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silviacorio90

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Ho affrontato le mie paure

Davanti a questo foglio bianco è un po’ difficile iniziare a raccontare un’esperienza piena di emozioni come questa che voglio raccontarvi. Ma “Hakuna Shida” direbbero in Tanzania. “Senza Pensieri”. E prima di decidere di partire per l’Africa vi assicuro che di pensieri ne avevo molti, troppi. Poi questa decisione è venuta da sola, non ho mai capito come! Ma da quando l’ho presa, senza un motivo apparente, le preoccupazioni sono diminuite. Forse perché dentro di me sapevo che dove sarei andata hanno molti più problemi di noi, ma tuttavia sorridono. Nonostante le difficoltà di ogni giorno riescono a non avere così tanti pensieri per la testa e a vivere la giornata donando amore agli altri. 
Non pensate che non avessi comunque qualche paura prima di partire: prima paura, la lingua; seconda paura, ragni e insetti; terza paura, primo viaggio da sola; quarta paura, ma sarò in grado? Quinta paura, sarò davvero pronta? Ma a quest’ultima domanda la risposta me la sono data subito: se aspetto di essere pronta non farò nulla nella vita, se aspetto di essere pronta non vivo. 
Ma perché vai in Africa? Mi hanno chiesto più vole, e spesso non sapevo rispondere, ma dentro di me dicevo: “Vado in Africa perché ho voglia di partire, mettere da parte me stessa per due settimane e dedicarmi solo agli altri”. 
Così sono partita per la Tanzania! Viaggio con due scali, ho visto il tramonto, la luna e l’alba dall’aereo.

La vita ad Arusha

Una volta arrivata all’aeroporto di Kilimanjaro, Projects Abroad mi ha portato in macchina fino alla famiglia ospitante. Ero agitata, emozionata di conoscere quella che, per due settimane sarebbe stata la mia famiglia. Ma una volta arrivata mi sono sentita subito a casa. La loro calma nel modo di parlare inizialmente mi ha però spiazzato, ma ho imparato a capirla ed apprezzarla quasi subito. Già il primo giorno sono andata con baba Billie e i più giovani della famiglia a fare la spesa al mercato. Una volta scesi dalla macchina Sharon, una bambina di nove anni, mi ha preso per mano. Ed è iniziata una vera amicizia in quel momento. Le ho anche regalato due dei miei braccialetti di perline e non ho mai visto una bambina così felice per così poco. 
L’orfanatrofio dove lavoravo era nella casa, fondato da mama Billie stessa. I bambini che lo frequentavano credo avessero massimo cinque anni. Arrivavano la mattina, andavano via la sera. Il primo giorno di lavoro ero un po’ tesa, non sapevo quanto avrei impiegato a creare un contatto con i bambini. Ma perché non sapevo quanto è facile per loro donare amore. Scesa nella classe ho visto due volontarie e una bambina che correva in braccio ad una di loro. Mi sono chiesta se avrei mai avuto anche io quelle emozioni. Nemmeno smettevo di formulare questo pensiero che un bambino mi guardava sorridendo. Il loro sorriso è pieno di vita e basta pochissimo per averne uno. Ho sentito subito che avevo molto da dare a quei bambini, ma anche che loro avevano molto da dare a me.

I bambini: le emozioni più forti

Così sono iniziate giornate piene, di fatiche ma anche di emozioni forti. Facevamo le bolle di sapone, gli stampini, le perline e tante altre cose grazie ai giochi che avevamo portato io e altri volontari nel corso degli anni. Insegnavo loro le basi dell’inglese, come i numeri, i colori, l’alfabeto. Passavo con loro più tempo possibile, perché stavo bene. Ricordo William e la sua allegria, era il più vispo di tutti insieme a Ibrahim. Credo fossero migliori amici, sempre insieme a fare marachelle. Non avevano bisogno dei miei abbracci loro, ma gli piaceva divertirsi, soprattutto quando mettevo i loro piedini sui miei e li facevo camminare. Ricordo Ester, che il primo giorno era molto triste, così l’ho presa in braccio e lei mi ha abbracciata. Dopo le ho dato le bolle di sapone e lei ha iniziato a ridere mentre il mio cuore si riempiva di gioia. Ricordo Barack e la dolcezza infinita del suo sguardo. Ricordo Simon e il suo vizio di mettersi sempre tutto in bocca. 
Ricordo Christian e il suo cappellino da Babbo Natale. Ricordo un bambino che è venuto solo gli ultimi giorni delle mie due settimane (per questo non so il nome). Stava sempre da solo, così gli facevo compagnia. Non rideva mai all’inizio, poi ha cominciato a sorridere. Ero così felice. Ma c’è di più: sono riuscita ad integrarlo, anche se per poco, con gli altri, semplicemente facendolo mettere sotto una coperta con loro. Si è divertito tantissimo! Pur non conoscendo la sua lingua sono riuscita ad aiutarlo. Mi sono sentita davvero viva!

La vita nella mia Host Family

Nei momenti in cui non ero all’orfanatrofio andavo in giro con Sharon: mi ha mostrato la chiesa cristiana dove vanno la domenica, il suo quartiere e spesso andavamo a comprare i biscotti quando i bambini facevano il riposino. Era bello mangiare con mama e baba, parlare e confrontarsi con loro. Durante i pranzi e le cene sentivo che mi consideravano come una figlia. 
Il cibo era molto vario, dall’ugali, ai fagioli, al riso, ai chapati, alle verdure e la carne. Nel weekend ho avuto l’occasione di fare un Safari di 4 giorni con altri volontari ad Arusha. Viaggio spettacolare con un gruppo ben amalgamato. Le due settimane sono volate e quando ho scoperto che non potevo prolungare il mio soggiorno in Tanzania (il volo costava troppo) ero molto triste. Ho cercato di vivere a pieno gli ultimi momenti con i bambini. Sharon l’ultimo giorno mi ha ridato uno dei due braccialetti che le avevo regalato. “We are friends” mi ha detto. Lo porto al polso ogni giorno. Salutare la famiglia è stato davvero difficile. Salutare i bambini ancora di più. Speravo di andarmene mentre loro dormivano, non volevo dirgli che andavo via. Invece si sono svegliati prima che lo facessi. Li ho guardati e detto loro solo “Bye”. Come se stessi andando a fare solo un giro. Ma William mi ha guardata negli occhi e deve aver capito: mi ha preso la mano e mi ha trattenuto per un attimo. Il suo sguardo stava dicendo che gli dispiaceva, mi stava dicendo di restare, ma era come se mi stesse anche ringraziando. 
Non abbiate paure… quando sarete partiti scompariranno. Tutte le paure che vi ho elencato all’inizio della testimonianza si sono rivelate inutili (soprattutto non c’era l’ombra di un ragno). 
Questo viaggio mi ha cambiata, mi ha insegnato a sentire in modo più forte le emozioni, mi ha insegnato ad accoglierle. La Tanzania, un paese così diverso ma bello. Non posso credere che mentre vivevo la mia vita, lì succedevano cose completamente diverse. Non voglio dimenticarmi di loro, voglio ricordarmi che loro vivono in quella casa, che si lavano con un secchio, che giocano con archi di legno e corde, che portano la frutta in una cesta sulla testa, che hanno una terra ricchissima ma loro sono poveri, e nonostante questo sorridono. Guardare negli occhi neri di un bambino africano è leggere la storia di un continente.

Silvia Corio

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