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Lunedì, 8 Dicembre 2014

Arrancando sull'asfalto vietnamita

E viaggiò per sempre felice, contento... Disilluso e accaldato! 

Un racconto di luoghi, sensazioni (piacevoli e non), ma soprattutto persone a cavallo di Nepal e Vietnam.

ARTICOLO DI

Matteo Stocchi

Domenica 6 luglio, Saigon

 

-Vuoi dirmi quindi che non hai mai tentato un viaggio in moto?-

-No-

Gli occhi color miele mi fissavano con un misto d’indifferenza e biasimo, mentre il sorriso sghembo preso in prestito dal protagonista d’una dozzinale pellicola d’oltreoceano non fece una piega.

-Sono più di millesettecento kilometri, sai?-

-Uhm, si-

Il caldo era opprimente, inesorabile, ed almeno esternamente inevitabile, dove anche il ripararsi all’ombra altro non era che un espediente assai futile, poiché in questo pezzo d’asia i colori ben più che sgargianti di tettoie, insegne, vetrine e quant’altro fungono da riflettori pressoché perfetti, permettendo all’implacabile sole di raggiungere ogni dove.

Anche a causa di ciò, l’insofferenza andava diventando un’avversaria sempre più ardua da fronteggiare.

-Hai almeno esperienza con una moto a marce?”

-No-

Niente da fare, nessuna delle mie risposte liquidatorie riusciva a porre fine a quella tacita paternale, resa ancor più goffa dall’alito pregno dell’alcool ingurgitato la sera prima. 

-E con la meccanica? Hai esperienza con quella?-

-Figurarsi-

Delle parole gli morirono in gola prima d’esser pronunciate, e dopo una pausa lunga interminabili momenti, fu l’indifferenza a farla infine, finalmente, da padrona.

L’alto figuro biondo che rispondeva al nome di Daan distolse il suo sguardo da me e lo diresse sulla vicina motocicletta nera, afferrandone con naturalezza il manubrio e facendo scorrere le dita sul tasto d’avviamento. Arrivò in tutta risposta un rombo sordo ed intenso che fece emettere al ragazzo un esclamazione di stupore, ed a me invece immediatamente capire che ciò, evidentemente, prescindeva la normalità.

Il gioco di gomito di Daan applicato all’acceleratore epurò il boato della moto, che danzando sull’incerto cavalletto laterale sembrava ora fremere nel volersi guadagnare la strada. Per quanto ridicolo possa sembrare, ciò finiva a discapito della carrozzeria, che troppo logora per condividerne l’irruenza sembrava continuamente essere sul punto di dissaldarsi.

-Bene, tutto a posto, e mi sembra anche di averti avvisato sugli accorgimenti da adottare giusto?-

Accorgimenti che consistevano in: Cambio d’olio non ogni cinque o seicento chilometri ma bensì ogni trecento, che rappresentava inoltre il limite massimo che il buon senso avrebbe indicato di non testare, e un chirurgico dosaggio della frizione in ambienti urbani, poiché volendo citare “alla signora piace sculettare, e se la indisponi troppo si ferma”.

-Assolutamente si, credo sia tutto- risposi senza esitazione.

-Non sei un tipo di molte parole, vero?-

-Generalmente no in effetti-

Che si fosse trattato di semplice tensione camuffata da un fare scostante? Sarebbe estremamente comodo giustificarmi in tal modo, ma la verità è che con il passare dei mesi, battendo le vie di questo mondo senza una compagnia stabile al tuo fianco, si diventa inevitabilmente selettivi sotto molti aspetti: Attrazioni di tuo interesse, posti da frequentare e, per l’appunto, individui con cui interagire.

Dunque non per togliere nulla al caro Daan e alla sua sicuramente più che interessante persona, ma quella volta decisi di passare la mano. 

 

Lunedì 7 luglio, Saigon

 

E’ ormai piuttosto frequente imbattersi in delle massime che spiegano, con eleganti quanto altisonanti parole, come basti semplicemente “concedere se stessi”, o anche “aprire i propri occhi”, per venire investiti da una miriade di emozioni nuove ed esaltanti, la cui intensità solcherà indelebilmente il nostro essere inducendoci ad essere individui d’una completezza totalmente differente.

Riferito almeno alla mia persona tutto ciò è vero solo in parte, poiché oltre all’ovvio prerequisito del dover adottare un atteggiamento propositivo, mi sono sempre trovato nella condizione del dover forzare un mio personalissimo blocco emotivo, nel lavorare più o meno duramente per rimuovere un fermo, che prendeva la banale forma della timidezza nel caso si trattasse del dover attaccar bottone con uno sconosciuto o, in questo caso, in un totale senso d’inadeguatezza nel dover battere centinaia di chilometri vietnamiti con un mezzo a me totalmente estraneo.

Anche la più ininfluente delle decisioni, come il decidere se fissare lo zaino al portapacchi in posizione orizzontale o se fargli seguire la linea della motocicletta per la sua lunghezza, o anche addirittura lo scegliere cosa mangiare per colazione, quella mattina aveva bisogno di una lunga ed ahimè il più delle volte inconcludente riflessione: la precedente era stata una nottata agitata, non riesco nemmeno a contare le volte in cui mi sono ritrovato a fissare, senza alcun motivo in particolare, lo spigolo del disastrato armadio presente nel dormitorio.

Partii infine con un misero frullato di mango nello stomaco, che altro non faceva se non aiutarlo a borbottare ancor più rumorosamente, e per quanto possa sembrare assurdo, non ho alcuna memoria di come posizionai lo zaino.

Ad essere onesti in effetti, questo non è affatto l’unico “cassetto vuoto” di quella mattinata.

Vorrei di fatti poter scrivere di qualche accattivante scorcio di quella lontana metropoli asiatica, di qualche buffo episodio inerente alla loro distorta concezione di scooter a due posti o di qualche profondo momento di contemplazione, ma la verità è che quelle prime decine di chilometri furono soltanto lo scattoso movimento del mio piede sinistro dedito al cambiare le marce, il frenetico roteare dei miei occhi mirato al carpire, se non addirittura nei casi più disperati a predire, le intenzioni di ogni singolo motociclista ed il quasi impossibile compito del riuscire ad orientarsi.

Perché no, non ero riuscito a trovare alcuna mappa stradale vietnamita, e volendoci inoltre accompagnare il fatto che il mio telefono non dispone di alcun servizio di localizzazione Gps, tutto ciò che avevo era un confuso ricordo della schermata di Google maps, risultato in seguito non inutile ma per giunta dannoso visto che quando per due volte ero convinto di dover svoltare a destra, la via corretta era quella di sinistra.

Reputo d’aver raggiunto il culmine della mia goffaggine in un distributore appena fuori città dove decisi che era giunto il momento di un pieno, decisione in cui anche l’idea di togliermi per qualche minuto da quell’enorme Tetris che qui prende il nome di strada ha avuto il suo peso.

La stazione era polverosa e confusionaria, come d’altronde tutto l’ambiente circostante, fatto semplicemente di grossi prefabbricati sprovvisti d’insegne e finestre, campi rossicci ed aridi votati al nulla ed agglomerati di lamiere arrugginite dove venivano svolti i più disparati mestieri, dal meccanico al dentista.  

Ero impegnato ormai da una trentina di secondi nell’intento di inserire la marcia neutra che con ostinazione continuava a nascondersi giusto dietro la seconda quando, con la coda dell’occhio, vidi il benzinaio guardarmi con condiscendenza ed invitarmi a scendere. Ebbene lui montò in sella, con due leggeri tocchi inserì la folle, aprì il serbatoio per poi riempirlo di benzina ed infine mi riconsegnò il manubrio.

Beh, posso almeno dire d’aver regalato qualche sincera risata all’anziana donna che aspettava dietro di me il suo turno.

 

La giornata era ormai giunta alla sua metà, e così come le ore del mattino avevano lasciato il posto a quelle pomeridiane, anche il deprimente grigiume periferico di Saigon aveva ceduto il passo ad un verde che non assaporavo ormai da giorni.

La strada, di una linearità rasente quella di un filo stante a collegare due punti, poiché chiusa da entrambi i lati da una gentile e rilassata foresta pluviale conservava un’intimità capace di trasmettere un nonsoché di familiare, di domestico.

Inoltre, non soltanto il traffico ma anche la presenza umana si era ridotta al minimo, limitata a degli sporadici punti di ristoro ai lati della carreggiata costituiti semplicemente da una ghiacciaia e da svariate amache fissate a dei pali.

Il vento misto ad una pioggia quasi impercettibile scivolava nelle forme delle mie nocche lavandone via lo sporco della città.

La maglietta indossata, ancora parzialmente bagnata dal battesimo monsonico ricevuto qualche decina di minuti prima, svolazzava libera scoprendomi parzialmente la schiena.

Si, dopo una mattinata trascorsa a lottare con motorini, macchine, camion e soprattutto con me stesso, avevo mosso il primo passo, e non potevo certo prevedere che proprio quel piede stava per esser pestato.

Due uomini in divisa, i cui toni verdi rimandavano più alla figura d’un comandante d’esercito piuttosto che a quella di un semplice poliziotto della stradale, mi fecero cenno di accostare.

Il primo, dalla figura più minuta e rilassata, teneva la paletta d’ordinanza e mi fissava in modo grave, mentre l’altro se ne stava impettito con le mani incrociate dietro la schiena guardando vacuamente il nulla, ignorandomi quasi come fossi un cane randagio.

Ricevetti quello che penso di poter definire una ramanzina in piena regola, anche se vuoi per il parlato in vietnamita, vuoi per il fatto che non credo davvero di star andando a velocità poi così sostenuta, non posso esserne totalmente sicuro.

O meglio, non potevo.

Ad ogni modo, pensai, mamma Asia insegna che questo tipo di situazioni conducono tutte ad un inevitabile epilogo, e portai dunque la mia mano alla tasca posteriore dei pantaloni così da poter prendere il portafogli. Sentii che l’uno stava nel frattempo dicendo qualcosa all’altro, ma non vi prestai molta attenzione.

-Devo pagare una multa?-

Multa, mazzetta, pedaggio ufficioso o checchessia.

Un braccio teso orizzontalmente con il palmo della mano rivolto verso terra: ecco cosa ottenni come risposta dall’ometto di fronte a me.

I suoi occhi si erano fatti incalzanti e la bocca serrata, e ad intervalli regolari imponeva nuovamente il braccio come per ordinarmi di fare qualcosa.

Il problema era ovviamente capire cosa. 

