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Venerdì, 8 Aprile 2016

Come sopravvivere a tre delusioni culinarie targate Cuba

Oh voi italiani medi che in viaggio cercate l'orgasmo nel piatto: Cuba purtroppo vi deluderà. Ma se guardate nelle finestrelle ai lati della strada, troverete sempre una soluzione accettabile. Molto ma molto familiare.

ARTICOLO DI

gitanilla

A noi italiani, si sa, piace andare in giro per il mondo ad assaggiare cose. C'è un qualcosa di sadomasochistico nella nostra ansia da cibo, come se la cosa più importante del viaggio sia sopravvivere fino alle 20, parcheggiare il corpo al ristorante e provare tutto quello che sembra buono da addentare. Queste favole mangerecce però non hanno sempre un lieto fine: a volte lasciano l'amaro in bocca, a volte inchiodano al water. A Cuba, spesso non cominciano proprio.

 

Alcuni viaggiatori lo intuiscono: un popolo che da cinquant'anni non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena difficilmente saprà regalarti sapori da urlo. E si rassegnano. Altri, invece, pensano che il cenone di capodanno sia un momento immancabile persino a la Habana. E lo cercano. Complice un'agenzia che ci spinge nel locale più turistico delle Antille al modico prezzo di 40 euro a persona millantando un “tutto esaurito in città”, il 31 dicembre nasce una leggera psicosi da cenone. Ad alimentarla, sono certi italiani che con noi dividono il pessimo tour della città vecchia.

 

Qualche discussione c'è: 40 euro per andare alla Bodeguita del Medio ci sembrano troppe e decidiamo di andare all'avventura. Dopo un paio di mojito pomeridiani ci siamo quasi dimenticati del fatidico pasto. Ma l'italianità ti rimane attaccata anche quando la rifiuti e, passando davanti a un edificio diroccato, occupato e a modo suo molto romantico sulla via del ritorno, decido di fermarmi. Un bracista improvvisato mi invita a entrare e a dare un'occhiata al menu speciale a 10 cuc che propongono: antipasto, piatto principale, dolce. Entro in cucina accompagnata da Marisa e uno spettacolo mozzafiato ci si apre davanti: grassi pesci messi uno vicino all'altro su una grande teglia, maiale marinato dal profumino meraviglioso e altre leccornie che – pensiamo – se sono così belle da vedere sarà un piacere mangiare. Il proprietario/cuoco/occupante scopre che saremo in otto e tutto contento ci che che siamo i benvenuti. Prenoto per le 9.30, ma dice che per lui è meglio fare alle 10. Il posto ha un'aria decadente che mi sembra perfetta per la Habana.

 

Arriviamo puntuali alle 10 ed è tutto pieno, di tavoloni riservati neanche l'ombra. Si scusano, ma dovremo aspettare, perché hanno avuto più gente del previsto. Vediamo i cosciotti di maiale sfilare davanti a noi, vediamo bionde turiste intente a spinare i bei pescioni. Verso le 11 però ci sediamo e scopriamo che non è rimasto più niente, a parte del tristissimo pollo e della loschissima enchilada di pesce. Le guarnizioni, poi, sono intoccabili: riso e fagioli freddi, verza insipida. E lo impariamo a nostre spese: a Cuba, nel piatto, non è mai oro quello che luccica.

 

Lasciata la capitale, ci aspettano tre giorni di casa particular a regime di mezza pensione a Trinidad. Cosa c'è di meglio che stare in famiglia, per avvicinarsi alle tradizioni culinarie e ai modi di vivere della gente del luogo? Immaginiamo una lunga tavola conviviale, con la nonna intenta a spadellare in cucina e il nonno sul dondolo con il sigaro in bocca, i bambini che ci prendono un po' in giro e gli adulti che ci raccontano aneddoti. Ci fluttuano nella mente grasse aragoste caraibiche, vietate alla maggior parte della popolazione perché destinate solo a resort e ristoranti turistici: quindi ancora più succulente, perché acquistate illegalmente proprio per noi.

 

Invece veniamo schiaffati in terrazzo, su una tavola tutta per noi dove la proprietaria ci porta su piatti ormai freddi dopo tre rampe di scale. C'è l'immancabile riso e fagioli, fettine secche di carne e gamberi pieni di sabbia. Non c'è molta interazione con i proprietari, forse perché siamo tanti e in salotto non entriamo tutti, il cibo non è dei migliori e quindi dopo due cene metà gruppo opta per il ristorante. L'altra metà di noi resta e viene premiata con una cena conviviale sul tavolo in soggiorno a base di aragoste....troppo cotte. Ci avevano avvertito prima di partire: qui l'aragosta spesso non sanno cucinarla, e il risultato è un pezzo di gomma dal sapore di crostaceo da irrorare con una salsina piccante che, ahimé, non aiuta molto.

 

Lasciamo Trinidad, davanti a noi si stagliano i cayos paradisiaci della costa nord. Tre giorni di resort all inclusive che non entusiasmano molto gli animi, ma che ci fanno almeno sperare di accantonare l'ansia da ricerca di cibo. Già a Santa Clara le nuvole si erano palesate, minacciose, sopra di noi. Ma ora imbocchiamo il pedraplén, la grande strada che corre per 45 chilometri nell'oceano Atlantico, e davanti a noi il mare e il cielo si fondo in un unico colore: il nero. Arriviamo zuppi alla reception di Villa las Brujas, proviamo a esplorare il resort che, molto suggestivo, ci sembra sia sul punto di essere inghiottito dalle onde. All'ora di cena ci sediamo al ristorante con vista cavalloni e ci portano il menu: nell'all inclusive abbiamo diritto ad antipasto, contorno e piatto principale a scelta tra pesce, pollo e maiale. Siamo seduti letteralmente in bocca al mare, quindi ci sembra stupido non ordinare il pesce.

 

Arriva a pezzi, contornato da salse e verdure al vapore, duro come un sasso e abbastanza sfilaccioso. Ci vuole un altro pasto per capire che è surgelato e che possiamo anche osare un improbabile “filetto di pesce al prosciutto e formaggio” senza sentirci in colpa come dei vermi: lontani anni luce da quel mondo fatto di “non si mette il parmigiano sulla pasta con il tonno!” o “il pesce si tocca il meno possibile!”, ingurgitiamo rassegnati pollo e maiale, increduli di essere seduti davanti a una baia immacolata che pullula di pescioni e di non poterli avere. Per un momento immaginiamo che il brutto tempo abbia fermato la pesca, e che per questa ragione il resort sia dovuto ricorrere alle scorte surgelate. Poi invece mezzo gruppo va a cena in un paladar di Caibarién, la città a 45 chilometri da cui vengono tutti i dipendenti del cayo, e narra agli altri di enormi granchi, succose aragoste – sempre troppo cotte – e pesci freschi sulla tavola imbandita.

 

Siamo stati sfortunati? Forse. Ma questa molto probabilmente è la realtà, perché da queste parti di cibo ce n'è poco e finisce quasi subito. Si narra della bontà della cucina dell'Oriente di Cuba, pietanze particolari preparate con combinazioni di cocco, cacao e caffè tanto buone da farti dimenticare tutte le delusioni che hai dovuto trangugiare da La Habana fin qui. Ma se ci si ferma a metà dell'isola, come può un italiano medio sopravvivere alla cucina cubana? Semplice: mangiando pizza, che si trova sempre e ovunque.  

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