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Venerdì, 10 Gennaio 2014

Il Far West

Cosa vi viene in mente quando sentite la parola America? Filippo ci racconta il suo west...

ARTICOLO DI

filippojr

Cosa vi viene in mente quando sentite la parola America? I lustrini sfavillanti di Broadway? Le gite della domenica in battello a Coney Island? I cafè di Miami, i campi di cotone del sud, o forse i club un po’ loschi di Bourbon Street a New Orleans?

Tutti luoghi che fanno parte del grande universo americano, immortalati dal cinema, dal rock, dalla letteratura. Eppure gli Stati Uniti non sarebbero gli stessi senza l’Ovest, i pionieri, il mito della frontiera… quegli spazi immensi e desolati che impressionarono l’Antonioni di Zabriskie Point. Lascio l’Italia con la voglia di esplorare questo intrigante topos geografico (e culturale), chiedendomi in che modo cambierà l’idea di Ovest che la mia mente ha costruito in questi anni.

L’aereo gira in tondo su Las Vegas per qualche minuto prima di atterrare, l’occhio non può non posarsi sull’inconfondibile strip: ecco, in mezzo al buio del deserto del Nevada, quella successione di luci accattivanti e un po’ pacchiane. Il Mandalay, il Luxor, il Flamingo, il Venetian, il Caesar’s, il Bellagio… è un’allucinazione psichedelica o sono proprio sotto di me, inconfondibilmente tentatrici, che strizzano l’occhio all’ignaro turista? Le quasi quindici ore di volo certo non aiutano a mettere in fila i pensieri, eppure basta mettere piede fuori dall’aeroporto per venire risucchiati dal ritmo incalzante della dirty city. I taxi sfrecciano veloci, orde di turisti spaesati quanto me affollano i marciapiedi alla ricerca di un riferimento, mi guardo attorno per raccapezzare le idee e incrocio lo sguardo dell’addetto alla security dell’aeroporto che sorride sornione, a voler dire “Sì, amico, è tutto vero. Benvenuto nella terra di peccato, paura e delirio!”.

Salgo in auto. Mi lascio guidare dallo scintillio delle luci. Dieci minuti di freeway e mi ritrovo nell’ombelico del mondo: centinaia di persone affollano i marciapiedi al lato della strip. Studentelli in vacanza in cerca di alcol e ballerine, turisti orientali con le immancabili macchine fotografiche, pronti a catturare con i loro megaobiettivi anche il minimo battito d’ali di una mosca, quasi volessero inscatolare con quel compulsivo clic-clic-clic l’atmosfera folle che li circonda. Una folla si accalca attorno alla fontana del Bellagio, rapita dalle coreografie mozzafiato delle fontane. Mimi e artisti di strada che t’invitano a partecipare ai loro spettacoli. Una gigantesca Disneyland a cielo aperto, insomma. Gli americani la chiamano guilty pleasure, quell’attrazione sadica e un po’ colpevole verso questo mondo certamente finto, eppure così dannatamente reale nel suo trionfo di eccesso, di compiaciuta pacchianeria, nell’esaltazione del vizio che tanto ammalia i visitatori di questa città. “In fondo sono qui per questo” - penso tra me e me – “non si può dire di conoscere l’America, senza essere passati almeno una volta per Vegas”…

Parte così il mio pellegrinaggio dalla slot machine alla roulette, dal tavolo del blackjack ai giochi più incomprensibili, in cui le smorfie dei giocatori seduti attorno al tavolo, persi in quella successione di carte, dadi e fiche, ti fanno capire quanto, in fondo, un innocente passatempo da turista possa rivelarsi un boomerang per il portafoglio. Ma tant’è, tutto è concesso in questa terra del gioco, fuorché pensare al saldo della propria carta di credito (a quello si pensa la mattina dopo in hotel, ma è tutta un’altra storia).