-Soldi? Volete dei soldi?-

Indicai più volte il portafogli ma non c’era niente da fare, per quanto incredibile potesse sembrare cercavano qualcos’altro.

Ebbi quindi l’istintiva idea di emulare la stessa posizione del braccio, anche se essendo un’azione totalmente priva di senso, temevo potesse risultare un atto di scherno.

Accadde quindi tutto in una frazione di secondo: Sostenendo ancora lo sguardo del piccolo uomo di fronte a me, non notai minimamente la bacchetta di canna, fino ad allora accuratamente celata dietro la schiena del secondo poliziotto, abbattersi violentemente sul dorso della mia mano aperta.

Nessun dolore (almeno nell’immediato). Nessuna parola. Rimasi semplicemente a fissare lo sguardo crudo del boia con un’espressione, ne sono certo, sbigottita ed incredula.

Fu infine proprio lui che m’indicò la strada davanti a me, invitandomi alla sua maniera ad andarmene. Almeno in quell’occasione la motocicletta si mostrò compassionevole accendendosi addirittura dallo starter, e me ne andai così a metà tra l’umiliato e l’indignato, non guardando nello specchietto.

Dannazione, non stavo affatto correndo.

 

Il buco nello stomaco avvertito fino a pochi minuti prima era stato sostituito da un crescente tumulto intestinale, e tutto grazie al bisogno impellente di risparmiare che l’aveva ancora una volta avuta vinta sul buon senso. Eppure ricordo chiaramente che il mio personalissimo campanello d’allarme contro il cibo scadente suonò quando vidi tagliare quell’anatra dallo strano color bordò, ma andiamo, stavamo parlando di un solo dollaro per un panino che avrebbe sfamato una famiglia, come dire di no?

Per mia fortuna comunque il dolore alla mano destra, ancora vivo e pulsante dopo all’incirca un’ora dalla crudele bacchettata, teneva piuttosto impegnato il mio cervello.

Mi trovavo nell’ennesima, e per quanto mi dispiaccia ammetterlo, scialba cittadina costruita a ridosso della strada, con costruzioni in muratura intonacate e non.

Seguivo involontariamente da qualche chilometro un tizio in giaccone verde militare in sella ad uno scooter rosso. Alla sinistra del mezzo, grossomodo allo stesso livello della marmitta, ondeggiava quella che sembrava la custodia d’uno strumento musicale, mentre due zaini erano accuratamente posizionati sul posto passeggero.

Al fine di rendere più chiaro il prosieguo della vicenda occorre ora precisare che in Vietnam i semafori sono leggermente diversi dai nostrani, poiché non si limitano al semplice verde giallo e rosso, ma mostrano inoltre i secondi rimanenti al prossimo cambio di luce. Trovandomi dunque a ridosso d’un incrocio e con ben cinque secondi di verde rimanenti non consideravo minimamente l’ipotesi di fermarmi, ma a quanto pare ciò era fin troppo azzardato per colui che mi precedeva, che decise per l’appunto di fermarsi.

Ora, non ho aperto il capitolo freni in precedenza, ma c’è davvero bisogno di spiegare che erano presenti pressoché per puro senso estetico?

Li pigiai entrambi con forza, l’anteriore ed il posteriore, in quello che metro dopo metro realizzai essere un disperato tentativo di non finire con l’investire il menestrello in giacca, ed alla fine riuscii con una rapida manovra elusiva sulla sinistra ad evitare il tamponamento, finendogli quindi di lato ad una distanza non maggiore di quindici centimetri.

Aprì la visiera mostrando degli appariscenti occhiali da vista neri ed uno sguardo gentile, seppur vagamente assente.

-Ciao-

Ed io che mi aspettavo una reazione polemica.

-Ciao, perdonami ma non ho ancora molta confidenza con questa moto, non volevo venirti addosso-

-Dovresti stare attento, è la prima volta che guidi in Vietnam?-

Il suo inglese era tutto fuorché fluente, ma non trovavo grosse difficoltà ad andare oltre il suo forte accento orientale e la sua peculiarità nello strascicare le vocali.

-Ad esser sinceri è la prima volta in assoluto su di una moto-

-Oh mio dio!- Esclamò divertito.

-Credo sia meglio spostarci di lato, il semaforo sta per tornare verde-

Una volta accostati ci togliemmo entrambi i rispettivi caschi e dei lunghi capelli neri gli caddero sulle spalle, anche se più di ogni altra cosa erano i suoi singolarissimi baffi ad incuriosirmi.

Una ventina, non dovevano essere più di una ventina di peli ispidi che gli contornavano gli angoli della bocca, puntando tutti verso terra.

-Il mio nome è Hau-

-Molto piacere, Matteo. Sei Vietnamita?-

-Si, sto andando a casa, e tu?-

-Italiano, sto andando ad Hanoi-

Esclamò qualcosa di incomprensibile e puntò il suo indice contro la mia motocicletta.

-Con quella?!-

Nessun “pizza, pasta, mafia”? Davvero curioso.

-Si, questo è il progetto, e sei pregato di non demotivarmi poiché non ce n’è alcun bisogno!-

Dovetti ripetere la frase per fargliela afferrare, poi infine rise. Rise di gusto, con la naturalezza di un bambino, battendo un pugno sul contachilometri del suo scooter. Mi ritrovai a sorridere.

-Stai andando a Da Lat?-

Risposi con un cenno della testa. Da Lat è una piccola cittadina nello striminzito entroterra vietnamita di cui tutti parlano un gran bene, nonché obbiettivo dichiarato della giornata.

-Bene, allora andiamo insieme-

-Ti seguo-

 

Quando arrivammo alle porte di Da Lat, nel tardo pomeriggio, ormai tutta l’adrenalina scaturita dall’idea del mio primo giorno di viaggio in moto si era esaurita, lasciando spazio ad una profonda spossatezza. Avevo inoltre trascorso le ultime due ore a saltellare sulla sella della motocicletta, talmente inadatta a viaggi a lungo raggio che aveva appiattito il mio fondoschiena al punto tale da poterlo confondere con la schiena stessa.

Il sole era stato oscurato ormai da un po’ da dense nubi pregne di pioggia, e non era certo questa la novità visti i tre improvvisi scrosci d’acqua ai quali avevo dovuto far fronte nel corso della giornata, quanto piuttosto un freddo che non credevo avrei sofferto qui.

Ci fermammo in prossimità di una casa alquanto sfarzosa fatta di legno e mura bianche, ed Hau si voltò verso di me.

-E’ un problema se prima di trovare un ostello passiamo da una persona che conosco?-

Ero fradicio al punto che la maglietta era ormai una seconda pelle, infreddolito da battere i molari e stanco tanto da rilassare i muscoli del polso e dare quindi gas ad intermittenza. Tutto ciò che avrei voluto fare era prendergli la testa tra le mani ed urlargli “si!” in faccia.

-No, figurati, ma preferirei non presentarmi in questo modo in casa d’altri-

Dopo alcuni attimi d’esitazione sembrò comprendere.

-Bene, aspetta qui un minuto allora-

Lo guardai accavallettare il suo scooter e quindi muovere i primi passi verso la costruzione. Notai che la sua statura non era poi così importante, ma sembrava comunque un tipo piuttosto robusto. Poi i miei occhi esigettero riposo e si chiusero.

Non riesco a dire quanto tempo impiegò nel tornare, so soltanto che mi ritrovai la sua faccia divertita ad un palmo dalla mia.

-Sveglia! Abbiamo un invito a cena per domani-

-Fantastico, possiamo andare allora?-

Spero abbia perdonato la deficienza d’entusiasmo.

-Si però anche tu dovrai cucinare, le ho detto che sei italiano-

Mi aspettavo una risatina ironica, un sorriso beffardo, o qualsiasi cosa che potesse lasciarmi intuire lo scherzo, ma tutto ciò che vidi fu una faccia piatta come un’asse da stiro.

-E perché questo dovrebbe presupp… Ok, nessun problema, farò tutto quello che vuoi, però andiamo ti prego-

Avrei dovuto avvertirlo che avremo dovuto aggiungere un posto a tavola, ma anche solo esistere era una tal fatica in quel preciso frangente, quindi mi ripromisi di informarlo a riguardo più tardi.

 

Martedì 8 luglio, Da Lat

 

Ben poche cose sono peggiori dell’alzarsi alle cinque e mezza del mattino, e tra quelle c’è sicuramente l’alzarsi alle cinque e mezza del mattino sapendo di dover indossare delle scarpe completamente fradicie.

Ebbi un sonno profondo e senza sogni, a quanto pare la stanchezza l’ebbe vinta su quello che era sicuramente uno dei materassi più rigidi che io abbia mai provato in vita mia. Non che mi potessi lagnare, del resto alloggiavo in un ostello che per la modica cifra di quattro dollari a notte assicurava un letto e la promessa di un’abbondante colazione, ed inoltre il dormitorio era completamente vuoto. Nel letto accanto al mio Hau aveva trovato il modo di utilizzare la propria coperta, oltre che nell’ovvia maniera tradizionale, come una specie di strano turbante che lasciava esposti solamente naso e bocca.

Ed i baffi ovviamente, come si potrebbe non soffermarsi su quei baffi.

Una volta uscito la morsa attanagliante del freddo mi costrinse a dei forzati secondi di contemplazione del nulla, anche se a posteriori devo riconoscere che non era niente di così terribile, ma credo il mio corpo fosse ormai troppo abituato al clima tropicale.

Il cielo era plumbeo, e così temevo sarebbe rimasto per tutto l’arco della giornata, ma perlomeno la pioggia sembrava averne avuto abbastanza.

Due, tre pedalate e la moto rispose tossendo ed annaspando, ma ingranata la prima sembrava essere in grado di andare.

Sembrava, per l’appunto.

A poco più di un chilometro di distanza la catena si spezzò, e dopo un doveroso calcione al parafango posteriore di quella trappola nero opaco, dovetti per forza di cose parcheggiarla davanti a quello che sembrava un ristorante o qualcosa di simile.

Ricapitolando: alzata alle cinque e mezza del mattino, scarpe pregne d’acqua e più di un chilometro di strada da farsi a piedi per tornare in ostello.

Nota positiva fu l’inaspettata gentilezza di Quy, giovane gestore dell’anche giovane ostello che senza alcuna esitazione mi prestò la sua moto. Mi domandai se tanta disponibilità derivasse semplicemente dalla sua persona o piuttosto dall’entusiasmo dell’aver aperto quella che doveva essere la sua prima attività, ma realizzai poi che era decisamente troppo presto per certi ragionamenti.

