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Giovedì, 11 Giugno 2015

Di venerdì. Al-Quds.

Questo è il secondo, ultimo racconto gettato su word su una visione itinerante, presa, della Città Santa. Redatto per una newsletter di lavoro pure questo, lo pubblico qui. Per le amiche, per gli amici in viaggio.

ARTICOLO DI

CaffèOvunque

Il capolinea dei minibus bianchi e verdi che attraversano le terre di mandorli verso Ramallah e Nablus è in discesa, su una piazzetta, uno slargo polveroso e pieno di buche. Alcuni veicoli sono evidentemente fermi da un po'. I finestrini crepati, senza tergicristalli, le porte a libretto bloccate e, all’interno, solo pochi sedili instabili. Abbandonati e sbiaditi i bus, come i rifiuti ai lati del selciato. Lattine di Pepsi accartocciate e bucce di arance fresche, sacchetti di plastica ondeggianti quando s’alza il vento khamsin, e involucri di caramelle colorati. Gerusalemme Est è rattoppata e sabbiosa. Si continua a scendere, tra banchetti di giocattoli, radioline usate e tavolini ricolmi di piramidi di pompelmi. Mercanti di rose che, quando ci si avvicina ai carretti, sbucano dal nulla. Ma anche tanti fiori, quelli gialli, piccolini, spontanei che forzano timidamente le mura del Garden Tomb. Un delicato profumo di rosmarino. A sinistra dell’insegna kitsch che domina il primo piano di una pericolante quanto incantevole palazzina liberty, un ingresso incoronato da bouganville rosso vivo invita ad accedere al luogo, un’altura, che una parte dei Cristiani ritiene essere il posto alternativo al Santo Sepolcro, il vero Golgota, appena fuori le mura della città vecchia. Un giardino di silenzio, una serpentina di vialetti di glicini e aiuole simmetriche, amministrato da un’associazione britannica efficiente e rigorosa.

La Porta di Damasco è al di là di Sultan Suleiman Road, uno stradone che a destra spinge in salita verso un piccolo palmeto quasi nella parte moderna della città, tutt’attorno le mura. In basso, lo stradone scende incurvandosi alla base del Monte degli Ulivi, verso il piccolo e suggestivo Getsemani. Bab el-Ammud, la Porta di Damasco. Una gradinata ad anfiteatro raggiunge il suo maestoso ingresso. Venditori di scarpe di seconda mano e banchi di pane coperto di sesamo nero occupano gran parte delle scalinate. L’accesso alla città vecchia è scuro, un paio di pergole di cambiavalute e un vicoletto che elude la folla; una curva a gomito a destra e si apre il ripido bivio del mercato arabo. Cassettine di fichi d’india, datteri caramellati e tante varietà di dolcetti triangolari glassati e, biforcazione, si incrociano ebrei ultraortodossi vestiti con cappotti neri o color crema, con cappelli di varia fattura e dimensione. Avanzano spediti verso il Muro Occidentale, Kotel, oppure in salita, di ritorno verso Mea She'arim, il quartiere dove il tempo si è cristallizzato.

Lunghi abiti femminili in vendita coprono quasi del tutto la vista del cielo di Al-Quds. Foulard a scacchi e improbabili t-shirt issate svolazzano lungo le semiarcate delle vecchie palazzine tra troppe insegne di ostelli. Tante saracinesche abbassate. E’ presto per una città che si addormenta tardi. Le pietre chiare lastricano le stradine e ricoprono le mura. Gatti appollaiati sui gradini delle botteghe e tante colombe nelle nicchie tra i palazzi e sui davanzali delle finestrelle aperte. Un viavai di giovani che traghettano, in bilico, eleganti tazzine di caffè da una bottega all’altra. Nugoli di viaggiatori invadono le viuzze del mercato; alcuni paiono atterrati da poco a Tel Aviv o Amman, diretti verso Gerusalemme, senza sosta in hotel, per non perdere la magia delle mirabili mattinate di Sion. Altri viaggiatori, pellegrini, si radunano presso una delle stazioni della via Dolorosa, lungo un percorso congestionato, in un tempo scandito da invocazioni personali e preghiere collettive. Sempre sulla via Dolorosa, al lato opposto del Sepolcro, in un contesto improvvisamente luminoso e ampio, si raggiunge il Convento della Flagellazione, un chiostro e un porticato colmi di gerani bianchi e tutt’attorno roselline rosse, e un silenzio severo, paradossale se si cerca di immaginare storicamente l’evento del giudizio. In antitesi al sottofondo del Santo Sepolcro, buio e dominato da un incessante bisbiglio, dai lampi degli scatti fotografici, dal vociare incomprensibile delle guide. Ma si deve proseguire. Non verso est, verso il Monte, non verso ovest, verso l’ornato monastero di Deir as-Sultan. Né verso sud, verso Al-Aqsa. Si deve raggiungere il cielo di Gerusalemme. Raggiungere innanzitutto l’angolo dove sosta un carretto smaltato. Un baffuto palestinese urla per comunicare col vicino di bottega a tre passi da lui. Per abitudine, ma è obbligatorio fermarsi: un inimitabile hummus, una focaccia bruciacchiata e un profumato succo di melograno appena spremuto. Tutto take away. Gli ambulanti hanno sempre voglia di ascoltare le storie d’Occidente mentre tagliano in due altri melograni e qualche limone. Un esotismo al contrario. La preghiera di mezzogiorno del venerdì è ormai conclusa e in tanti rientrano a casa. Non si sente il richiamo del muezzin di Al-Aqsa. Il vociare rimbombante, il suono dei corni di qualche festoso Bar o Bat Mitzvah, i cori dei pellegrini e le preghiere in russo degli ortodossi coprono il canto dal minareto. 