Mi perdo nei meandri del Bellagio, cerco di trovare un senso alla fusion di architetture e stilemi, forse troppo difficile da affrontare dopo il terzo margarita. Meglio pensare ai getti di cioccolato fuso che alimentano la fontana ad angolo, agli stucchi neoclassici dei soffitti del Venetian, ai gondolieri yankee in cerca di qualche pollo da spennare.

La serata è piacevole, il tempo vola troppo in fretta e senza neppure rendermene conto mi ritrovo a fumare una sigaretta sul roof dello Stratosphere, guardando il sole spuntare dietro le montagne che cingono la valley.

Il secondo giorno scorre altrettanto velocemente, ma il pensiero è centrato sul south rim, il bordo del canyon per antonomasia. In meno di mezz’ora le valigie sono chiuse e caricate in auto, parte l’avventura. In poco tempo mi lascio alle spalle, in una nuvola di polvere, i lustrini di Vegas e le ballerine in minislip. Davanti c’è solo l’orizzonte, immenso. Tengo i finestrini abbassati per ascoltare il rumore delle ruote che macinano sassi, la strada è una sottile striscia di asfalto che si perde a vista d’occhio, proprio come nei film. Il tragitto che dalla Vegas Valley porta al Grand Canyon dura diverse ore, eppure faccio fatica a sentirle. Poco alla volta le basse dune di sabbia giallastra del deserto del Nevada lasciano il posto agli inconfondibili monoliti rossi dell’Arizona, il paesaggio si popola di saguaro, i cactus a una o più braccia che sono diventati il simbolo del West, di coyote, che passano guardinghi sul ciglio della strada, e di villaggi sperduti nelle distese sconfinate di sabbia, lontani anni luce dal tumulto delle metropoli o dalle luci acchiappaturisti del Nevada. Decido di fare una sosta poco prima di arrivare a Flagstaff, la città resa famosa dal mito della Route 66, e m’imbatto in una piccola tribù di Navajo diretta a Tucson. Il più giovane avrà meno di vent’anni, percepisce la mia curiosità e decide di togliere gli auricolari dell’immancabile ipod per scambiare qualche parola con me (io e un nativo americano, seduti in un diner anni ’60, a sorseggiare caffè americano… chi l’avrebbe mai detto?!). Mi dice di essere diretto a una fiera di artigianato locale a Tucson, ma approfitterà della circostanza per mettere piede in qualche club “cittadino”, fuori della riserva in cui vive. Scambiamo qualche parola prima di congedarci, lui monta sul suo pick-up bianco ed io mi rimetto in marcia verso il parco. Ricky, il commesso che lavora alla stazione di benzina, mi fa ciao con la mano, un po’ triste di veder andare via in un solo colpo gli unici clienti della giornata.

In macchina non faccio che pensare a una frase buttata lì dall’indiano durante la chiacchierata: “Libertà per me – mi dice sollevando lo sguardo dalla tazza di caffè bollente e aggrottando impercettibilmente la fronte – è chiudere gli occhi e sentire l’odore pungente del deserto dopo la pioggia”.

 