Essendo già in ritardo, mi guardai bene dall’avvertirlo che quella sarebbe stata la mia seconda volta su una moto a marce, ma fortunatamente non ci furono spiacevoli conseguenze alla mia inesperienza.

Arrivai alla stazione degli autobus senza staccare per un singolo istante gli occhi dalla strada, e questo sia perché ero pienamente consapevole che avrei avuto tutto il tempo di godermi la città, sia ovviamente perché quel mezzo non era mio.

Puntai dritto alla sala d’attesa, e giusto oltre la prima fila di seggiole vidi quel familiare ciuffo castano ergersi dritto e fiero.

-Non immagini nemmeno i problemi che mi hai causato- Dissi.

Lei si voltò, sorridendo.

 

Kathmandu, Domenica 19 maggio

 

Strinsi la mano sulla ringhiera e presi a pensare.

Appena una settimana prima a quella stessa ora della mattina, stavo affrontando uno dei tratti più duri di quello che è il percorso per raggiungere il campo base dell’Annapurna. Si tratta in soldoni di una lunga serpentina di scaloni la cui ripidità rasenta spesso il verticale, che si snoda su per il crinale di una montagna la cui forma, posso giurarlo, sembrava ricalcare quella di una colossale onda pronta a sopraffarmi. Ed io ero lì, a spingere il palmo della mano contro il mio stesso ginocchio per guadagnare un gradone, e poi un altro e un altro ancora. Non c’era fatica, non c’era il voluminoso zaino, non c’erano le scarpe che cominciavano ad averne abbastanza e non c’era la maglietta intrisa di sudore. C’era solo quello che avrei potuto vedere dalla sommità e un minimo pensiero a quello che avrei potuto vedere il giorno dopo. Nient’altro.

E ora invece, pensai, cosa c’è?

Dietro di me c’era una rampa di scale (per intenderci, non più di una decina) che mi ero guadagnato con gemiti e silenziose imprecazioni, ce n’era un’altra di fronte, c’era il mio zaino che sembrava aver gettato l’ancora e c’erano le mie ginocchia, o per meglio dire ciò che ne rimaneva, che ad ogni passo emettevano un suono simile a quello di un pestone su dei rametti secchi.

Ah sì, oltre a questo c’era anche una ragazza, di cui mi accorsi soltanto quando ci incrociammo. Indossava dei jeans aderenti e una canotta bianca che metteva in risalto una linea snella e minuta, mentre il suo viso era completamente coperto da un covone di capelli castani con del biondo alle punte.

Quasi completamente in effetti, poiché riuscii a intravedere degli occhi di un verde vivo.

Ad ogni modo, non sono né il classico animale sociale che sente il bisogno di salutare chiunque né un navigato Don Giovanni, ma furono piuttosto le silenziose scarpinate solitarie dei giorni precedenti a spingermi fuori il saluto di bocca.

-Ciao-

Nessuna risposta e nessun cenno, lei si limitò con noncuranza a proseguire nello scendere la rampa di scale.

Che non mi avesse sentito era fuori discussione, quindi conclusi che si dovesse trattare della classica sindrome della ragazza piacente, quella cui tutti i ragazzi del mondo finiscono inevitabilmente per fare quella corte di cui lei è ormai così tediata, e dunque anche un semplice “ciao” assume a suo avviso le sembianze di un abbordaggio in piena regola.

In tutta sincerità, poco m’importò.

Mi trascinai su per gli ultimi scalini e raggiunsi finalmente il dormitorio, che distribuito su tutto il piano era segmentato in due stanze giallognole aventi il rispettivo bagno. La moquette bordò odorava di polvere e vernice, e mi sembrò dunque piuttosto pretenzioso il cartello affisso all’architrave della porta d’ingresso “togliersi le scarpe, mantenete l’ambiente pulito”. Tuttavia, visto il mio ormai elastico concetto di pulizia, decisi di non fare lo schizzinoso e procedere scalzo.

Appena entrato, ricevetti un fugace quanto disinteressato sguardo da un ragazzo, l’unico presente, che stava oziando disteso nel letto a gambe accavallate. Adagiai il mio zaino a terra e mi rivolsi a lui.

-Scusami sai per caso quale di questi letti è libero?-

Dovetti attendere alcuni irritanti secondi per una risposta.

-Il mio no-

E dovetti mordermi la lingua per altrettanti irritanti secondi.

Non era davvero il caso di essere scontrosi nel primo giorno d’ostello, soprattutto perché contavo di spenderci il tempo d’attesa del visto indiano.

Scelsi un letto a caso e presi a disfare il mio bagaglio, e nel frattempo mi ritrovai anche a mandargli delle occhiate. Le sue fattezze sembravano indù, con occhi e capelli di un nero corvino e un incarnato sui toni del marrone, ma il suo inglese mi era parso fin troppo buono, e già una volta mi ero trovato a confondere un fiero purosangue britannico con un indiano.

Per inciso, il tizio in questione non la prese per niente bene.

-Inglese?- Chiesi.

-Cosa te lo fa pensare?-

-Direi gli occhi azzurri, ma vada per l’umorismo-

Si prese alcuni secondi per rispondere, secondi che impiegò anche per alzarsi dal letto e mettersi in piedi. Non era né basso né alto, e visti i suoi logori jeans chiari arrotolati fin sopra le caviglie soltanto un lieve accenno di pancia lo differenziava da una moderna rivisitazione Bollywoodiana di Oliver Twist.

-No, indiano. Tu? Spagnolo?-

-Italiano-

-Senza offesa, ma la odio la fottuta Italia-

E sorrise.

Ammaliante, accattivante, scaltro, profittatore: potrei riempire due intere pagine con aggettivi su aggettivi eppure non riuscirei comunque a cogliere in pieno ciò che quel suo modo di sorridere è. Diciamo semplicemente che sfoderando quei trentadue (o sessantaquattro, o duecentoventi, chi può dirlo) scintillanti denti avrebbe potuto uccidervi il cane e ottenere da voi un invito a cena nello stesso pomeriggio.

-E per quale motivo?-

-Perché fate un gioco difensivista, è davvero troppo noioso-

Stava parlando di calcio?

Sì, stava parlando di calcio.

Che diavolo di senso aveva parlare di calcio in quel frangente?

Ad ogni modo, non mi diede il tempo di controbattere che già si stava avviando verso la porta.

-Ci si vede- mi disse.

Rimasi interdetto a fissare l’uscio con le mani ancora affondate nei miei vestiti.

Una frigida e un idiota, quell’ostello si stava davvero dimostrando una scelta azzeccata.

 

Dormii un’ora o poco più, e spesi poi dell’altro tempo ascoltando musica. Certo, ero nell’esotica Kathmandu, ma cominciavo a realizzare che spesse volte il semplice oziare ha un’attrattiva tale da sovrastare completamente quella dello scoprire templi, quartieri caratteristici e quant’altro.

Le ore centrali della giornata mi stavano intorbidendo i sensi con la loro afa, e starsene in quel letto ormai madido del mio stesso sudore era tutt’altro che piacevole, ma “resistetti” stoicamente.  Del resto avevo già infranto ciò che mi ero ripromesso un paio di giorni prima, ovvero che non avrei salito scale, scalini, gradoni, o niente che si fosse levato a più di dieci centimetri dal suolo per almeno una settimana, per cui quel giorno mi ero incaponito a muovermi solamente per lo stretto necessario.

Ma il pranzo era ovviamente lo stretto necessario.

Raggiunsi la lobby e trovai entrambi, la ragazza schiva e l’indiano insolente, seduti su un divano di pelle nera. Non so se l’idea di lui fosse quella di montargli in braccio, ma il suo fare era talmente incalzante dall’aver costretto lei a portare una spalla fuori dallo schienale, in un a quanto sembrava vano tentativo d’evasione.

E ditemi, qual è la cosa più odiosa che si possa fare a un cascamorto in azione?

Intromettersi, naturalmente.

-Ragazzi, sapete consigliarmi un buon posto per pranzare?- Chiesi con innocenza.

Il sorriso che lei mi rivolse partì dagli occhi, leggermente cadenti ma comunque gradevoli, che tirarono poi su anche un angolo delle labbra. La spontaneità di quel gesto fece traballare l’opinione non propriamente positiva che mi ero fatto di lei.

Cosa che non accadde invece con lui: idiota era e idiota restava.

Fu la ragazza a rispondermi.

-Noi abbiamo mangiato in un piccolo localino indiano qui vicino, il cibo non è male ed è anche molto economico-

Aveva un forte accento ispanico che risultava piuttosto divertente.

Parentesi sul “piccolo localino indiano” in cui capitai giusto un paio di giorni più tardi: Trattasi di uno scalcinato garage adibito a mensa, i cui gestori all’ingresso hanno ben pensato di applicare un singolare forno a legna cilindrico che, sprovvisto di ogni qualsivoglia impianto di ventilazione, provvede a mantenere una piacevolissima temperatura interna di quaranta gradi. Cibo accettabile comunque, devo riconoscerlo.

-Lascia stare Laina, è italiano, prenderà a criticare tutto il mangiare- Intervenne lui con fare beffardo. Lo ignorai e guardai lei.

-Laina?- Chiesi.

-Si, è il suo nome, Laina-

-Veramente non è il mio nome- Precisò lei divertita.

-Oh andiamo Laina, è un bellissimo soprannome per una bellissima ragazza-

E lo disse davvero, lo disse lentamente accompagnando le parole con le mani quasi stesse recitando, con un tono di voce profondo che nella sua deviata concezione immagino dovesse essere incredibilmente seducente. Che scherzasse o meno rimane per me un mistero tuttora, fatto sta che il tutto risultò banale al punto che sia io che la ragazza, Laina per l’appunto, prendemmo a ridere.

Dopo alcuni secondi d’esitazione, si aggregò anche lui nella risata.

-Bene Laina, piacere, Matteo. Mentre tu invece saresti?-

-Appy, senza l’acca iniziale-

-Appy senza l’acca iniziale, interessante… E’ un nome comune in India oppure i tuoi genitori non ti amano fin da quando eri in fasce?-

Mi sforzai di mantenere un’espressione seriosa per dare tono alla battuta, ma realizzai immediatamente che forse il colpo inferto era un tantino eccessivo per figurare nella settima o ottava frase rivolta a uno sconosciuto. Eppure, dopo un’iniziale espressione sorpresa, la sua bocca si aprì in un sorriso.

Si, uno di quei suoi sorrisi.

