RACCONTO
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Mercoledì, 20 Maggio 2009

Grande e' la confusione sotto il cielo: Kashgar.

Arrivare da Urumqui a Kashgar rende la testa leggera. Acquosa. Ore di autostrada su un pullman, che appena passato il casello inizia a sfrecciare, pronto a raggiungere l'aria increspata dell'orizzonte, che evidentemente corre più di noi.

Concorso Storie Vagabonde

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LATO B

Raccontare un viaggio è come farlo una seconda volta.

Se hai già letto questa frase, sei al lato B (e puoi saltare il paragrafo che segue). Se è la prima volta, ti riassumo l'inizio di questo viaggio lungo l'antica via della seta: sono arrivata a Pechino, e subito ho preso un aereo che mi ha portato ad Urumqui. Lì è iniziato il mio viaggio in una regione poco conosciuta dell'Asia Centrale, il Xinjiang o Turkestan Orientale. Una guida locale e i miei occhi mi hanno fornito informazioni che sgretolavano tutto il bagaglio di idee che avevo portato da casa. Questo smarrimento ha dato vita al mio incontro con l'Asia.


Arrivare da Urumqui a Kashgar rende la testa leggera. Acquosa. Ore di autostrada su un pullman, che appena passato il casello inizia a sfrecciare, pronto a raggiungere l'aria increspata dell'orizzonte, che evidentemente corre più di noi. Poi all'improvviso ci fermiamo, to take a picture or toilet. Ma la sosta bordo strada è davvero lunga, e chiacchierando con l'autista scopro che siamo fermi per recuperare il tempo della corsa, perché se arrivassimo al casello d'uscita in anticipo capirebbero che chi guida ha ceduto alla tentazione di mangiarsi questo rotolo d'asfalto che spacca in due un deserto continuo e capace di stordire. Lo stipendio di un mese se ne andrebbe per la multa, quindi meglio godersi l'attesa.

Marco Polo aveva diciotto anni quando arrivò con la sua carovana a Kashgar, era malato e stanco. Non fosse stata una città così densa, forse avrebbe avuto voglia di tornarsene indietro. Per prima cosa chiese di poter vedere il bazar, che era ed è il più grande dell'Asia Centrale.

Per entrare nel bazar le scelte sono numerose: oltre alle quattro entrate principali, ce ne sono di laterali che permettono di passare dal viavai della strada al cuore del commercio, senza introduzioni. Questo mercato coperto può essere raccontato solo come un caleidoscopio di pashima, hennè sfuso, boccioli di rosa essiccati ottimi come infusi, tè e spezie in sacchi di juta sformati dal peso, piramidi di radici di zenzero, foulard di seta che fa appena in tempo ad essere percepita tra le dita e poi scivola via, colbacchi, mensole stracolme di pani tondi, ceste di uva e meloni, che anche da lontano fanno venire voglia di essere assaggiati; ogni banco ha una calcolatrice che viene tirata fuori appena i venditori si accorgono di voi, vi vengono appresso digitando i prezzi in yuan e immediatamente convertendoli in dollari; gli strumenti musicali da pizzicare, tamburellare o suonare con l' archetto, i gioielli d'argento e lapislazzuli, zaffiri, ametiste e ambra, gialla scura, come sabbia e miele uniti insieme; i dolci impilati secondo ordine di colori, forme e pastosità, in ciotole d'acciaio, i cappelli di velluto liscio colmi di specchietti e ricami, le statue di Buddha di varia obesità e posizione, di giada, plastica, caolino; sfere in cofanetti di cartone compresso, che fatte scivolare sulle mani tintinnano, scacciando ansia e favorendo la concentrazione, bacchette per il riso e i noodles, sfuse, in preziosi astucci di seta, o in set ciotola-teiera-tazza not expensive, stampe arrotolate, tappeti. C'è anche un dentista, con tanto di cartello esplicativo all'entrata.