Arrivo al Grand Canyon National Park poco prima del tramonto. Sono stanco, ho macinato tante miglia, eppure l’idea di essere finalmente a un palmo dalla meta mi restituisce quella scossa di adrenalina di cui ho bisogno. Appena sceso dall’auto avverto il sollievo dell’imbrunire, l’aria è piacevolmente fresca anche se l’asfalto continua a emanare calore. Il sentiero che dal parcheggio conduce ai trail è breve, in pochi minuti guadagno il percorso principale che conduce alla gola; il cuore batte sempre più forte, l’ansia aumenta, provo a guardarmi intorno per cercare d’immaginare quello che mi troverò di fronte, ma la fitta vegetazione di cespugli che costeggia il bordo del precipizio sembra voler celare quell’incanto dietro un sipario naturale. Il tempo è scarso, il sole si sta abbassando sempre più velocemente e le montagne si colorano di rosso accesso, vivido, che quasi ti disorienta. Riesco finalmente a trovare il modo di scendere nello strapiombo. Mi calo con cautela giù per il bordo, le aquile planano lungo i costoni di roccia in attesa di uno sbuffo di vento, una corrente che le trascini verso il lato opposto. Mi arrampico velocemente sul grande masso che sporge nel vuoto. Attorno a me silenzio, interrotto timidamente dal vociare dei turisti in lontananza che tornano alle auto, e dai soffi di vento che trovano eco nelle insenature di roccia. Sporgo la testa per guardare sotto, seguire con lo sguardo gli arzigogoli perfetti delle stratificazioni, ma la vertigine del baratro mi redarguisce immediatamente sul limite delle possibilità umane: sei uno spettatore che si è fatto improvvisamente parte di qualcosa d’immenso, affascinante nel suo mistero; il Plateau di LeConte è sulla sinistra, Havasupai Point proprio di fronte a te, e in lontananza Fossil Bay e, in basso, Scorpion Ridge… un rumore improvviso mi risveglia dalla trance, mi volto di scatto e sorrido: un cervo femmina e il suo cucciolo erano incuriositi dalla mia presenza almeno quanto io lo ero per la loro. Un rapido contatto di sguardi e via! si perdono dietro chissà quale roccia. È il Canyon, il trionfo della natura in una delle sue espressioni più autentiche, affascinante di sera quanto e forse più del giorno, con la luce fioca che incendia le rocce e ne plasma le forme, con gli animali che più che intimoriti sono incuriositi dalla presenza di un estraneo come me.

 

I due giorni trascorsi nel parco volano troppo veloci, mi distacco da quel grandioso spettacolo della natura a malincuore. Eppure il deserto è ancora lì, pronto a sfidare la mia capacità di adattamento e di resistenza. Attraverso gole strettissime, mi arrampico su picchi di roccia sgretolata dal sole, cammino su zolle aride di terra che una volta erano fondali oceanici. L’afa si fa sentire, ma non mi do per vinto. Proseguo per valli nascoste, dove un tempo i ladri di mandrie nascondevano la refurtiva cercando rifugio dagli sceriffi, mi perdo tra i joshua tree delle vallate, i miei occhi si abituano poco alla volte alla violenza della luce e del vento, perché il deserto riesce a essere clemente solo con chi ne rispetta i ritmi e la vita. Sull’altro versante della contea di Las Vegas c’è la Death Valley. Tre ore di viaggio dall’ultimo barlume di civilità mi portano dritto all’Amargosa Opera House, un decadente complesso coloniale spagnolo di mattoni e calce. La sua ultima, squinternata proprietaria, Marta Becket, decise alla fine degli anni ’60 di rimettere in sesto le camere dell’hotel e adattare l’edificio sul lato nord-est a Opera House, allietando i suoi ospiti con spettacoli originali e vagamente hippie. Se siete tipi da Holiday Inn, scappate a gambe levate: questo posto o lo si ama o lo si odia.

Se avete deciso di restare, fatevi cullare dal fresco della notte sulla sedia a dondolo sotto il patio e ascoltate quanto hanno da raccontare queste pietre: storie di mercanti, trafficanti, ladri e imbroglioni, storie di cowboy, di hippie. Storie senza tempo. Io mi appoggio al pozzo nel centro del cortile, distratto per un attimo dalle urla delle ragazze svedesi che scorgono un serpentello sotto una delle auto parcheggiate (siamo pur sempre nel deserto, baby), e sorridendo mi fermo a osservare il cielo, lo stesso che un secolo e mezzo prima vedevano i pionieri messicani che mettevano piede per la prima volta in questo angolo poco ospitale di paese. Il silenzio, le stelle… mi ritrovo a pensare a ciò che mi ha detto il giovane indiano e per un attimo anch’io mi sento finalmente libero, e il mio cuore non può che sparpagliarsi nel vento.  

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