-Una volta a casa dovrei chiederglielo in effetti, fottutissimo italiano!-

E ridemmo ancora tutti e tre insieme.

 

Il pomeriggio, quel singolare pomeriggio, trascorse così.

Non conoscevo l’età di Appy, tuttavia ora sapevo che soltanto alcuni giorni prima era fermamente convinto d’aver perso il senno. Lasciando ogni agio alle sue spalle si era ritirato in un silenzioso periodo meditativo della durata di dieci giorni: il sempliciotto, sedotto inizialmente dalla prospettiva del non dover spendere un singolo dollaro per vitto e alloggio, subì a tal punto la rigida vita monacale che, quasi a metà del suo percorso spirituale, prese a scrivere frasi sconnesse sui muri della sua cella con un ciottolo sbeccato.

Ignoravo ancora quale fosse il paese natale di Laina, ma so di quando appena arrivata nell’aeroporto di Bangkok, il suo primo giorno di viaggio, si ritrovò a stringere disperatamente quel suo zaino quasi fosse un orsacchiotto di pezza, così da fronteggiare quel crescente senso di smarrimento che, alla fine, durò soltanto un paio d’ore.

A esser schietti fatico tuttora nel ricordarmi i loro cognomi, o almeno quello impronunciabile dell’indiano, eppure quella manciata di ore con loro ebbero una risonanza tale da modificare completamente il concetto di “compagnia” che mi ero costruito per questo viaggio. Le altezzose conversazioni da viaggiatori navigati, improntate su quanto amabili siano gli abitanti del posto o di quanto importante sia assorbire i loro usi e costumi, si sono di colpo trasformate da insipide a esasperanti, e passare il tempo a burlarsi della risata isterica del receptionist presente in quell’ostello, delle orecchie incredibilmente sottili di Laina o delle mie che al contrario sono decisamente più in carne del normale, valse mille volte più di un itinerario narrativo dell’India, del Nepal, o di qualsiasi altro luogo in questa terra.

 

-Puoi continuare a difenderlo quanto vuoi, sempre idiota rimane-

Le parole da me appena pronunciate non avevano alcun mordente, poiché essere realmente stizziti in quella circostanza era impossibile. Da quella terrazza, di gran lunga il luogo più suggestivo dell’ostello, si aveva una prospettiva della silenziosa città notturna ai limiti del reale: l’assenza dell’illuminazione pubblica e un cielo senza luna esaltavano le intime realtà domestiche dei palazzi di fronte, e mi trovavo dunque a osservare lo scorcio di vita di una massaia intenta nello sciacquare le stoviglie nel suo piccolo cucinino.

-Ma è stata comunque una serata piacevole, no?-

Non che Laina avesse torto, ma l’avrei sicuramente apprezzata maggiormente se nel mio stomaco ci fossero stati più di sessanta miseri grammi di spaghetti.

Questo accadde poiché l’idiota, che come avrete forse intuito risponde ancora una volta al nome di Appy, si premurò di informarmi che alla nostra pianificata spaghettata a tre avrebbero partecipato cinque ulteriori persone nell’esatto momento in cui stavo buttando mezzo chilo di pasta. Non che tanta espansività sia nelle sue corde, intendiamoci, ma non poté tirarsi dietro solamente la biondina olandese conosciuta poco prima nel dormitorio poiché a suo avviso ”se sei troppo esplicito con le europee, loro prendono e scappano”.

-Fame a parte, non posso lamentarmi. Credi riuscirà a concludere qualcosa almeno?-

Con un cenno della testa indicai lui, Appy, e Iris, seduti l’uno accanto all’altra poco distanti da noi. Il corteggiamento, che per inciso andava ormai avanti da più di tre ore e mezzo, divenne particolarmente serrato da quando lei aveva deliziato i commensali con una storia che la vedeva svegliarsi il giorno precedente nella sua camera d’albergo, completamente nuda, con un uomo affianco di cui non ricordava il nome.

-Lo spero per lui, altrimenti avrebbe sprecato un’intera serata-

-Sei troppo indulgente, giusto prima di cena mi ha confidato di avere una ragazza svedese-

Lei rise. Aveva i canini leggermente sporgenti, ma si trattava di quel genere d’imperfezione che attribuisce originalità al viso senza deturparne l’armonia.

-E tu? Anche tu hai una ragazza adesso lontana?-

Ragionai sulla risposta. Circa un paio di mesi prima ebbi quella che si potrebbe definire un’istantanea di un concreto rapporto con una ragazza portoghese, ma ci lasciammo con una promessa sussurrata, un bacio e nulla più.

-Credo che se ci fosse qualcuna capace di starsene buona e zitta ad aspettare per mesi e mesi il mio ritorno, non la vorrei come ragazza-

Il suo sguardo si fece grave.

-In effetti potresti aver ragione- Disse.

-Tasto delicato?-

-Non direi-

Seguirono dei momenti di silenzio. O fingeva disinteresse per spronarmi ad approfondire, o era la bugiarda peggiore del mondo.

-Il fare misterioso ha fascino soltanto se si ha una barba, e deve anche essere lunga, quindi sii più esaustiva. Qualcuno ti aspetta… Da ovunque tu venga?-

-Sono argentina! Di Buenos Aires-

-Affascinante, assolutamente affascinante, davvero. Quindi? C’è qualcuno?-

-Soltanto un ex, niente di più, e ormai sono due anni che non stiamo insieme-

-Dal modo in cui ne parli sembra più di questo. Andiamo! Ormai ci conosciamo da ben otto ore e forse anche più, dovresti essere più aperta con me!-

Accennò un sorriso, ma l’argomento la scuoteva. Ed anche parecchio a quanto sembrava.

-Diciamo che non è mai veramente finita, anche in questi ultimi due anni abbiamo continuato a vederci, tutto qui-

-Uhm, capisco-

Scelsi di non andare oltre, l’atmosfera si stava raffreddando e dopotutto non è che la cosa mi riguardasse. A voler esser cinici, nemmeno poi che m’importasse così tanto.

Cambiai totalmente argomento.

-Dunque domani hai il volo per Bangkok. A che ora?-

-Alle due del pomeriggio. Mi rattrista molto lasciare questo posto così presto, c’è gente piacevole e interessante qui-

Ed era vero, quel posto pullulava di veri e autentici personaggi. Avevo avuto modo di conoscere Kevin, adone nordico rasente i due metri la cui bellezza era seconda soltanto al suo senso di autocompiacimento, che studiava al punto tale i suoi interventi nella conversazione da risultare alle volte più irritante che affascinante. Badate che questo è un commento fatto non da me ma da una delle ragazze presenti.

C’era Taletha, per cui non è davvero necessario spendere molte parole poiché ognuno di voi ne avrà vista una fotocopia in qualche film americano: leggermente sovrappeso, nera, temperamento dirompente e uno sconsiderato uso della parola “merda”. 

Come dimenticarsi poi di Sweet Lemon, dolce quanto enigmatica ragazza cinese che decise a quanto pare sua sponte di chiamarsi in tal modo. Mi dissero che altro non era se non la traduzione del suo vero nome cinese, ma mi sono sempre rifiutato e mi rifiuto tuttora di crederlo. Su di lei si potrebbe basare un intero racconto, ma poiché questa è un’altra storia, al fine di dare la prima pennellata al ritratto del personaggio, basti sapere che era capace di un’innocenza tale dal non poter uccidere una zanzara e al contempo, come verificai alcuni giorni dopo, di pensare seriamente di cospargere Appy d’olio e dargli fuoco.

-Dev’essere frustrante avere delle costrizioni anche in questo viaggio, se ne perde un po’ il senso non credi?-

-Non posso certo raggiungerla a piedi la Tailandia, filosofo da quattro soldi!-

Accompagnava ogni battuta, per quanto priva d’ogni offesa potesse essere, col sorriso. L’incisività ne soffriva, ma in compenso era in qualche modo carino. Le sorrisi a mia volta.

-Ancora una conferma per la teoria secondo cui le ragazze carine non devono necessariamente essere spiritose… O almeno “quasi” carine, nel tuo caso-

Mi tirò un pugno sulla spalla.

-es un boludo!-

Boludo: colorita espressione argentina che riveste mille e più significati, ma nel mio preciso caso mi è stato assicurato che ha sempre e solo denotato quello di “imbecille”.

-Bene, credo sia giunta per me l’ora di andare a letto, e ti consiglio di fare altrettanto prima che l’indiano decida di ripiegare su di te-

-Si, credo che a breve seguirò il consiglio-

E mi ritirai quindi nel dormitorio.

Ah, per chi fosse interessato, l’indiano andò in bianco nella maniera più crudele che si possa immaginare: una volta accompagnata Iris all’ingresso del suo hotel si vide sbattere la porta in faccia proprio quando stava per metter mani al portafogli, e ovviamene non per cercar soldi. Passò la mattinata seguente a lagnarsene.

 

Kathmandu, Lunedì 20 maggio


Il gusto perverso dell’autista nepalese nello schivare all’ultimo secondo qualsiasi cosa gli si ponga di fronte non lo capirò mai. Il fatiscente taxi che una volta doveva essere bianco (oppure giallo, ma sono sicuro che nemmeno l’autista se sarebbe ricordato nel caso glie l’avessi chiesto), si faceva strada in un caos di persone, carrozzoni, motorini e mucche.

Molte mucche in effetti.

Troppe mucche.

Ad ogni modo, al di là di ogni parola scritta potrete meglio comprendere ciò a cui mi riferisco semplicemente gettando dell’acqua su uno sciame di formiche: quello che vedrete vi darà un’idea di com’è trovarsi nelle strade di Kathmandu.

Lo sguardo di Laina era focalizzato sulla strada d’innanzi a noi al punto tale che credevo da un momento all’altro avrebbe aperto un buco sul tergicristalli, mentre Appy continuava a blaterare come di suo solito.

-Il film che voglio realizzare sarà sulla povertà dell’India, e per questo ho bisogno di perdere almeno altri dieci o quindici chili visto che oltre che regista sarò l’attore protagonista. Ho anche intenzione di passare qualche settimana in una baraccopoli, così da comprendere meglio quello di cui si sta parlando. Poi fatto il film diventerò un fottuto milionario-

-Progetto interessante e profondo- Replicai.

-Fai del sarcasmo fottutissimo italiano?-

-Oh buon dio no. Ci hai forse visto del sarcasmo anche tu Laina?-

-Appy di all’autista di andare più piano- Disse lei.