Per ogni attività è consigliato contrattare. Non per dimostrarsi avari, ma perché il saliscendi dei prezzi fa parte dell'acquisto e, in un certo senso, il commerciante se lo aspetta. È uno scambio di idee e gesti, travestito da espressioni di reciproca disapprovazione. Accettare subito il primo prezzo che vi viene detto, vi farà apparire distratti e poco interessati all'oggetto che comprate. Può succedere che durante il gioco al ribasso che condurrete, le espressioni di chi vi è di fronte appaiano colme di disprezzo e sbigottimento: fate lo stesso, più un po'. Alla fine ci si stringe la mano, tra reciproche risate.




In mezzo al deserto del Taklamakan, c'è questo snodo per genti e merci; gli antichi caravanserragli che davano riposo a mercanti e bestie, sono appena fuori la città di Kashgar. Come la moschea Idkah. Miniature e cupole con decorazioni a mosaico che riflettono la luce: un luogo sacro assediato dal sole.

La Kashgar di adesso è un reticolato antico di case a due piani, costruite con la terra cruda. I balconi sono arricchiti da verande di legno, intagliato nel dettaglio, con forme che ricordano certi arabeschi dalla semplicità e bellezza disarmanti. Si sale e scende, per questa cittadella dai vicoli stretti, che sfociano uno nell'altro, senza rendere possibile identificare la strada maestra. Girando l'angolo, all'improvviso, arrivano dei bambini, che mi coinvolgono in una risata istintiva che non ha bisogno di lingue per comunicare. Si dimenticano in fretta di me e tornano a giocare, portando a spasso dei sandali che a ogni passo sollevano un po' di polvere dalla strada. Continuando a camminare, in lontananza, sento l'eco di una voce femminile e poi ancora quelle risate di bambino, e i passi veloci. Mi ricordo di quando invece del pisolino pomeridiano, anche io sfidavo la canicola e mi aggiravo nelle vicinanze di casa: una libertà col guinzaglio, che è uno dei doni dell'essere bambini. Mai così lontano da avere paura, ma comunque in esplorazione.

A Kashgar sono numerosi i posti dove fermarsi a prendere un tè, accompagnandolo magari con uno spiedino di carne d'agnello. Per bere del tè fumante, con più di quaranta gradi, devi fidarti della saggezza di chi quest'abitudine l'ha creata. Anche se alla prima sorsata il corpo implora qualcosa di fresco, poi la temperatura si assesta e inizi a gustare il sapore dell'infuso. Il tavolino di questo piccolo locale è di plastica bianca, così come lo sono le sedie, ed è riparato dal sole attraverso una veranda di legno. Tutti i tavoli sono disposti intorno a quello a cui è seduta la proprietaria. Gestisce l'attività da sola e tiene la cassa, un fascio di banconote arrotolate, nelle tasche di un vestito ampio e lungo fino ai piedi. Penso che sedersi e lasciare che il tempo passi, guardandosi intorno, ascoltando i suoni e sorseggiando il tè, può essere il modo più vicino alle tradizioni locali di passare i pomeriggi.




Ma anche le serate. Con la luna piena, esco dall'albergo e vado a fare due passi. Le strade sono illuminate appena, ed è difficile dire se faccia più luce la luna o i lampioni sporadici. Ciondolando, noto che fuori dalle case sono in molti a sdraiarsi su dei letti che invece dl materasso hanno strati di tappeti. Godono del fresco e della calma.

Ai lati della strada ci sono alberi di gelsi, pieni di frutti maturi. Non cedere alla tentazione è impossibile.

Così ne mangio un po' soffiandoci sopra prima, come a scacciare le impalpabili precauzioni alimentari che mi ronzano in testa.

Tornando nella stanza apro la finestra e mi siedo sul davanzale. Sul taccuino appunto una poesia di Kavafis.

Itaca ti ha dato il bel viaggio,

senza di lei mai ti saresti messo

in viaggio: che cos'altro ti aspetti?


(riavvolgere il nastro.)


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