Le scalette nascoste, il mezzo per raggiungere la meta del venerdì. Le scalette per i tetti di Gerusalemme, un luogo di pace nella città della pace. I gradini arrugginiti, un po’ ripidi, in un angolo tra Habad Street e St Mark's Road, conducono ai tetti di pietra e lamiere della città vecchia, all’incrocio tra i quartieri che non si distinguono più da lassù. Alcuni palloni sgonfi testimoniano partite improvvisate. Un penetrante profumo di spezie ricorda che domani è shabbat, tutto si fermerà. Una cisterna verso Oriente. Ecco il palco privilegiato, un po’ scomodo, per vivere lo spettacolo del tramonto indaco e arancio. Il sole illumina gli ulivi secolari di Getsemani, la Basilica della Dormizione di Maria. E’ già al buio lì in basso, ai piedi del Monte degli Ulivi, con un anonimo ingresso che funge da campetto di calcio per i bambini del quartiere arabo. Il tramonto lento invita le lucertole e ricoverarsi nelle crepe delle pietre luccicanti. L’oro della Cupula della Roccia è abbagliante. Più a sud non si riesce a scorgere l’arido spettacolo del deserto di Giuda, ma sulla destra è ben distinguibile la nuova Gerusalemme.

Dai tetti la gente non si vede, s’immagina; la città vecchia, i suoi quartieri, la spianata delle moschee tra poco saranno coperti d’ombra, l’ocra dei lampioni ritaglierà coni sul lastricato e i neon delle arterie fuori le mura accecheranno il traffico congestionato. S’immagina l’affollarsi ordinato per la preghiera di Maghrib, i chassidim svelti verso casa, carichi di cibo, sfuggenti allo sguardo. I commercianti chiuderanno i magazzini dietro sottili porte di lamiera; s’immaginano i viaggiatori anglosassoni stazionare all’aperto dei chioschetti appena fuori le mura a cercare di capire come mangiare i falafel bollenti, i carretti con pneumatici di bici riciclati faticosamente in salita verso est e i bus stracarichi che riporteranno, verso casa in Palestina, i lavoratori con permesso temporaneo. Alle frontiere i giovani militari continueranno a sorvegliare gli accessi. S’immaginano gli ultimi acquisti nel traboccante mercato di Mahane Yehuda, nella zona ebraica. Tra un ramo e l’altro del mercato coperto, numerosi papà cintati in tallit qatan e piccoli in divisa scolastica s’affretteranno per accaparrarsi le ultime trecce di pane e frutta secca. I mercanti staranno gridando i prezzi delle offerte di fine giornata. S’immagina che gli autisti di taxi urbani, cristiani e musulmani, si incontreranno, fumando, per una partita a carte su un improvvisato tavolo da gioco in plastica con sedie di fortuna, cassette di frutta lasciate agli angoli, in attesa di qualche forestiero da condurre in albergo. Forestiero, poi. Straniero. Ci si sente come se la si fosse sempre vissuta, la Città Santa. Come se intuitivamente si sapesse quale vicolo imboccare. A casa, in una dimensione ferma. E accogliente. Nel luogo dove è vero che l’arzigogolato tessuto sociale coabita la storia in un incompiuto, lento, diacronico, gioco di scatole cinesi. Salgono i fumi odorosi dalle finestrelle del quartiere ebraico, sale l’adhan più a Oriente. E’ solo venerdì. Un normale venerdì.

 

 

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