-Ma se stiamo andando a cinquanta kilometri orari!- Protestò lui.

-Diglielo e basta!-

Appy si sporse tra i due sedili anteriori e vociferò qualcosa al tassista, che sorrise di rimando scuotendo la testa. A quanto sembrava l’hindi era molto più popolare dell’inglese da quelle parti.

-Gli ho detto che lo trovi dannatamente sexy, soddisfatta?-

-Appy non sto scherzando!- Gridò lei.

Non riuscii a trattenere una risata.

-State buoni, siamo quasi arrivati. Magari dopo la tua dichiarazione riusciamo anche a ottenere uno sconto, chissà-

E per quanto possa suonare ridicolo, lo ottenemmo.

 

Di fronte all’aeroporto internazionale di Kathmandu, di cui ricordo soltanto la sensazione di trovarmi in una stazione d’autobus di periferia che mi dette, Appy fu il primo a immolarsi nel walzer dei saluti. 

-Sei ancora in tempo, lascia stare la Tailandia e rimanitene qui con noi-

Non suonò come una battuta e sono sicuro non dovesse suonarci affatto, il suo sguardo del resto era intriso d’una tristezza che potrebbe apparire irrazionale se si pensa che si erano conosciuti soltanto il giorno prima.

-Sai che non posso- Rispose lei in tono quasi materno.

-Con il fottuto italiano viaggeremo in India per un mese e poi lui volerà in Tailandia, fai lo stesso no?-

Laina si prese alcuni secondi per rispondere, ma per quanto sono sicuro allettante le potesse esser sembrata la proposta non credo la stesse realmente valutando.

Semplicemente, gli stava dicendo addio.

 -Parli sempre troppo, ma grazie di cuore, per tutto-

Poi si abbracciarono, e lo fecero a lungo.

Arrivò quindi il mio turno.

-Mai stato bravo in questo, diciamoci semplicemente che ci vediamo laggiù tra un mesetto o poco più, ok?-

Sembrava difatti che i nostri piani avessero le adeguate tempistiche per permetterci di incontrarci in Cambogia o nel vicino Vietnam, ma considerando che giusto tre settimane prima ero convinto del fatto che in quello stesso momento mi sarei trovato in Kirghizistan pronto ad attraversare il confine cinese, non avrei scommesso un soldo bucato sulle mie stesse parole poiché sa dio dove avrei potuto essere da lì a un mese.

-Certamente, ci vedremo là- disse lei sorridendo.

Passai il palmo della mano sul ciuffo della sua coda particolarmente alta.

-Con i capelli messi così almeno puoi andare sicura che nessuno ti molesterà-

-Grazie per rendermi le cose più semplici, boludo!- Scherzò lei.

E ci abbracciammo quindi silenziosamente finché lei non se ne andò, lasciandoci entrambi, me e Appy, a guardarla allontanarsi con quel suo passo lungo e quel suo enorme zaino rosso che sembrava in ogni momento in procinto di sovrastarla.

-Mi mancherà, non puoi starmi così simpatica e poi andartene via- disse lui con voce spezzata.

Gli lanciai uno sguardo sorpreso: non lo facevo così emotivo.

Tentai dunque a mio modo di ravvivarlo.

-Mancherà anche a me, ma mai quanto mi mancherai tu. Credo che il tuo addio sarà come un peto: molto intenso per i primi cinque secondi e come non fosse mai esistito per quelli seguenti-

Gli strappai un accenno di sorriso, e credo che quello fosse il traguardo massimo raggiungibile in quella situazione.

Portai una mano sulla sua spalla e, allontanandomi, me lo tirai dietro.

A pensarci ora, è proprio la leggerezza con la quale affrontai quel commiato a rendere particolarmente ironico il fatto che la sua seconda parte, due mesi più tardi in Vietnam, mi scosse profondamente.

 

Da Lat, martedì 8 luglio

 

-Sicuro di riuscire a guidare in queste condizioni? Scusami se te lo chiedo ancora ma le moto mi spaventano-

No, non lo ero minimamente.

Le mie limitatissime abilità di pilota avrebbero dovuto gestire: uno zaino fucsia che dovetti imbrigliarmi sul davanti, le cui dimensioni seppur limitate influivano notevolmente sulla mobilità del manubrio, ovviamente me, la titubante Laina e il suo solito, titanico zaino da viaggio rosso che faceva a tutti gli effetti per peso e dimensioni le veci del terzo passeggero.

-Secondo te sarei venuto qui alle cinque e mezzo del mattino per porgerti i miei omaggi di benvenuto?-

Non aspettai una replica e partii.

I duecento metri che ci separavano dalla strada furono talmente singhiozzati che inizialmente pensai la moto, prestatami quella mattina stessa dal proprietario dell’ostello, avesse un qualche problema, salvo rendermi poi conto che il tutto dipendeva unicamente de me e dalla mia mano pesante sull’acceleratore. Comunque, considerando che al mio imbarazzante due ruote dovevo spesso e volentieri ruotare la manopola al massimo per avere una risposta dal motore, non posso tanto biasimarmi per questo quanto piuttosto per il più che precario equilibrio tenuto. Duole ammetterlo ma, in effetti, oscillavamo come un fuscello al vento.

-Potresti smetterla di scherzare? Mi fai male alla schiena-

Andiamo bene pensai, lei credeva addirittura che facessi tutto di proposito. Avrei potuto lasciarla nella rassicurante illusione che avessi un tale controllo del mezzo da potermici addirittura trastullare, ma che diavolo, l’idea di terrorizzarla era troppo seducente.

-Lo farei volentieri se solo potessi-

-Ma tu sei serio! Fammi scendere!-

Il tono della voce era stato modulato a un livello tale che ignorò completamente lo schermo acustico del casco e mi colpì con tutto il suo impeto all’orecchio, facendomi nicchiare quasi mi avesse rifilato uno schiaffo a mano rovescia. Il suo corpo invece non si mosse di una virgola, tale era la paura che anche il suo più impercettibile movimento avrebbe potuto portare a una rovinosa caduta.

-Calmati, abbiamo raggiunto la strada, vedrai da ora andrà meglio-

E dal momento in cui potei inserire la terza marcia, la rilassante e lineare terza marcia, effettivamente le cose presero a migliorare. Migliorarono tanto che arrivai a concedere il mio sguardo e, Laina me ne perdonerà, parte della mia attenzione a quella che tutto sembrava tranne che una cittadina vietnamita, o almeno dell’idea che mi ero costruito di una cittadina vietnamita, basica e arrangiata. Costruzioni fastose dai toni chiari costeggiavano un lago che nulla aveva in comune con le masse torbide tipiche del sud est asiatico: le sue acque erano di un blu pieno e profondo, e le sue rive gentili venivano esaltate da parchi con un vasto assortimento floreale. Persino nell’area periferica in cui l’ostello era situato le abitazioni conservavano una loro dignità, con mura perfettamente inverniciate (assai raro trovane altrove) e vialetti intonsi da spazzatura (fatto altrettanto raro).

Davvero nulla in quel posto sembrava cadere nell’incuria che l’aveva fino ad allora fatta da padrona nei luoghi attraversati soltanto il giorno precedente, e per quanto la tanto decantata tipicità potesse soffrirne, tutto ciò era oltre ogni modo gradevole.

 

Non che in quella lontana e per certi versi stramba terra la primavera sia annoverata tra le stagioni, eppure quel pomeriggio sembrava ricalcarne tutti gli aspetti più piacevoli.

L’aria a metà tra il frizzante e il pungente corroborava i sensi, mentre il cielo era solo in piccola parte macchiato da dei cirri che non ne condizionavano l’azzurro, magari soltanto leggermente ingiallito da un sole che sembrava essere mancato da troppo tempo. Il verde del parco, coltivato per giorni o addirittura settimane dalle piogge monsoniche, stava cogliendo la sua occasione per mettersi in mostra dando la sensazione di risplendere di luce propria, e camminarvi in mezzo ringiovaniva il cuore.

-Quindi ti stavi allenando, ti stavi allenando saltando e tirando pugni al nulla alle sei del mattino-

A giudicare dal suo sguardo ciò non gli sembrava inconsueto allora così come non gli sembrò inconsueto quella stessa mattina, quando entrando nel dormitorio io e Laina ci trovammo d’innanzi agli occhi quello strano figuro saltellante, che alcuni secondi dopo prese per lei il nome di Hau.

-Certo, la prima mattina è la parte migliore della giornata per allenarsi-

-Lo è anche per dormire quando si è in vacanza-

-Dormire è solo per le checche-

Mi ricordò vagamente un tizio russo conosciuto in Nepal, che durante il rigido inverno siberiano ama testare le fibre del suo corpo immergendosi in un lago pressoché gelato (tutto a suo dire, intendiamoci). Verificai comunque che l’essere invasati in tal senso calza in modo migliore quando si è alti e biondi piuttosto che tarchiati e occhialuti.

-Lungi da me scoraggiare il prossimo Bruce Lee- Gli dissi sorridendo, e lui fece per rifilarmi una falsa gomitata nelle costole con tanto di kiai, il soffocato urlo tipico dei praticanti del karate. Poi si ricompose immediatamente, quasi a voler cancellare l’eccesso che scommetto a suo parere non si confaceva allo stereotipo dell’uomo duro che tanto amava emulare. 

-Tu e Laina state insieme?-

-Decisamente no-

-…Bella ragazza comunque, no?-

Ero sicuro che lo pensasse, i suoi occhi al momento delle presentazioni erano come quelli di un ragazzino che scopre per la prima volta che quella sua compagna di classe, in fondo, non è poi così male. Perché Hau del resto è questo, un amabile giovinetto che tenta caparbiamente di indossare un vecchio costume da uomo, ma per sua sfortuna quella cerniera lampo non vuole proprio saperne di chiudersi.

-Ma sì, dai- Risposi.

-A te non piace?-

-Una ragazza può essere carina senza necessariamente piacerti, inoltre mi ha detto che ancora pensa al suo ex-

Lui annuì increspando le labbra.

-Spero di non aver infranto i tuoi sogni amorosi- Ripresi.

-Guarda che io la ragazza ce l’ho, stiamo insieme da due anni. Solo che non è bella come lei-

Schietto il ragazzo, non c’è che dire.

Risi sommessamente e guardai lei, che se ne stava alcuni metri davanti a noi ad armeggiare con la sua amatissima macchina fotografica: a quanto pare vedeva in quella semplice aiuola di violette ben più di una semplice aiuola di violette.

Per inciso, io vedevo solamente una semplice aiuola di violette.

