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Martedì, 5 Maggio 2009

I piccoli angeli del Kenya

Ovunque è un luccicare d'intensi colori. Il verde brillante dei manghi e delle papaie si fonde con il giallo maculato dei caschi di banane, col rosso fiammante dei pomodori, il viola intenso dei frutti della passione...

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Sono le otto e trenta di una mattina cocente. Per le strade della cittadina – risvegliata al finir della notte dal cantilenante richiamo dei muezzim - è tutto un viavai di gente, vivaci e sfreccianti tuk tuk - i tipici taxi a tre ruote - biciclette, vecchi autobus stracolmi di intere famiglie e pochi turisti. Ovunque è un luccicare d’intensi colori. Il verde brillante dei manghi e delle papaie si fonde con il giallo maculato dei caschi di banane, col rosso fiammante dei pomodori, il viola intenso dei frutti della passione. Variopinte bouganville si gettano a cascata dalla pietra corallina dei muri, si arrampicano come edera sugli alberi, strisciano nell’arida sterpaglia, brillando come ritagli di preziose sete disseminate da un mercante distratto. Sulle bancarelle, lungo i cigli delle strade, tessuti fantasiosi e oggetti in legno e saponaria dipinti di terra, di cielo e di tramonti africani attirano sguardi sfuggenti o ammirati e occasionali acquirenti. Dai rami più bassi di un albero del neem penzolano fantasiose camicie, jeans fuori moda, vaporosi abitini in raso e tulle per piccole principesse dalla pelle d’ebano.

Il vocio dei venditori si allontana e si confonde, gli edifici in muratura si trasformano in capanne inghiottite da una fitta e impenetrabile vegetazione, la strada svanisce e il furgoncino procede lento, rimbalzando su un fondo sconnesso, pieno di buche e di dossi. Il terreno, rame acceso, è asciutto e polveroso, evanescente come cipria. Serpeggiamo tra palme dall’altezza vertiginosa, mogani, possenti baobab dalle ossute dita protese verso un cielo di lapislazzuli. Miracolose fioriture rosso fuoco si accendono nel verde cupo del fogliame come luci e festoni d’insoliti addobbi natalizi. Neri sacchetti di plastica, abbandonati a terra, sfarfugliano e si gonfiano al minimo spostamento d’aria. Cartacce, contenitori, resti e brandelli di chissà quali oggetti tristemente adornano aridi arbusti, accenni d’erba riarsa. No, non è consentito risentirsi né darsi pena di fronte ad un’immagine tanto desolante, non dopo aver incontrato la muta disperazione negli occhi del bambino che solo, in mezzo al nulla, cerca tra i rifiuti qualcosa da mangiare.

Ahmed che ben conosce la sua terra, le sue privazioni e sofferenze non rallenta, in silenzio continua a guidare: qualcuno da qualche parte ci aspetta. Il viaggio prosegue in un vortice di pensieri, nelle lacrime che salgono agli occhi, nelle parole che rimangono impigliate nel cuore.

Quando finalmente ci fermiamo, è trascorso un tempo che non saprei dire. Ci accoglie uno spiazzo deserto, contornato da enormi e secolari manghi. Qua e là sbucano capanne di fango con tetto in makuti, foglie di palma sapientemente intrecciate. I primi a farsi avanti, spronandosi a vicenda, sono i bambini: alcuni, piccolissimi, camminano appena, altri, più grandi, dovrebbero essere a scuola, ma, pur desiderandolo come il più ambito dei giocattoli, sono costretti a rinunciarvi, perchè penne, quaderni e abbigliamento adeguato sono lussi che non possono permettersi. E poi nelle famiglie, sempre molto numerose, c’è bisogno di loro: ci sono i fratelli minori da tenere a bada e l’acqua da andare a prendere a pozzi spesso lontani svariati chilometri da casa.

Alla piccola folla che ci attornia si uniscono anche le donne, avvolte in allegri tessuti, i tradizionali kanga, coloratissimi e con i bordi percorsi da scritte in swahili. Gli anziani si trattengono a distanza. Ligi al loro dovere di custodi della comunità osservano ogni movimento, silenziosi e immobili.






Non faccio in tempo ad aprire una delle grosse scatole di biscotti che mi ritrovo catturata da un turbinio di tante piccole mani. Sono talmente tanti i bambini del villaggio, tutti con gli stessi grandi occhi spalancati e curiosi, tutti con gli stessi pancini gonfi e prominenti, che alla fine non riesco a ricordare a chi ho già dato i biscotti e a chi no. E non c’è modo di scoprirlo perché loro, non appena hanno ricevuto i dolcetti, corrono a nasconderli chissà dove e poi, come niente fosse, mi si ripresentano davanti per un’altra razione.

Una bambina talmente piccola che sembra una bambola, con un vestitino imbrattato di terra rossastra, non riesce a farsi largo tra la folla. Inseguita da tutto il gruppetto, la raggiungo, mi chino e le metto un frollino nella minuscola manina. Lei mi guarda con due occhi immensi in cui sembra specchiarsi un infelice destino; a fatica si porta il dolcetto alla bocca e a fatica ne stacca un piccolo pezzo. Con sgomento mi accorgo che non riesce a deglutire e tutto le scivola lungo il mento e sul davanti del suo sudicio abitino. Mi si mozza il fiato, un grido mi si ferma nella gola, e tutto intorno a me diventa pietra.

La crudele grandezza della miseria ha il potere di farci sentire piccoli, infinitamente piccoli e insignificanti. Di fronte ad una bimba che non ha più nemmeno la forza di masticare un biscotto, il senso delle cose, della vita stessa muta per sempre. Ogni certezza cade nel vuoto, l’anima non trova ragione e anche se a volte, al ritorno nel nostro patinato mondo, quel che i sensi han percepito sembra un po’ più lontano, niente e nessuno può convincerti a tornare indietro, a far finta che nulla sia accaduto.





Mi rialzo e non so che fare. Un ragazzino mi prende per mano e mi allontana. Con un semplice gesto m’invita a sedermi su un lungo e grosso tronco poggiato a terra: tutti hanno ricevuto riso e farina ed è arrivato il momento dei festeggiamenti. Un’anziana donna del villaggio mi si avvicina. I suoi occhi scuri e brillanti come perle di lava guardano dritto nei miei. Sul suo nobile volto, scolpito dal tempo e dal vento arido della sua terra, non c’è quasi espressione, eppure in qualche modo intuisco che ha deciso di accettarmi in questo suo mondo. Le offro gli ultimi frollini rimasti, lei li accetta e il patto è suggellato. Non una parola, non un sorriso e si allontana con l’incedere incerto della sua età. Due ragazzi cominciano a suonare su di un grande e rudimentale tamburo e su una tanica di latta schiacciata e arrugginita. Ritmi tribali si susseguono senza sosta, memorie antiche che riempiono lo spirito di una lontana esistenza. Le donne danzano ed emettono suoni che sono la voce stessa della natura, ed è come se ad un tratto mi ricordassi di una vita mai vissuta. Pian piano i bambini mi raggiungono e mi si siedono accanto regalandomi con i loro intensi sguardi pezzi di un cielo che non ha eguali. Accanto a questi piccoli angeli dalle ali spezzate mi sento persa e ritrovata, felice e rattristata.

Altri due occhi, furbetti e saettanti, sbucano da dietro un albero, strappandomi un sorriso, quel sorriso che ancora mi accompagna in ogni mio viaggio in questa meravigliosa terra, viva e toccante, appassionata e vera come nessuna.


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