrampicarci sulle montagne intorno alla città ed entrare in uno dei chiusissimi villaggi tzotzil o tzeltal che cingono San Cristobal. E aspettare fiduciosi il ritorno dei morti.
Alle 7.30 del mattino del primo novembre siamo nel villaggio di Romerillo, a quasi 2.500 metri di altitudine. Fa così freddo che crediamo di non farcela a uscire dal pullmino. Complici la fitta coltre di nebbia che assedia il villaggio e gli sguardi di disapprovazione degli abitanti, l’atmosfera è spettrale. Quando riusciamo a vedere qualcosa ci troviamo al centro di una specie di fiera, a metà tra un mercato e una festa patronale: ci sono le bancarelle in cui si vendono frutta e verdura, abiti tipici, tamales e pozol. La musica riecheggia in lontananza e si intravede persino il profilo di una ruota panoramica. Camminiamo tra gli indios che ci guardano con un misto di fastidio e divertimento: siamo lì a invadere la loro riunione con i morti, ma siamo anche molto buffi sotto quegli impermeabili colorati con la testa avvolta in tutte le sciarpe e foulard che abbiamo trovato. Ci ritroviamo ai piedi del cimitero, il più importante della zona: fumo e nebbia circondano gli umili tumuli di terra, ognuno segnalato da una croce verde, azzurra o bianca a seconda che il defunto sia uomo, donna o bambino. Accanto ai tumuli giacciono le tavole di legno, che per tutto l’anno coprono le tombe in modo che le anime restino dentro e che vengono tolte la notte del 31 per permettere agli spiriti di raggiungere le proprie famiglie: se fossimo in un film, ci aspetteremmo uno zombie alle spalle.

Nel cimitero si spande il profumo degli aghi di pino – perché i defunti possano seguirne l’odore per non smarrirsi – e dei cempasuchil, issati sulle grandi croci al centro del camposanto o sui sentieri intorno alle tombe. Famiglie intere siedono accanto ai tumuli: alcuni piangono, altri ridono, soprattutto quando arriva il gruppo di mariachi per intonare la canzone preferita del defunto. I vivi versano ai morti da bere direttamente sulla terra: una gazzosa o un posc, distillato utilizzato in passato per i riti degli stregoni, ora consumato praticamente sempre e divenuto ormai la piaga sociale numero uno tra gli indios disorientati tra passato e presente. Alcune donne coprono con uno scialle l’intimità della tomba al nostro passaggio, altri semplicemente fulminano con lo sguardo questo gruppo di gringos venuto a impicciarsi di tradizioni che non può capire. E noi, silenziosamente, riusciamo a farci invitare a casa di Antonio, un amico della nostra guida Alejandro, per vedere com’è un altare finito. "Sapete, anni fa - racconta Antonio, che come tutti qui discende dagli antichi Maya - un messicano di origine europea mi ha cacciato dal marciapiede su cui stavo camminando a S. Cristobal: per lui ero un essere inferiore. Per questo - continua - gli indigeni fino a qualche decennio fa erano utilizzati come trasportini dei bianchi ricchi: li caricavano direttamente sulle spalle, come i muli".

Attraversiamo un paio di cortili pieni di immondizia – Alejandro ci spiega che qui, dove i rifiuti sono sempre stati solo organici, è difficile convincere la gente che plastica, vetro e latta vadano smaltiti in luoghi appositi – e Antonio ci fa entrare nella casa dei suoi genitori, allestita ad altare per l’occasione. E’ un’unica stanza, con l’altare a destra e il focolare e i giacigli a sinistra. Qui non ci sono i festosi e irriverenti “calaverites” degli altari di Oaxaca, né le foto dei defunti, perché gli indios, per tradizione, hanno paura che la macchina fotografica rubi loro l’anima. Le donne hanno cucinato, pulito e vegliato sull’altare per 36 ore, riposandosi a turno sui materassi gettati a terra, per impedire che le candele si spegnessero. C’è una fila di ciotole con brodo di pollo, tortillas, frutta e bevande. Le guardiamo e ci chiediamo se, dopo 36 ore all'aria, quel cibo sia ancora buono. In Messico si dice che, dopo essersi rifocillati della sua essenza per tutta la notte, i morti lascino il cibo senza sapore. Sorride Antonio, come leggendoci nel pensiero: "Il brodo non è più buono. Stanotte sono venuti i miei genitori e hanno spazzolato tutto". Usciamo e Antonio ci versa un po' di posc, per brindare ai suoi e a questa giornata così intensa che ci lascia tutti senza parole. Noi i defunti non li abbiamo visti, ma è sicuro che ci sono entrati dentro.

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