-Sono sicuro che ne usciranno foto molto profonde- Le urlai.

Ignorandomi completamente, lei si prese il suo tempo per terminare il reportage e quindi ci raggiunse.

-Non accetto giudizi da chi non ha senso artistico-

-E io non accetto giudizi sul mio senso artistico da chi indossa pantaloni come quelli-

Non che io abbia qualcosa contro i pantaloni da clown, ma questo quando vengono per l’appunto indossati da un clown, e per quel che ne so Laina non lo è. E come se già la forma non fosse sufficiente a classificarli come ridicoli, vi si aggiungeva anche una trama arlecchinesca dai toni spenti a rincarare la dose.

-I miei pantaloni sono bellissimi, boludo!-

-Anche secondo me- Intervenne timidamente Hau, cui rifilai un’occhiata esasperata.

-Oh ti prego! Sei pietoso!-

Lui mi colpì con un buffetto alla spalla, ed io non fui capace di trattenere un sorriso. C’erano certo ancora delle evidenti tracce d’imbarazzo nei suoi atteggiamenti nei confronti miei e di Laina per le quali non potevo biasimarlo, del resto non solo c’eravamo incontrati solamente il giorno prima, ma posso assicurare inoltre che le differenze tra l’espansivo temperamento latino e il riservato carattere orientale non sono soltanto dei banali cliché.

Eppure avvertivo chiaramente che ora dopo ora lui andava sciogliendosi, e questo era oltre ogni modo piacevole sia per il cameratismo che andava creandosi, sia per la consapevolezza che stava cominciando a vedere quella compagnia come qualcosa di più di una semplice alternativa alla solitudine. 

-Piuttosto, hai deciso con cosa ci avvelenerai stasera?- Intervenne lei.

Sì, il singolare “quasi” invito a cena dove ero io stesso a dovermi cucinare era per quella sera.

-Direi gnocchi-

-ñoquis?-

-Gnocchi!-

-ñoquis! E’ il corrispettivo in spagnolo!-

-Gnocchi e basta!-

-Es un boludo!-

-Cos’è gnocchi?- Chiese Hau.

-Un piatto molto gettonato in Italia, ti piacerà-

Piatto gettonato certo, ma soprattutto come tutti ben sapete anche particolarmente economico in quanto ad ingredienti, e fu senza dubbio quest’ultimo fattore ad averlo fatto prediligere ad altre delizie italiche.

-Un mio amico tornato da un viaggio in Italia mi disse che avete un riso molto buono, con lo zafferano-

Gli passai la mano sulle spalle.

-Con tutto il rispetto per la cucina vietnamita Hau, ma che dio mi fulmini se mangerò riso anche nell’unica occasione in cui posso evitarlo-

Il riso, croce e delizia per qualsiasi individuo deciso a spendere più di un mese in terra asiatica: in possesso dell’apprezzabilissima capacità di saziare a un costo esiguo e allo stesso tempo di stancare con una facilità disarmante, e questo poiché ci si trova, inevitabilmente, a cibarsene giorno dopo giorno.

Dopo giorno.

-E con cosa è fatto lo gnocchi?-

-Principalmente patate e farina-

Sembrava alquanto dubbioso, quasi come gli avessi detto che avrei miscelato caffè e sale. Gli diedi quindi una pacca sulla schiena e lo rassicurai.

-Essù dammi un po’ di fiducia! Ti piacerà, davvero!-

 

-Manda giù quel boccone!-

Gli bisbigliai nella maniera più tagliente che potei. Quel suo masticare lento e sofferto mi stava dando ai matti.

-Non ci riesco- Mi rispose lui, continuando a far roteare quegli improbabili baffetti.

-Ma che diavolo vorrebbe dire che non ci riesci?!-

-Che non ci riesco-

Mi soppesava a suo modo, con quello sguardo tra l’assente e il contemplativo che per quanto avessi ormai assodato essere la sua unica maniera di porsi, risultava in quella precisa occasione particolarmente irritante. Mi voltai di scatto verso Laina, e a quanto pare il mio sguardo le fu sufficiente per intuire la domanda che le avrei fatto da lì a pochi istanti.

-Per me questi ñoquis sono ottimi- Disse infilandosene uno in bocca.

Mi voltai quindi nuovamente verso Hau con rinnovata sicurezza.

Non che avessi bisogno di conferme comunque, quegli gnocchi al sugo di pesce erano fantastici. Mi si sarebbe potuto forse contestare il sugo dato che utilizzai un pesce di cui nemmeno conosco il nome, ma non gli gnocchi, punto. 

-Sentito? Sono ottimi, ora smettila di comportarti come un bambino e pulisci il piatto!-

Lo strampalato siparietto non sembrava né turbare né tantomeno divertire il quarto commensale, Xuan, un piccolo soldatino per fattezze e portamento la cui impassibilità era talmente spiccata da farlo somigliare più a un elemento d’arredo che al figlio della matrona. Davvero, per tutta la serata non aveva proferito una singola parola a nessuno, presentazioni comprese visto che si limitò a una silenziosa stretta di mano.

-Se inghiotto la poltiglia che mi si è formata in bocca rischio di soffocare-

Poltiglia! Due ore trascorse a plasmare con cura e amore quei teneri cuscinetti gialli rigonfi di bontà e lui si era permesso di liquidarli in quattro e quattr’otto chiamandoli poltiglia!

-Ti assicuro che se non inghiotti corri un rischio più alto di soffocare poiché ti strozzo io!-

-Sarebbe comunque un modo più dignitoso di morire-

La doverosa replica mi fu quindi negata dal ritorno della padrona di casa, una donna di mezz’età dagli occhi gentili di cui pur sforzandomi non ricordo il nome, appena uscita dalla cucina con due piatti fumanti che avrebbero verosimilmente dovuto rappresentare la parte vietnamita della cena. Il suo passo lento e aggraziato muoveva sul parquet del salone facendone scricchiolare le incerte assi, il cui suono sembrava poi venire seguito anche dall’attempato mobilio presente.

Volendo aprire una parentesi sul contesto in cui ci trovavamo, senza peccare d’indelicatezza posso affermare che tutto sembrava rivestito di carta in quel luogo, una carta designata al ricalcare un opulento stile classico occidentale che però per l’appunto sempre carta restava, e non era quindi raro imbattersi in delle spiegazzature che rivelavano una realtà assai diversa fatta di stenti e celate indigenze, fatta di una rassegnata rincorsa a quel benessere che più a un traguardo somigliava a un’utopia.

Ma del resto è così sollevante adagiarsi sull’idea che la povertà nasconda una sua dignità intrinseca: il pensiero della massaia nepalese che lavando i panni al fiume sorride serenamente pensando a quanto è piena la sua vita, e soprattutto a quanto è libera da ogni moderna costrizione materiale, è così affascinante che avevo almeno fino a quel momento finito per crederci anch’io.

Ad ogni modo, tornando alla cena, i due piatti si rivelarono essere riempiti rispettivamente di riso in bianco e da dei piccoli pesciolini, verosimilmente sardine, fritti al punto tale da risultare scuri.

L’esclusiva tipicità vietnamita di quella delizia, a dirla tutta, mi sfuggiva e mi sfugge tuttora.

-Ecco il vero cibo- Sogghignò Hau.

Pensai di ucciderlo nel sonno quella notte stessa.

 

Da Lat, mercoledì 9 luglio

 

Era una di quelle notti.

Una di quelle notti che, per quanto ormai rade fossero diventate dopo mesi di adeguamento a quello stile di vita che con un eufemismo definirò spartano, talvolta strisciano fuori dalle molle sbilenche di quel materasso sgangherato dove riposi e ti fanno rimpiangere di non aver speso otto dollari invece che quattro per il tuo giaciglio, che per inciso in quel preciso momento avrei preferito fosse fatto di ghiaia visto che sarebbe risultato sicuramente più confortevole.

Solitamente si può far fronte a un tale disagio avendo giornate talmente piene che rendano necessaria la semplice posizione orizzontale per un buon sonno, ma soltanto solitamente per l’appunto, poiché quella era sicuramente stata una giornata particolarmente piena.

Occupammo la mattinata visitando quelle che io credevo essere soltanto delle semplici cascate e che invece si erano rivelate delle cascate con annesso parco divertimenti, e anche se il fascino selvaggio di quell’imponente massa d’acqua tonante ne uscì totalmente calpestato, rimangono sempre le urla divertite mie e di Hau e i “la puta madre!” di Laina mentre scendevamo a velocità folle su delle montagne russe nel mezzo della giungla. Il pomeriggio fu invece speso in un complesso buddista appena fuori città, di cui oltre ai taciturni templi e agli sguardi gravi dei monaci presenti, ricorderò il tempo speso su di una panchina con i miei due compagni di ventura, sulle rive di un laghetto.

Laina si arrese al sonno e abbandonò la testa sulla mia spalla, il che fu carino, poi Hau fece lo stesso dall’altro lato, il che fu inquietante.

Quindi cena con una zuppa di noodles chiamata Mumba o Bumba, passeggiata tra le luci di Da Lat ed eccoci di nuovo a me disteso nel letto nella speranza, assai vana, di addormentarmi.

Aprì gli occhi e li roteai verso Hau, che avvolto come suo solito nella coperta se ne ronfava beato. Così beatamente che vista la mia insonnia ebbi in effetti la tentazione di svegliarlo, ma mi trattenni.

Aveva quella sera stessa deciso di proseguire il viaggio insieme almeno fino a Nha Trang, città costiera con il famigerato quanto enigmatico appellativo di “mangia turisti”, e sono alquanto sicuro che in questa sua scelta abbia pesantemente influito che anche una riluttante Laina, tradita da un inatteso sciopero degli autobus, si sarebbe suo malgrado aggregata alla compagine su due ruote.

Volsi lo sguardo verso lei.

Vista la disposizione ad angolo dei letti le nostre teste andavano quasi sfiorandosi, e alcune delle sue ciocche castane si adagiavano sull’angolo spiegazzato del mio cuscino. La coperta corrugata le scopriva il piede fino alla caviglia, quella caviglia alla quale era applicato un improbabile braccialetto turchese che, come non perdevo mai occasione di farle notare, poco si confà all’ormai novella trentenne qual è. Non che lo pensassi sul serio, ma la sua espressione imbronciata di rimando era impagabile. Ad alcuni centimetri di distanza dal suo viso rilassato dal sonno, che era rivolto a me, il palmo della sua mano se ne stava semiaperto quasi come a voler timidamente ricevere qualcosa.

Mi sono ritrovato a fissarla quella mano.

Non che volessi propriamente stringerla alla mia, o per meglio dire non v’era alcun pensiero cosciente che mi muovesse nel farlo come non c’era nessun celato desiderio che aveva finalmente trovato la giusta occasione per realizzarsi, eppure il ghermire quelle affusolate dita mi sembrava in quel momento naturale come può esserlo il sorridere a un bambino.

Notai poi che, chissà da quanto, lei aveva aperto gli occhi sui miei.

Sembra strano a dirsi ma ci guardammo alla maniera degli estranei, con lo stesso sguardo inespressivo che si rivolgerebbe a un film incapace di appassionare eppure allo stesso tempo non così orribile da volerti far cambiare canale. E lo facemmo a lungo, o perlomeno questa è l’impressione che il pigro scorrere dei secondi notturni mi dette.

Quindi lei richiuse gli occhi, e dopo alcuni istanti feci lo stesso anch’io.

Davvero singolare, pensai prima di addormentarmi.

 

Da Lat, giovedì 10 luglio

 

Sono dell’opinione, magari impopolare, che l’insicurezza si annulli con l’indifferenza.

Non che io voglia apparire apatico, in adeguate circostanze apprezzo quanto chiunque altro delle parole d’incoraggiamento, e trovo inoltre particolarmente struggente la loro enfatizzazione in quegli ispirati monologhi che tanto spesso troviamo nella cinematografia, ma va riconosciuto che un tale approccio dà collateralmente importanza al problema che ci si trova a fronteggiare, finendo inevitabilmente per gonfiarlo.

D’altra parte invece, qualcuno che ricorre all’indifferenza ci nega certo parte della sua empatia, ma ci dona al contempo un importante cambio di prospettiva per la quale quel nostro grattacapo, in fin dei conti, non è poi di una rilevanza tale da permetterci di abbandonarci nello sconforto.

Ora, che il carissimo Hau non me ne voglia ma nutro dei fortissimi dubbi che dietro il suo sguardo assente si nascondessero tali considerazioni, eppure devo riconoscergli che quel suo atteggiamento semplicistico nei confronti della grana, a mio parere non da poco, che lo smistare tre persone con i loro rispettivi bagagli su due moto rappresentava, mi distese.

Quel buffo figuro vietnamita schizzava nel porticato madido di rugiada come una trottola impazzita: la prospettiva del rimettersi in marcia gli aveva ridato smalto, cancellando ogni traccia del suo abituale fare sopito. Dopo aver terminato di imballare il proprio zaino nel nailon, chiamò autoritariamente a raccolta i suoi due assonnati compari.

-Ok, venite qua da me, tutti e due-

Lo raggiungemmo con l’entusiasmo dei morti, ciondolando e bofonchiando. Tanta operosità dovrebbe essere vietata per legge di primissima mattina, soprattutto se non è stata debitamente preventivata la sera prima.

Lui comunque non ci fece caso e proseguì.

-Dobbiamo decidere ora la formazione di marcia più adatta- Disse in tono serioso.

-Prevede di incontrare parecchi yankee, caporale?- Gli risposi sardonicamente.

Laina iniziò una risata che terminò poi in uno sbadiglio, mentre lui non sembrava invece aver afferrato dato che, appiccicandosi un sorrisetto insensato in faccia, annuì vagamente e andò avanti, guardandomi.

-Chi porta Laina, io o tu?-

Tanto risultarono chiare le sue volontà che non capii nemmeno se provò o meno a tenere nascosti gli occhi da fanciullo supplicante: il piccolo Hau quella Barbie avventuriera la voleva decisamente sulla parte posteriore del sellino del suo scooter, per cui decisi di non guastargli la festa. Non che si trattasse di pura e spontanea bontà di cuore, è solo che a quei tempi le probabilità stimate di vedermi rotolare sull’asfalto erano impietosamente alte, e la prospettiva di causare il suddetto rotolamento di qualcun altro non mi allettava di certo.

-Scelgo i bagagli, sono molto meno tediosi-

A causa del leggero stato comatoso che le appesantiva le sopracciglia, lo sguardo ammonitorio che da lei ricevetti, accompagnato dalle labbra increspate, la fece somigliare più a un bucaniere imbronciato che a una ragazza risentita. Mi confidò giorni dopo che gli argentini, generalmente, non sono un popolo particolarmente mattiniero.

-Bene!- Esclamò Hau, radioso –Preparo le moto e siamo pronti a partire!-

 

Ruotare la chiavetta nel quadro si stava dimostrando difficoltoso come di solito, sembrava quasi che qualcuno si fosse divertito a gettare della sabbia nella sede dei cilindretti. Sarebbe in effetti potuta essere un’ipotesi realistica se non fosse stato per il fatto che, ne sono certo, nessun essere umano presente a questa terra potrebbe mai essere posseduto da una malignità tale da infierire su quel rottame a due ruote.

Lo starter? Figurarsi, una volta premuto tutto ciò che ottenni fu uno strozzato e fastidioso ronzio che, con il passare dei secondi, andava somigliando sempre più al suono di una smerigliatrice applicata a una superficie d’acciaio. Lo presi come monito e iniziai malvolentieri ad accanirmi sulla pedalina per l’accensione manuale, e dopo numerosi tentativi a vuoto che altro non mi procurarono se non un doloroso livido sullo stinco destro, finalmente il motore tossì, sputò, rombò, e ricadde infine in un pulsare regolare.

Prima di rimettermi in sella soppesai inoltre la bizzosa catena: non ciondolava più indegnamente come in quella sventurata mattina ma, incredibilmente, era già più lenta di quanto non fosse soltanto il giorno prima.

A causa del peso aggiuntivo dei diversi bagagli fissati al portapacchi, per quanto un movimento potesse essere impercettibile le sospensioni urlavano comunque la propria sofferenza in una graffiante sinfonia di cigolii, abusando largamente della condiscendenza che avevo riservato loro visto il carico in eccesso. 

Mi sistemai dunque sullo striminzito sellino.

Due dita sulla frizione, due dita su quel freno anteriore al quale sapevo benissimo di non potermi appellare in caso di necessità, due occhi fissi sul viottolo di fronte a me, due gambe che lottavano già contro un mal bilanciamento del peso e un solo pensiero in testa: avrei di gran lunga preferito affidarmi a un ronzino cieco e parzialmente zoppo piuttosto che a quella trappola succhia benzina.

E invece, contro ogni previsione, il mio scetticismo fu smentito.

Rischiai sì l’appiedamento in una delle più irte salite affrontate in quella mattinata, eppure grazie a una rapida (quanto totalmente istintiva) manipolazione del piccolo regolatore controllante l’afflusso della benzina al carburatore, riuscii seppur a passo d’uomo a conquistarla.

Per quanto riguarda il resto del tragitto invece, quel più che piacevole tragitto, non ebbi particolari problemi.

Le ampie strade, eccezion fatta per qualche sporadico mangiucchiamento laterale e per qualche piccolo squarcio, erano in condizioni più che dignitose, e complice anche la quasi totale assenza di circolazione assaporai la quintessenza del viaggio in motocicletta: i dolci tornanti montani. Intendiamoci, non che io possa vantarmi di essermi esibito in delle eleganti piegate, il carico posteriore ballerino e soprattutto la mia inesperienza sulle due ruote mi avrebbero steso sull’asfalto alla prima curva, ma mi permisi comunque con delle accelerate qualche licenza dalla mia solita guida estremamente coscienziosa, che Hau osservò invece scrupolosamente visto il preziosissimo carico che aveva l’onore di trasportare.

A uno sguardo approssimativo il contesto nel quale eravamo immersi sarebbe potuto addirittura sembrare un tipico saliscendi appenninico, con una boscaglia spenta dal maltempo che, a suo agio nei propri confini, poco aveva in comune con l’incalzante groviglio tropicale al quale questa terra mi aveva abituato.

Eppure era del terriccio rosso a imbrattare i miei ancora fradici anfibi, le nodosità dei fusti d’albero erano talmente accentuate da somigliare a delle trecce malfatte e i campi non erano coltivati a cereali, ma ospitavano bensì delle risaie, dove di tanto in tanto si poteva notare qualche sparuto agricoltore chino su se stesso.

L’aria era pregna d’una fragranza muschiata, richiamata dai frequenti ma fortunatamente rapidi rovesci, che si fondeva perfettamente con il primitivo odore di terra bagnata, e la sua freschezza era tale da procurare un tenue dolore fisico al petto, quasi come se i polmoni a un tratto non si bastassero più.

Tre furono le fermate che ci concedemmo prima del mezzogiorno, rappresentate da un allevamento ittico che non riservò le meraviglie promesse da Hau, una fugace pausa caffè in una delle sporadiche capanne disseminate lungo la via e, sotto un’imposizione che Laina aveva furbescamente mascherato come suggerimento, delle vecchie costruzioni in tronco grezzo e foglie di palma i cui monumentali tetti si allungavano per metri e metri.

Io e lei rimanemmo letteralmente stregati dall’erudita e appagante descrizione del complesso storico pervenutaci dall’unico vietnamita presente: “Questo è qualcosa di antico, una costruzione tradizionale, e serviva sicuramente a qualcosa che però non ricordo. Comunque se volete vi faccio una foto”.

 

In Asia vige una regola non scritta ma di valore assoluto: che tu possa starti deliziando dei caldi toni pastello della maestosa catena himalayana tibetana, dell’impalpabile sabbia bianca di un atollo cambogiano o degli odori pungenti di un mercato indiano, lo farai sempre e comunque soffrendo una qualche avversità ambientale, perlopiù rappresentata da sciami di fameliche zanzare tropicali o, nelle situazioni estreme, dalle gelide sferzate dei venti montani o dalle implacabili calure desertiche.

Ebbene, cullato da quell’amaca a maglia larga stavo vivendo quell’irripetibile eccezione che, come si suol dire, conferma la regola.

La brezza mi carezzava la pelle con la gentilezza di un’amante, quasi come fossi stato ricoperto da una fresca veste setosa che ora qualcuno stava tirando via con dolcezza, mentre gli orli delle maniche e i miei capelli fluttuavano pigramente, vincendo l’appesantimento causato da polvere, gas di scarico e sì, anche sudore.

Trovandoci ancora sopra i mille metri sul livello del mare nemmeno le ore più afose l’avevano vinta contro la frescura, e vuoi per la prima menzionata brezza, vuoi per grazia divina concessa, non c’era traccia dei piccoli insetti succhiasangue.

Ma l’utopia, si sa, non trova spazio in questa realtà, e un altro principio universale che non vale (purtroppo) soltanto dentro i soli confini asiatici detta che la vita, la beffarda vita, porrà sempre almeno una circostanza spiacevole nei nostri sfuggevoli sprazzi di nirvana.

In questo caso, la mia personalissima circostanza spiacevole era rappresentata dalla petulanza di un giovanotto vietnamita.

-Quando ripartiremo?-

-Hau, mio carissimo Hau- Calzai sull’aggettivo -Perché non cerchi semplicemente di rilassarti e goderti la tua amaca come sta facendo Laina?-

Lei sonnecchiava giusto dietro di noi, con il cellulare appoggiato al mento.

-Lo chiedo solo per sapere, non vorrai star qui per ore intere no?-

-La cosa ti disturberebbe poi tanto?-

-Si! Dobbiamo arrivare a Nah Trang!-

-E ci arriveremo, te lo assicuro, ma poiché per godermi quest’amaca ho anche dovuto comprare un casco di banane, non ho certo intenzione di lasciarla dopo soli dieci minuti-

I tracciati vietnamiti sono pieni di questi porticati domestici adattati a punti di ristoro, dove in cambio di un acquisto di genere alimentare (solitamente frutta o bevande gassate) si ha l’usufrutto illimitato di un’amaca, e poco importava se si trattava solamente di una rete da pesca agganciata a due pali, stavamo sempre parlando di farsi cullare beatamente con il fondoschiena a venti centimetri da terra.

Dunque, anche se la pancia piena del dopopranzo rifiutava quelle piccole e gommose banane, pensai comunque che mai un dollaro fu più ben speso.

-Ok, come preferisci-

Lo disse con un tono leggermente risentito, ma decisi di non dargli peso e abbandonai le palpebre alla stanchezza. Mi piace quel ragazzo, davvero, ma talvolta i suoi eccessi di attivismo lo fanno risultare davvero esasperante.

I pensieri iniziarono ad allungarsi, stiracchiarsi, ma non ebbi che pochi secondi per avvolgermi nel piacevole oblio del dormiveglia, poiché sentii qualcosa di piccolo, forse un sassolino, colpirmi alla spalla.

Calma, mi dissi, la prospettiva di un sonno quasi raggiunto era largamente preferibile a quella di una ritorsione contro l’attentatore, che sicuro come la morte era l’ometto baffuto al mio fianco, ma quando ricevetti il secondo colpo, e stavolta in testa, dovetti per forza di cose destarmi.

-La facciamo finita o no?!-

Lo dissi ad appena un tono sotto l’urlo, e lo dissi in italiano, fissando Hau in cagnesco.

Dopo qualche secondo di ponderazione decisi che il suo sguardo perso fosse una prova sufficiente alla sua innocenza, e considerando inoltre che fui proprio io a svegliare Laina di soprassalto, il che l’immunizzò automaticamente da ogni possibile accusa, iniziai a roteare gli occhi alla ricerca del cecchino molesto.

E lo trovai in una scimmietta.

Fui immediatamente colpito dalla fermezza con cui quelle due nere fessure scintillanti sostenevano il mio sguardo, che non vacillarono nemmeno quando mossi alcuni lenti passi verso lei. Notai una catenella arrugginita cingerle il collo e ciò non mi sorprese, del resto mi trovavo nella terra del sole nascente, del sorriso ospitale e dei polli starnazzanti appesi per le zampe sui manubri dei motorini.

Sul fianco destro, il corto pelo cinerino contornava una vistosa escoriazione.

-Non avvicinarti troppo, potrebbe morderti- Mi ammonì Hau.

Eppure la scimmietta non sembrava averne alcuna intenzione, ed io mi fidai di questa mia impressione piegandomi sulle ginocchia proprio di fronte a lei.

-Tranquillo. Chi o cosa credi le abbia provocato quella brutta ferita?-

-Non ne ho idea, magari qualche animale, magari qualche incidente-

-Ma che dici! Sono stati i padroni, guardala, è anche malnutrita!- Intervenne Laina con un fervore tale da strapparmi un sorriso. Quello stesso fervore le era valso, giù in Argentina, la nomina di “tanita”, parola la cui etimologia affonda le radici nel bel paese giacché “tano” è per l’appunto abbreviazione di napoletano, immagine stessa della passionalità verace a quanto pare anche all’estero.

-Almeno a questo possiamo rimediare, passatemi una banana-

Il piccolo quadrumane prese titubante il frutto dalla mia mano e lo mangiò poi alacremente. Non sembrava governarle appieno quelle dita sparute, che esitando continuamente sul dorso della banana parevano in procinto di farla cadere a terra da un momento all’altro, ma la cosa alla fine non accadde.

Sentivo lo sguardo di Laina addosso.

-Basta una banana per metterti a posto la coscienza?-

Mi voltai verso di lei e le risposi adeguandomi al suo tono tagliente.

-Vorresti forse che la adottassi?-

-Vorrei che tu la liberassi!-

Va ora fatta una piccola e doverosa precisazione: visti i considerevoli disagi che quotidianamente ci si trova ad affrontare disponendo di un budget d’una sola decina di euro al giorno, quella straordinaria valvola di sfogo chiamata litigio si va col tempo facendo sempre più seducente, e in quelle poche occasioni in cui si vive un rapporto abbastanza solido da poter tenere botta a qualche frase pungente, non ci si tira certo indietro.

Ma proprio quando stavo per rifilarle la stilettata che avrebbe definitivamente dato inizio alle danze, Hau intervenne a sbollentare gli animi.

-Laina, non si può liberare una scimmia domestica, come troverebbe poi il cibo?-

-Preferisco immaginarla a soffrire un po’ di fame altrove piuttosto che qui in catene a prender botte-

Lei sembrava aver perso parte del mordente, ma il mio incalzare la rattizzò immediatamente.

-Così per sapere, sei arrivata alla conclusione del maltrattamento basandoti su cosa?-

-Guarda che ferita ha! Non ti basta come prova?-

Come già detto però, discorsi tanto concitati poco si adattano alla riservata e soprattutto pacata attitudine vietnamita, e fummo quindi raggiunti dalla stessa giovane ragazza da cui avevo poco prima acquistato le banane. Ho l’assoluta certezza che ci avesse già classificato come delle rozze bestie, ma il suo sguardo gioviale riuscì a nasconderlo bene.

Dopo un breve dialogo con Hau, il cui senso non riuscì a intuire vista la completa assenza di una benché minima gestualità, vidi la vietnamita chinarsi e slacciare la catenella che costringeva la scimmietta al palo. Quest’ultima guadagnò rapidamente la spalla della padroncina appigliandosi alla lunga veste marrone, dove infine si agiò appollaiandosi.

Hau si voltò a quel punto verso me e Laina.

-Solitamente tengono la scimmia in casa, ma visto che in questo momento hanno degli ospiti l’hanno dovuta legare qui fuori per qualche giorno. Volete che io chieda anche il perché della ferita?-

Rivolsi il mio sguardo a Laina, accompagnandolo col sorriso più beffardo che potei.

-Non credo ce ne sia bisogno, qualcuno si sta già sentendo abbastanza idiota-

Ammetto di averlo sentito il pugno alla spalla che mi rifilò.

 

Nha Trang, venerdì 11 luglio

 

L’afa mi aveva infine riagguantato, e rinvigorita dal cemento e dall’asfalto, stava strizzando ogni liquido dal mio corpo alla maniera di una massaia con la sua spugna.

L’unica sbavatura di verde presente in quel posto era rappresentata dalle ridondanti palme messe a decoro del chilometrico lungomare, poiché Nha Trang bandisce senza riserve tutto ciò che non porti al saccheggio delle rigonfie tasche occidentali (perlopiù russe) presenti in loco, e chiaramente un insulso parco non è funzionale allo scopo.

Largo quindi a spacci, atelier, agglomerati commerciali spacciati per mercati tradizionali e club notturni: tutto fa buon brodo, e in quella città che un’identità non l’ha persa, ma bensì non l’ha mai avuta, qualche grassoccio turista a cui rifilarlo si trova sempre.

Era mattina, i primi raggi cominciavano una battaglia già persa con le ingombranti palazzine, il rumore sordo dell’apertura delle saracinesche si mischiava a quello dell’ancora sonnecchiante traffico e, come spesso ho constatato accadere in quel momento della giornata, un addio stava per essere consumato.

Eravamo tutti e tre per l’ultima volta raccolti attorno alla mia motocicletta, e Laina ruppe il silenzio.

-Sono gelosa di voi due idioti che viaggerete ancora un giorno assieme-

Una volta finito di parlare lei arricciò le labbra in una smorfia quasi infantile.

-E io sono geloso di voi due che vi rincontrerete dopodomani ad Hoi an- Replicò Hau con un filo di voce, che espose tutta la malinconia che lo stava atterrendo.

Le quattro mura domestiche e gli affetti in esse contenuti lo stavano attendendo da ormai troppo tempo viste le settimane spese a Saigon, e per quanto suggestiva sono sicuro potesse apparirgli l’idea di riabbracciare Laina nella cittadina di Hoi an, piccola perla architettonica situata nel mezzo del lungo tragitto verso Hanoi, stava dimostrando di avere la maturità necessaria per non forzare gli eventi e proseguire nella trama della sua vita.

Lui frugò nelle grandi tasche della sua giubba verdone, ne estrasse una malconcia fotocamera digitale e catturò l’istantanea di una Laina visibilmente impreparata all’obiettivo.

-Perché?- Chiese lei.

-Perché voglio ricordare la tristezza di questo momento per vedere se, in futuro, diventa qualcos’altro- Rispose lui.

Lei l’abbracciò di slancio, istintivamente, e dopo alcuni secondi d’esitazione anche lui si abbandonò a quel deliziosamente doloroso commiato.

Mi voltai, quel momento non era certo anche il mio.

Poi Hau s’allontanò, raggiunse il suo scooter ancora lordo del rosso terriccio montano e prese a controllare le funi elastiche che fissavano i suoi bagagli, anche se era evidente che non ce n’era alcun bisogno.

Il suo sguardo era fisso sull’asfalto.

-Bene, ci vediamo dopodomani allora- Dissi a lei accennando un sorriso.

-Si, a dopodomani-

Il suo tono spento mi spinse a stringerle una spalla.

-Fatti forza, altrimenti vedendoti così a terra sarò costretto a darti una banana per mettermi a posto la coscienza-

Suo malgrado, lei rise.

 

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